“La gran fatica dell’esistenza non è forse insomma nient’altro che questo gran darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant’anni, o più, per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi.”

Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte

Harmony Korine ha sempre celato dietro la mancanza assoluta e radicale di giudizio nei confronti dei suoi personaggi, un’analisi profonda della contemporaneità come entità evanescente (e fatiscente) dalla quale non è possibile separare né il proprio corpo né tanto meno il proprio sguardo. Ma mentre in un’opera ferocemente nichilista come Spring Breakers lo sguardo demiurgico del regista si spostava a piacimento dentro e fuori dallo spazio cosciente dei protagonisti, vittime malinconiche di un mondo di fantasmi kitsch, in The Beach Bum Korine decide di perdersi completamente dentro gli occhi spalancati di Moondog, poeta lisergico di Key West che affronta la vita come un unico e costante stato di allucinazione ludico, fin quasi al parossismo.

Ogni conflitto potenzialmente drammatico nella vita di Moondog viene stemperato da un’idea di senso dell’esistere completamente votata allo scherzo e al carpe diem più estremo, ogni problema che sorge con l’ambiente circostante viene affrontato come un unico flusso di serenità che stona volutamente con le difficoltà reali a cui il mondo intorno a Moondog è obbligato a piegarsi, a vantaggio di questa figura quasi mitologica, portata sullo schermo da un Matthew McConaughey che fa dell’improvvisazione anarchica il mezzo più debordante della sua interpretazione.

Partendo da queste premesse tematiche, che si svelano da subito come estremizzazione del cinema di Korine, i versi sciolti di Moondog, interessanti proprio perché distaccati da ogni imposizione letteraria, costituiscono un gioco di specchi con un cinema che riesce in molti momenti a liberarsi da se stesso, senza la necessità di costruire una distanza con le maschere che decide di mettere in scena, ma diventando una di quelle maschere, che usano il grottesco come vero e unico veicolo per esprimere la propria sincerità nei confronti di una vita inevitabilmente problematica, la cui crudeltà va tuttavia tenuta nascosta, non tanto per mancanza di coraggio nell’affrontare il disagio, ma quanto piuttosto per una bizzarra presa di coscienza sul fatto che , tutto sommato, il dolore, la perdita, la rabbia, la morte, sono a ben vedere molto più superficiali della superficie stessa.

Questa superficie lucida e fosforescente su cui si muove il personaggio di Moondog quindi è il piano da cui The Beach Bum non si stacca mai, anche in momenti in cui la profondità di un’analisi più introspettiva richiama l’urgenza di sé, ed è proprio attraverso questa “militanza della superficialità”, che in Spring Breakers lasciava intravedere una disperazione evidente ma che qui rimane coscientemente gioiosa, che Korine ci riporta verso una paradossale responsabilità, che viaggia quasi niccianamente al di là di qualsiasi morale: la necessità di assecondare noi stessi. Attraverso questa necessità il film agisce come una lente deformante, sacrificando il mondo intero per l’assunto che non possiamo far altro che rimanere fedeli a ciò che siamo, al nostro impulso primigenio a essere candidamente egoisti, lasciando che tutto intorno a noi si pieghi a questo dato di fatto, a questa ontologia individualista che non prende neanche lontanamente in considerazione la possibilità di prestare attenzione alle conseguenze delle nostre azioni.

Come il Ferdinand di Viaggio al termine della notte il Moondog di The Beach Bum vaga barcollando per le strade del mondo, consapevole che la vita non possiede un significato né a prescindere né tanto meno se impresso da noi a posteriori, avvolto in una nube di fumo e alcool, dalla quale l’unica espressione significativa che vale la pena portare alla luce del sole è la poesia, o in questo caso, il cinema folle e libero di Harmony Korine.