All’indomani della partecipata proiezione de Gli indocili presso il Teatro Franco Parenti, curata da Filmidee e Tafano, pubblichiamo un’intervista alla regista Ana Shametaj, prima protagonista di un focus dedicato al cinema dei giovanissimi autori italiani under 30. Un’occasione per parlare dell’esperienza che l’autrice ha costruito nel tempo tra performatività e audiovisivo, e ragionare su episodi o questioni che possano dirsi parte di un’attitudine personale e di una possibile futura ricerca.

Quelli che ci stiamo promettendo di fare sono degli incontri dedicati ai giovani cineasti che oggi lavorano in Italia. Partirei quindi con una domanda che riguarda la tua formazione: quali studi hai fatto e qual è stato il tuo percorso personale?

Dopo il liceo classico e il conservatorio di musica ho fatto la Paolo Grassi, in cui ho acquisito gli strumenti di base per fare regia. Si studiava specialmente teatro di prosa, e questo mi ha permesso di imparare ad analizzare un testo e a dirigere degli attori. In quel periodo ovviamente vivevo molto il rapporto con il teatro da spettatrice, e la visione dei lavori della compagnia Valdoca e di Romeo Castellucci della Raffaello Sanzio mi hanno stimolata ad abbandonare l’assetto drammaturgico più tradizionale per avvicinarmi a qualcosa di diverso. Mi accorgevo che c’erano delle forze che premevano più della storia in sé, una sorta di tridimensionalità che provava ad emergere dal piattume delle strutture precostruite: un po’ come capita nel mondo di Flatlandia! L’anti-trama era diventato un mezzo per potersi concentrare meglio su queste forme, la lettura di Beckett mi aprì verso un nuovo mondo. Il linguaggio che avrei cercato di usare, plasmava la parola come una materia viva, poetica. In questo la scoperta e l’interesse per il mondo dell’arte contemporanea mi ha facilitato molto. Stavo vivendo una curiosità che si muoveva in più campi, interdisciplinare: il pensiero che è alla base del mondo contemporaneo.

Ed è quello che, per altro, sta alla base del collettivo di cui fai parte, i Kokoschka Revival. Raccontaci com’è nato.

Il gruppo è nato con la condivisione di uno spazio, una casetta vicino al centro di Milano in cui sulla carta si viveva in cinque, nella pratica si stava in cento! Passando molto tempo assieme agli altri abbiamo cominciato a condividere pensieri e dei progetti, che poi mettevamo in atto, quasi per gioco, durante delle feste organizzate in casa. Grazie a questa invenzione non solo avevamo la possibilità di mettere in pratica i nostri primi soggetti in forma di happening (ricordo che alcuni partivano da cose molto semplici e divertenti, come il nostro pesce di nome Cristo), ma è stata l’occasione anche per poterci finanziare gli spettacoli successivi. Le feste del Kokoschka ebbero un successo inaspettato: una volta si riempì di quasi trecento persone, per cui abbiamo cominciato a spostarci in altre location, come Macao per esempio. La forza da cui si muoveva tutto comunque era quella del ritrovo, il concetto di Revival. Il nostro valore aggiunto era quello di provare a non essere snob e, attraverso l’inclusività del gruppo, far sì che ogni componente del collettivo prendesse in mano un progetto senza che si creassero dei leader ingombranti. Ogni volta si provava a riscrivere la struttura disciplinare del collettivo. Certo, il tema del potere all’interno di un gruppo è un tema caldo… da regista mi domando spesso quali siano i limiti da delineare affinché il lavoro possa procedere senza che qualcuno prevarichi su qualcun altro. Pensare alle figure di un collettivo come dispensario di potenze, e non come portatori di potere, mi aiuta a capire meglio come voglio muovermi.

È bello credere che un gruppo di giovani possa partire dall’unione delle loro forze per costruirsi una dimensione lavorativa. Continui a collaborare con il collettivo? So che ci sono attori, compositori e altri drammaturghi con cui avete messo anche un nuovo spettacolo in scena.

Abbiamo appena presentato a Zona K l’ultimo spettacolo performativo You Fight! con la collaborazione di Ondina Quadri e Alice Raffaelli come protagoniste, Andrea Giomi con le sue sperimentazioni di design delle interazioni sonore, Fabio Brusadin alle interazioni video e il mio storico co-autore Riccardo Calabrò che mi ha aiutato come dramaturg, figura che può essere definita come l’assistente alla regia. Dopo qualche residenza ho chiamato altri due Kokoschka per finalizzare scene e costumi, Marialuisa Bafunno e Giulio Olivero. Anche qui siamo partiti da alcune immagini, per poi costruire la drammaturgia in seguito. Il tema se vuoi è inscrivibile in quello del trans-umanesimo, ovvero dell’umano computerizzato e delle macchine troppo umane: viene messa in scena una lotta sul ring di due boxer, che hanno gli occhi coperti da un visore di realtà aumentata. La mia domanda era: che tipo di relazione, in questo caso conflittuale (ma si tratta di una scelta drammaturgica), si può creare fra degli individui quando lo sguardo verso l’altro viene negato? Stiamo diventando sempre più autoreferenziali, noi persone come gli ambienti in cui ci muoviamo. Dal VR infatti, le protagoniste possono solo vedere il flusso video della realtà e non la realtà stessa, con inversioni di prospettive costanti che complicano l’andamento di un gioco a punti. Il mediale diventa un imperativo percettivo, e la realtà sembra uno spazio spaventoso. Mi interrogo molto sull’illusione del tempo libero che ci viene concesso, e sulla questione dello sfruttamento del lavoro: penso che l’invasività tecnologica, che in questo spettacolo è quasi barocca per la sua esosità, si stia insediando anche negli spazi dedicati alla riflessione personale, quella più nuda se vogliamo. È sempre più difficile mettere a fuoco un punto sulla nostra interiorità. Mi sembra che noi giovani stiamo perdendo, attraverso tutti questi meccanismi e queste strutture, la possibilità di poter sbagliare… l’errore è il primo passo verso un autentico atto poetico.

In qualche modo stai anticipando uno dei temi chiave del tuo primo lungometraggio, Gli indocili. A un certo punto viene citato il filosofo coreano Byung-Chul Han, dove si racconta dell’esperienza di “separarsi dagli altri per andare nel bosco, e lì perdersi. Solo in questo modo si può trovare quel che si stava cercando: perdendosi. Questo episodio ha a che fare con una relazione differente con il tempo, ovvero, tirarsi fuori dal tempo ma restare dentro al presente. Praticare collettivamente questa esperienza è il primo atto di rivolta…”

Esattamente. Nel film troviamo l’esperienza del perdersi sia nella sua forma concreta che concettuale. Durante la residenza ad Arboreto, si facevano spesso delle lunghe camminate per il bosco, con l’intenzione di perdersi davvero. Ogni giorno seguivo una ragazza o un ragazzo diverso, e gli chiedevo di fermarsi in un luogo significativo per loro e di recitare. Questo è quello che ho ripreso, e che compare in diverse scene del film: l’operazione consisteva nello scavare all’interno del loro paesaggio interiore, in modo tale che le persone si trasformassero in paesaggio. Per questo esperimento, alcuni hanno scelto di aggrovigliarsi tra i rovi, altri di salire sugli alberi, altri ancora di nuotare nudi nel lago. L’apertura fisica nell’ambiente è in grado di trasformare l’interiorità, ma per farlo è sempre necessario il dubbio, essere pronti a plasmarsi sull’inatteso. Essere indocili consisteva in questo: avvalorare la nostra vulnerabilità, e con un gesto epico provare a recuperare l’eroe che è dentro ognuno di noi. Gli insegnamenti di Cesare Ronconi e quelli in versi di Mariangela Gualtieri ci hanno guidato. L’indocile ero per prima io, la ragazza con la macchina da presa. Mi son dovuta inserire all’interno di un ingranaggio performativo, con la differenza che il mio corpo era la videocamera. C’è stato bisogno di una grande complicità con gli altri, sentirsi parte del gruppo; solo così ho potuto documentare appassionatamente la performance teatrale.

Interessante l’idea di un “documentare appassionato”. Sembra che per il tuo film non si possa parlare di un documentario vero e proprio, quanto più di una documentazione empatica, un diario di bordo. All’interno si creano diversi cortocircuiti, come per esempio il fatto che le persone che filmi non recitano, ma allo stesso tempo lo fanno, essendo degli attori! E ancora, ti trovi a sperimentare diversi linguaggi: troviamo alcuni momenti onirici in cui la macchina si esibisce a favore della danza, del paesaggio e della musica…

Questo emerge perché si tratta sempre di un gioco, nel teatro come nel mio modo di approcciarmi al lavoro. Figurati che per alcune scene di girato mi son travestita da uccellino e ho saltellato con la camera in mano per riprendere gli attori in scena! Poi quelle riprese erano completamente fuori, quindi non le ho potute inserire nel film… ma certo, il luogo in cui è avvenuta la residenza del Teatro Dimora, a Mondaino, ha giocato un ruolo centrale nella costruzione delle scene. In questo modo si comprende bene l’incrocio fra teatro e cinema: nell’uso fertile della scenografia! Alcune riprese, per esempio, sono state fatte dal graticcio di scena con una visione zenitale, e solo da questo punto di vista son riuscita a ottenere delle immagini particolari, grazie ad una prospettiva sopraelevata. I giochi di specchi e di vetri che compongono la sala delle prove, e che si affacciano sul bellissimo panorama circostante, mi hanno permesso di creare nuovi rapporti di spazio. Per quanto riguarda la musicalità, ho imparato che il taglio è alla base di tutto: nel montaggio come nella carne dal macellaio! Bisogna trovare il ritmo emotivo della poesia in scena. Non si tratta di adagiare delle immagini sulla musica come si fa nel videoclip, ma al contrario, trovando la musicalità nelle forme circostanti. Il resto è un gioco di punteggiatura, come mi ha insegnato Jacopo Quadri. La sostanza di questa danza è quella dei contrasti, che ci permette per esempio di costituire uno stile epico e povero allo stesso tempo. Non so se mi sono spiegata…

Certo che ti sei spiegata… c’è ancora qualcosa che ti va di dire prima di prenderci un’altra birra?

Forse l’ultima cosa che mi va di dire, e che penso sia centrale nel mondo della produzione culturale contemporanea, è il discorso dell’apertura nei confronti del pubblico. Sarà perché ho incominciato ad appassionarmi al teatro partendo da quella posizione, ma penso sia importante non dimenticarsi di lui e provare a venirgli incontro. Son contraria al sistema elitario del nostro settore, anche se mi rendo conto dei limiti che possa avere forzare alcuni meccanismi in modo tale da renderne più accessibili i contenuti. Con il mio film comunque credo di essere giunta a un giusto compromesso… Viste come stanno andando le cose oggi nel mondo, penso che siamo davvero fortunati per tutti gli stimoli che ci vengono dati e allo stesso tempo molto sfortunati per la saturazione di informazioni a cui siamo esposti che non ci fa raggiungere delle sintesi emotive precise . Io non voglio perdere il contatto con la realtà. Mi voglio impegnare perché la cultura ritorni ad avere un ruolo centrale nella crescita esperienziale del più ampio spettro di persone possibile, se no che senso ha per noi stare qui? Per farlo, credo sia necessario aprirsi all’alterità e al dubbio di cui ti parlavo prima… provare ad essere tutti un po’ più indocili.