Ogni millennio ha la cosmogonia che si merita. La nostra, sul finire di questo disgraziato 2020, è magicamente accessibile dagli schermi di casa, grazie ai dispositivi digitali e alla piattaforma Disney+. Complice la pandemia, non sono più necessarie liturgie o recinti separati dalla prassi quotidiana, come le sale cinematografiche. Tutto è a portata di mano, disponibile in maniera semplice e senza comportare sforzi. La promessa di comodità che caratterizza la fruizione di Soul è d’altra parte perfettamente coerente con l’anima stessa del film: un tentativo di compendiare il senso dell’esistenza umana e dell’ultraterreno secondo i familiari e amatissimi parametri Pixar. Nell’ottica di quella sintesi perfetta tra pensiero liberal, controcultura sessantesca ed emotional marketing che da 25 anni caratterizza le creazioni dello studio.

Soul è anche, però, un film bivio per la Pixar, dopo le dimissioni di John Lasseter e la consegna delle chiavi creative a Pete Docter. Quest’ultimo, incaricato di ripulire l’immagine offuscata dell’azienda e di far evolvere la rappresentazione delle identità minoritarie, ha puntato su un’operazione conservativa dal punto di vista dei temi ricorrenti – l’accettazione di eventi ed emozioni negativi, il rapporto con le origini, il valore formativo del cambiamento -, ma audace sotto il profilo narrativo. Perché con Soul, per la prima volta nella sua storia, la Pixar rinuncia alla metafora. Non sono più giocattoli, mostri, robot, animali o figure umane caricaturali a rappresentare le nostre passioni più universali. Al contrario, a farlo è un uomo dalle fattezze verosimili e dal look vagamente hipster, che si muove in una New York iperrealista, in scala 1:1, curata sin nel più marginale pixel. Un cambiamento significativo, questo, perché proprio per evitare di incappare nella cosiddetta “uncanny valley”, ossia il senso di disagio suscitato da una riproduzione troppo simile al vero, i lungometraggi precedenti segnalavano in maniera evidente la propria artificiosità. In Soul, invece, l’osservatore è immerso da subito nel più prodigioso fotorealismo, salvo poi essere catapultato improvvisamente in un Ante-Mondo schematico e stilizzato, ridotto a linee che sembrano omaggiare e mescolare gli stili di Cavandoli e Picasso. Un dualismo che rappresenta bene la polarità entro cui si muove l’immaginario della nuova Pixar: da un lato, non far rimpiangere il cinema live action mediante la mimesi perfetta con i colori, i suoni e gli odori della realtà; dall’altro, veicolare una tradizione figurativa nobile per rivendicare il proprio statuto di prodotto artistico. La cosmogonia raffigurata da Soul non è dunque pertinente solo all’esistenza umana, ma anche, in piccolo, all’industria dell’intrattenimento, perché attraverso essa la Pixar intende configurarsi come un universo indipendente, autarchico, in grado di soddisfare qualunque tipo di esigenza fruitiva.

Abbandonare la metafora, tuttavia, vuole anche dire rinunciare a un possibile livello di senso, e dunque a una fetta importante del proprio pubblico. In questo senso, Soul appare come un film poco adatto ai bambini, e indirizzato a un’altra fascia di spettatori ben precisa. Vale a dire a quella – oggi molto più ampia di quella infantile, a dire il vero – che condivide il nucleo emotivo attorno a cui è costruito l’intero film: il senso di fallimento. È già stato scritto che Soul è un capolavoro, e forse lo è proprio nella misura in cui riesce a cogliere, con spregiudicatezza e senza mediazioni, quale sia oggi il sentire più condiviso dalla popolazione di buona parte del globo. Mai come in quest’ultima creazione di Docter, infatti, è leggibile a grandi lettere l’indagine di mercato, la definizione di un target che è quello dei fan della prima ora dello studio, che dopo essere stati incantati da Toy Story, sono cresciuti anagraficamente con le altre produzioni, coltivando l’amore per l’intrattenimento intelligente, per la libera manifestazione emotiva e per la tecnologia al servizio del progresso. E lo hanno fatto, spesso, cimentandosi in settori in cui la creatività gioca un ruolo determinante, o in carriere artistiche dalle alterne fortune. La fede nell’esistenza di professioni remunerative e intellettualmente appaganti, come sappiamo, è stata smentita dagli scenari economici e sociali degli ultimi due decenni, e con lei è venuto meno anche il positivismo che aveva guidato la rivoluzione della Silicon Valley, così determinante per la nascita della Pixar. Le dinamiche narcisistiche e competitive dei social hanno fatto il resto, lavorando ininterrottamente su aspettative e confronti con l’altro da sé via via più divoranti  e frustranti. Così il protagonista Joe Gardner, più che raffigurare con il suo talento per il jazz la minoranza afroamericana della società statunitense, incarna alla perfezione un diffuso dissidio generazionale che raramente è stato presentato in maniera tanto netta sul grande schermo. Ancora una volta, come in La La Land, il jazz funge da chimera per chi insegue un passato perduto. Perché, da un lato, il jazz è visto come l’antitesi della musica pop e del pensiero dominante, in quanto sgorga dall’imprevisto e dall’individualità, e dall’altro, è la fonte primordiale a cui si può attingere solo a patto di disconnettersi e, inevitabilmente, rinunciare a stare nel proprio tempo. Se nel film di Damien Chazelle questo significava dire addio all’amata, in Soul ciò si traduce più prosaicamente – e, ancora una volta, con un livello di realismo a tratti impressionante – nel lasciare un lavoro sicuro e le relative garanzie previdenziali, come viene spiegato a Joe. È significativo che a spezzare la crisi interiore del protagonista possa essere solo l’estrema ratio, ovvero la morte, e con lei l’accesso a una dimensione metafisica. Come a dire che le chiavi per dirimere una delle questioni più logoranti per gli adulti di oggi non sono rintracciabili nella realtà, in una qualsivoglia forma di lotta politica, sindacale o di altro genere, ma solo in un eventuale altrove incorporeo. Lo dimostra il fatto che Moonwind, il mistico hippy che permette a Joe di trasgredire le regole e di provare a riaffacciarsi sulla Terra, lo possa fare soltanto in una dimensione astratta, mentre nella realtà è ridotto a vivacchiare, ignorato da tutti, ai margini della strada.

Ma, oltre a questa pars destruens circa l’impossibilità dell’individuo di incidere sul corso degli eventi, Soul contiene anche una pars construens altrettanto lucida ed emblematica. Una proposta di vita ultraterrena che segna uno scarto profondo rispetto ad altre operazioni apparentemente analoghe, come La vita è meravigliosa (Frank Capra, 1946) o Scala al Paradiso (Michael Powell, Emeric Pressburger, 1946). Perché quello che Soul introduce – e senza l’ironia e la divertita ambiguità che caratterizzava quei due titoli – è la possibilità che le anime non siano giudicate e classificate sulla base di criteri morali, o concetti soggetti al logorio del tempo come il bene e il male. Quando Joe viene scambiato per un luminare di psicologia e chiamato ad aiutare l’anima 22 a trovare la propria scintilla, il percorso di vita del medico viene sintetizzato attraverso una galleria di momenti salienti: premiazioni, discorsi pubblici, sedute con i pazienti. Allo stesso modo, il protagonista, una volta sbugiardato, viene sottoposto alla visione della sua vera galleria: una serie di colloqui andati male, di porte sbattute, di insuccessi plateali. Nulla di davvero privato, intimo, in cui rientri un’idea di coscienza o di vita interiore: il valore della sua esperienza è infatti misurato sulla base di prestazioni verso la società, di performance più o meno riuscite. E d’altra parte non è un caso che la formazione delle anime nasciture avvenga proprio su un palcoscenico: non di teatro, bensì aziendale, da convention, con tanto di video e discorsi motivazionali. Perché, anche in questo caso, la corporation non è metafora, ma messaggio. In questo paradiso fatto di aurore boreali, le anime sono programmate con quella che viene chiamata scintilla, ma che parrebbe in tutto e per tutto un software. Ovvero, un sistema invisibile che successivamente verrà educato attraverso l’esperienza quotidiana sulla terra, fatta rigorosamente di piccole cose: il sapore della pizza, un concerto, una foglia. Non sono contemplati, nel progetto cosmico, grandi obiettivi destinati al fallimento o marcescenti aspirazioni collettive, perché il fine ultimo di Soul, così come quello dello spazio pedagogico dell’Ante-Mondo, è di ottenere il miglior risultato possibile con il minimo sforzo. Consolare e assolvere, dunque, più che motivare. Promuovere ciò che è carino, più che invitare ad aspirare al bello. Mantenere lo stato di perenne fanciullezza dell’uditorio, più che spingere a prendere davvero coscienza dei propri limiti.

A chi si chiede se questo, con la sua devastante pervasività, sia il solo percorso praticabile per dominare i fallimenti personali e gli squilibri prodotti dal narcisismo contemporaneo, consigliamo di vedere The Disciple (2020) di Chaitanya Tamhane. Un’altra parabola su un musicista sfinito dalla propria ossessione, ma anche una ricerca del bello e dell’assoluto che non si placa mai, nonostante vengano via via a galla le reali dimensioni del talento in gioco. Forse non è un caso che dalla New York di Soul si sia passati a Mumbai, in India: una terra in cui i computer hanno portato a una rivoluzione molto meno poetica, ma ben più concreta, di quella della Silicon Valley.