“La mia intenzione era di far conoscere alla gente la verità, la verità per come la intendevo io allora”. In uno dei momenti decisivi di Tipografic Majuscul, in anteprima italiana al Trieste Film Festival, Mugur Calinescu individua in questa volontà produttiva il movente della sua azione rivoluzionaria: il ragazzo dice di aver scritto sui muri frasi antigovernative per “fare conoscere la verità alla gente”, per far conoscere la verità alle loro coscienze e portarle all’azione, alla ribellione contro il regime. Ma cosa intendono le parole del ragazzo? Come può una scritta sul muro, quella che è una banale e approssimata forma di rappresentazione, un linguaggio ai minimi termini, produrre la verità? Questa concezione della verità come qualcosa di produttivo non è inedita nel cinema di Radu Jude: l’ha incarnata Mariana Marin, la regista, non la poetessa, dello spettacolo sul massacro di Odessa in I Don’t Care If We Go Down On History As Barbarians, il precedente film del regista romeno; per lei la messa in scena dell’evento storico poteva e doveva sollevare le coscienze distratte degli spettatori e dei cittadini romeni ma per farlo era necessario riprodurre tutti i fatti alla lettera (ovviamente su un piano scenico) secondo un severo criterio di corrispondenza. La messa in scena doveva cioè rispettare la verità dei fatti, perché la verità sta nei fatti, e una preposizione (l’elemento minimo di un linguaggio) è vera solo se il suo contenuto corrisponde a uno stato di cose (insieme di fatti) esistente nel mondo. La rappresentazione può produrre coscienza della realtà nella mente delle persone solo se c’è corrispondenza tra rappresentazione e mondo.

Le scritte con cui il giovane romeno denuncia lo stato di povertà e indigenza del suo popolo sotto la dittatura di Ceausescu appartengono a una verità produttrice, che si vuole capace di creare un cambiamento coscienziale, perché corrispondono allo stato dei fatti, allo stato delle cose, e allo stesso tempo rilevano una discrepanza. Non è un caso che sia l’ascolto, da Radio Europa Libera, di descrizioni non corrispondenti alla realtà a innescare nel ragazzo la volontà di scrivere sui muri le verità: così come il vero è corrispondenza tra rappresentazione e fatto il falso è la discrepanza tra rappresentazione e fatto. Ed è questa discrepanza, il falso, a essere rilevato dalle frasi di Calinescu, ed è per questo che quelle frasi producono un cambiamento: fanno conoscere la verità, cioè rappresentano correttamente il mondo, a differenza di quanto fa il falso. La verità produttiva non è però l’unico tipo di verità presente nel cinema di Jude, esiste anche un contro movimento che risponde all’intensità del vero come corrispondenza con altrettanta insistenza produttrice; non è esattamente il falso, ma è la verità producibile, cioè la verità come prodotto, quella incarnata per esempio, sempre nel precedente film di Jude, dall’atteggiamento del personaggio di Costantin Movila quando si prende gioco delle teorie di Mariana dicendo che “la verità sta nelle preposizioni, non nei fatti” e poi le chiede di non rappresentare tutti i fatti del massacro.

L’esempio di verità producibile più evidente però si vede in Tipografic Majuscol grazie alla grande riproposizione di materiali d’archivio dell’epoca del regime di Ceausescu: si tratta di materiali video della televisione romena dell’epoca. In questi materiali d’archivio, che compongono buona parte del film e costituiscono la risposta dialettica alle scritte prodotte da Calinescu, la vita della Romania all’epoca del regime (l’anno è soprattutto il 1981 ma è considerato l’arco 1981-1985) è raccontata secondo certi moduli narrativi, secondo un programma di finzione, che però non è ovviamente rappresentato come tale. È una messa in scena costruita, una verità prodotta, un copione da interpretare, come illustra alla perfezione la prima scena del film, in cui tre cittadini in una trasmissione televisiva inizialmente appaiono completamente credibili nel trasporto emotivo con cui decantano le lodi di Ceausescu e poi si rivelano interpreti un po’ estenuati, in attesa di un testo da leggere che tarda a comparire sullo schermo. Perché verità producibile e non semplicemente falso? C’è un passaggio dialettico da sottolineare: una rappresentazione che non corrisponde al mondo è falsa e questa falsità sottolinea la natura meramente rappresentativa, arbitraria, della rappresentazione stessa; quando però alla rappresentazione falsa si toglie il carattere di finzione e viene naturalizzata, cioè viene venduta come la realtà, il falso diventa vero, un vero prodotto arbitrariamente (“nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso”). Questa verità producibile, questo “vero” prodotto, è spettacolo: i materiali d’archivio che illustrano scene di idillio, momenti di show televisivi, interviste a persone comuni, riprese di parate, inchieste e pubblicità sono frammenti di una “enorme positività indiscutibile” in cui “ciò che appare è buono, ciò che è buono appare” e che richiede “accettazione passiva”, schegge di una “società dello spettacolo” che è realtà assunta come vera. Le due verità si scontrano e si rispondono dialetticamente, in cerchio, rispondendosi a vicenda in una rincorsa sanguinosa: da una parte l’epistassi incontrollabile delle scritte di Calinescu, che cortocircuitano la tranquillità anestetizzata del regime e allarmano la Securitate, il servizio segreto del regime, e dall’altra la filiazione incontrollata di immagini generate dal montaggio della produzione televisiva; da una parte l’azione di protesta di un giovane della patria che si è rivolto contro la patria, contro i precetti nazionali impegnati a istituire la gioventù come momento di fondazione del regime, e dall’altra la costruzione mitopoietica di Ceausescu come figlio eletto della patria, erede prescelto che tiene in sé la sorte gioiosa della nazione; da una parte una madre distrutta da condizioni di lavoro insostenibili – che provocano nel figlio il desiderio di rivelare le condizioni dei lavoratori – e dall’altra la madre patria, generatrice inesistente ma sempre fertile del futuro del Paese. Questo circolo, questa lotta è raccontata alternando al materiale d’archivio non le immagini delle scritte – Jude le mostra solo nel finale, in virtù della loro esplicita carica epigrafico funebre – ma una rappresentazione teatrale che segue passo passo l’evoluzione reale delle vicende, personali e giudiziarie, di Calinescu (il film è tratto da una piece di Gianina Carbunariu); in particolare una rappresentazione costruita sulla lettura da parte degli interpreti dei dossier archivistici della Securitate.

In che modo questa ulteriore prospettiva di senso si integra nel circolo delle due verità e addirittura le sostiene? Perché Jude, che nella storia dello spettacolo sul massacro di Odessa rappresentava la dialettica vero-falso sciogliendola in un unico movimento di senso indistinguibile, in un unico take sulla scena, in-forma, eleva a un’ulteriore potenza, la rappresentazione della storia? Perché teatralizzando la vicenda decostruisce la realtà spettacolare naturalizzata dal regime: Jude individua nella coercizione della lettura del copione che si fa vita e respiro – esattamente come nel caso degli individui/interpreti all’inizio del film – l’elemento da sottolineare per rivelare la natura falsa, la natura coercitiva di quella realtà – e infatti contrae, riduce la rappresentazione teatrale alla sola lettura del copione. Nella messa in scena tutte le controparti, dai genitori di Calinescu ai suoi amici agli agenti della Securitate, interpretano un testo-legge imposto che rende ingranaggi inconsapevoli e impotenti e allo stesso tempo responsabili, responsabili della soppressione ideologica delle idee del ragazzo, ridotto a riconsiderare le sue azioni: soppresso da tutte le figure intorno a lui in un crudele processo alle intenzioni Mugur è trasformato da campione della verità in grado di produrre cambiamento a prodotto di una verità costruita, reintegrato nel regime (“la verità per come la intendevo allora”) che aveva cercato di sovvertire. La parallela alternanza delle scene teatrali e della propaganda televisiva attiva un processo di risignificazione che modifica la percezione dei materiali d’archivio, perché quando le scene teatrali si rivelano come la rappresentazione di uno stato di cattività invisibile il materiale spettacolare di propaganda, che già poteva essere indizio di una stortura, assume i connotati di una vera e propria farsa criminale, di un crimine contro l’umanità travestito da festa – e sul finale da rito. Come si vede nell’intervista in cui il montaggio fa sembrare che un operaio che perde la mano lavorando a un torchio sia fiero della propria mutilazione – che sia proprio il montaggio a ricucire le lacerazioni prodotte da realtà perturbanti è solo un’altra prova dell’inesauribile senso dell’uso dei materiali d’archivio.

Non deve sembrare paradossale che Jude ottenga l’estensione del reale da una forma così pensata e straniata: la rappresentazione non cerca il realismo assoluto, la perfetta coincidenza – la perfetta coincidenza è un’illusione impossibile da realizzare – bensì la corretta corrispondenza fatto-mondo: così come delle scritte su un muro che esprimono lo stato delle cose non sono di fatto lo stato delle cose, la messa in scena di Jude non è chiaramente l’insieme degli eventi messi in scena e non può esserlo, perché è un linguaggio. Siccome la verità di una preposizione è l’esistenza dello stato delle cose che rappresenta è impossibile uscire dal linguaggio, costruire un metalinguaggio, perché questo vorrebbe dire uscire dal mondo, elevarsi sopra esso: è forse proprio per questo che tutto il mondo che emerge proviene da materiali di montaggio oppure dalla lettura dei dossier dell’epoca. Il realismo è impossibile perché non è dato un terzo occhio che guarda alla realtà da un punto di vista che la ricomprende interamente; la messa in scena di Jude non è quindi metalinguistica, ma viene piuttosto gettata nell’intrascendibilità del linguaggio.

Questa “impossibilità di uscita” rivela anche la natura meramente tautologica del mondo dello spettacolo, in cui i mezzi sono gli scopi (la rappresentazione televisiva del popolo è il popolo) e non c’è riferimento alla realtà dei fatti ma produzione di una realtà a sé stante; la coscienza dell’intrascendibilità rivela e smonta la stortura tautologica dall’interno, cioè paradossalmente mostrando tantissimo materiale di propaganda. In questo modo risulta chiaro che se il materiale d’archivio è verità producibile e quindi prodotta non sono solo le scritte di Calinescu a essere forme di verità produttiva in lotta ma anche proprio la rappresentazione di Jude. Quando alcuni agenti della Securitate riportano che il loro tentativo di ripulire i muri ricoperti dalle scritte è parzialmente fallito asseriscono che l’irregolarità della pietra rendeva impossibile la cancellazione completa: ecco, le immagini di Jude sono scritte impossibili da cancellare perché segnate su una superficie irregolare, la superficie della menzogna storica; o meglio, con la loro natura straniante fanno emergere l’irregolarità, cioè la profondità, di una superficie che si pensava piatta. E se la loro intensità emozionale è direttamente legata alle vere scritte mostrate nel finale del film, dopo il report della morte di Calinescu, la loro urgenza è legata al tipo di immagini che popolano il panorama romeno contemporaneo: immagini che non sono scritte corrosive ma cartelloni pubblicitari globalizzati, figlie di un’altra società dello spettacolo che ha “liberato” il popolo dal sistema totalitario con un’altra forma di totalitarismo naturalizzato, ormai completamento accettato, dato per scontato, come un copione da interpretare per respirare. Un copione da interpretare respirando che impone condizioni storiche e quindi modificabili, ma naturalizzate e quindi apparentemente intoccabili. Da dove sorgeranno le scritte in maiuscolo che riveleranno che anche questo mondo è un momento del falso? [Leonardo Strano]


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Nel ciclo dell’oppressione

Presentato in anteprima italiana nella sezione Fuori dagli Sche(r)mi, Numbers (Nomery) è il film che il regista ucraino Oleg Sentsov ha iniziato a seguire nel 2017, a partire da un suo precedente testo teatrale, mentre scontava una pena ventennale in una prigione russa di massima sicurezza, condannato per presunta attività terroristica dopo le decise proteste contro l’annessione russa della natia Crimea. Un film diretto a distanza, per procura, grazie all’intervento di una solida rete di sodali produttivi e artistici (la co-regia è del conterraneo Akhtem Seitablaiev), pronti a sostenere il progetto mentre l’autore inviava le sue indicazioni di messinscena per lettera dalla colonia penale negli Urali polari; e al contempo un film manifesto, in chiave testamentaria, che il regista intendeva lasciare ai posteri mentre avviava uno sciopero della fame che avrebbe potuto condurlo alla morte, se non fossero sopraggiunti dopo intense proteste, nel 2019, il suo rilascio e il ritorno in Ucraina nell’ambito di uno scambio di prigionieri con la Russia.

Il caso Sentsov, divenuto emblematico della condanna da parte della comunità internazionale, non solo cinematografica, verso le forme arbitrarie e disumane della sedicente prigionia politica, oggi trascende il giudizio che del film si può dare in senso esclusivamente artistico: la storia di dieci umani senza nome e identificati soltanto per mezzo di altrettanti numeri, che in una società distopica obbediscono a una quotidianità insensatamente disciplinata dal volere di un’autorità divina, il Grande Zero, non si distingue per imprevedibilità ma pulsa di un’inguaribile febbre allegorica, apertamente proposta alla contemporaneità.

La scena prepotentemente teatrale – un mondo/palcoscenico inverosimile nelle forme ma granitico nei principi (assurdi) – eleva al quadrato la percezione della prigionia e del totalitarismo tout court: in questo universo straniante e a più riprese satirico (una sorta di campionato regola l’esistenza dei protagonisti sotto lo sguardo impersonale di due giudizi armati e della pigra, vuota figura di un leader sospeso a pochi metri dagli altri), la domanda tematica non riguarda soltanto le vicende individuali dei singoli, tutti presi in una ronde emotivo-relazionale sempre esposta al baratro della paura e dell’autocensura, ma la ciclicità di ogni dimensione oppressiva dell’ordine sociale, in cui qualsiasi elemento di novità finisce per nutrire il meccanismo fatale della coazione a ripetere.

Sulle note di un’inesauribile marcetta circense, i cinque atti del film contaminano l’unità aristotelica di luogo con un eterogeneo ventaglio di sfumature recitative, che include il dramma naturalistico, la slapstick, l’overacting tipicamente meta: la bolla atemporale che sembra costituire la premessa del racconto precipita presto in una deriva in aperta accelerazione, dove l’impianto scenico, simile a una macchina imperscrutabile, rivela l’orrore di un mondo privato di ogni libertà d’espressione, l’inferno che nessun gioco o simulazione può mascherare. [Marco Longo]