Ariel

Se per Shakespeare tutto il mondo è un palcoscenico, la forma del film di Lois Patiño ne rappresenta la diretta conseguenza. Augustina Muñoz, la protagonista di Ariel, condivide il nome con l’attrice che la interpreta e si ritrova a intraprendere un viaggio verso le Azzorre per recitare in un adattamento di La Tempesta, già al centro del cortometraggio Sycorax (2021) del regista galiziano.

Le isole assumono il ruolo di palcoscenico ideale: luoghi regolati dalle dinamiche del sogno, accessibili solo dopo che l’intero equipaggio della nave sembra essere sprofondato nel sonno. In questo spazio magico e assurdo si istituisce una corrispondenza diretta tra esistenza e performance attoriale, con figure che, nella loro apparente follia, sono convinte di essere i personaggi delle opere del Bardo.

La dinamica onirica si traduce in un doppio movimento, non contraddittorio, che mette in discussione i confini tra ciò che è reale e ciò che è significativo: da un lato, la presenza di un’immagine-sipario capace di occultare la propria origine; dall’altro, l’affermazione della necessità del risveglio, essenziale per impedire che tutto si ripeta eternamente senza cambiamento. Il tema shakespeariano dell’incompatibilità tra volontà e libertà umana si amplia qui in una riflessione sull’eventuale possibilità di quest’ultima all’interno della rappresentazione artistica.

Questa ricerca prende avvio dalla ribellione dei personaggi al proprio destino, che si manifesta attraverso la dinamica più classica del risveglio da uno stato febbrile: il riconoscimento del proprio sdoppiamento. Ariel è, non a caso, l’unico personaggio interpretato da più attrici, nonché l’unico realmente consapevole dell’assurdità di quanto accade sull’isola. Una consapevolezza che si riflette nella natura astratta e mentale del luogo, rafforzata dal lavoro compiuto dal regista su immagine e montaggio, intervenendo con pari intensità sui colori e sulla relazione fra immagini apparentemente disgiunte.

Patiño, con un discorso di matrice pirandelliana e apertamente metanarrativo, ci conduce in un viaggio che genera un’estasi paralizzante pur rivelando la propria origine finzionale: una contraddizione che solo i grandi film riescono ad abbracciare.

Lorenzo Scanni


Monólogo Colectivo

Monólogo Colectivo di Jessica Sarah Rinland è un documentario ambientato in diversi centri di recupero faunistico e zoo in Argentina. Attraverso osservazioni silenziose e frammenti di vita quotidiana, il film racconta la relazione tra esseri umani e animali in contesti dove la cura sostituisce il controllo e il lavoro quotidiano si trasforma in dialogo interspecie.

Rinland firma un’opera che sovverte le convenzioni del documentario naturalistico per proporre una riflessione profonda e intimista.. Le operatrici dello zoo non sono autorità distanti, ma figure amorevoli e coinvolte. Si muovono nello spazio come madri silenziose, osservano, toccano, accudiscono. È attraverso questi gesti – nutrire, pulire, medicare – che si esprime un legame profondo, basato sulla condivisione dello stesso ecosistema.

Il titolo stesso, Monólogo Colectivo, rimanda al concetto formulato da Jean Piaget per indicare quella fase dell’infanzia in cui i bambini parlano senza ascoltarsi davvero. Rinland suggerisce la possibilità di superare quel monologo umano, da sempre dominante, per arrivare a una coesistenza basata sull’ascolto reciproco, sul riconoscimento dell’altro – animale, umano, vegetale– come parte integrante e viva dello stesso sistema. Questo passaggio è il cuore del film, e si manifesta non solo nella cura degli animali, ma anche nella manutenzione degli habitat artificiali che li ospitano. L’uomo, qui, non è padrone ma manutentore: chi ripara, sistema, preserva.

Rinland adotta uno stile sobrio, senza voce narrante né spiegazioni, lasciando che suoni e immagini guidino l’esperienza dello spettatore. Ogni scena diventa un piccolo quadro etico e poetico. Tuttavia, proprio questa coerenza stilistica può trasformarsi talvolta in ridondanza. Il film, con i suoi 104 minuti, tende a ripetersi visivamente e concettualmente, e alcune sequenze avrebbero potuto essere ridotte senza intaccare la forza del messaggio.

Nel finale, una delle operatrici lascia il centro e si ritrova nel caos urbano. Il contrasto tra il rumore della città e la quiete dello zoo sottolinea quanto la convivenza armonica tra specie, faticosamente costruita, resti fragile e isolata. Portarla nel mondo esterno è la sfida che ci attende.

Edoardo Fratangeli


New Dawn Fades

Come un sogno o una poesia, New Dawn Fades di Gürcan Keltek è un film marchiato da un’impronta intensamente intima. La sua scrittura cinematografica è tattile, scorre naturalmente e si erge come un atto politico di tenerezza e un ritorno umanistico. Attraverso il film, scorgiamo un’esistenza “là fuori” che rimane, tuttavia, sfocata.

Nell’odierna società in cui prevale un’estrema razionalità strumentale, in un’epoca in cui ogni anomalia può essere nominata, etichettata e prescritta, il sé del protagonista svanisce gradualmente come un confine che si dissolve in questo mondo. Parole come depressione o schizofrenia sembrano così leggere, mentre il peso esistenziale, l’indicibile sprofondamento che il protagonista sopporta, è immensamente grave. La casa appare solamente come un recipiente che contiene il corpo, la medicina moderna non offre risposte, quelle religioni di cui possiamo pronunciare il nome non forniscono conforto, e anche il linguaggio si disperde nell’aria come bolle di sapone. Seguiamo il protagonista mentre vaga tra gli edifici emblematici della Turchia, assistiamo alla separazione tra il suo spirito e la carne, fino a quando il suo vagabondaggio diventa il nostro respiro.

Nel corso del film, lo spettatore viene calato nell’esperienza privata del protagonista, bloccato in una condizione di paralisi esistenzialista che lo immobilizza spiritualmente e ne spinge il corpo ai limiti estremi, fino all’esaurimento totale. Questo stato primordiale dell’essere-gettato-nel-mondo, la pragmaticità trascendentale dell’esistenza – una condizione vischiosa in cui si è eternamente immersi, condannati a proseguire senza ricevere risposta – tuttavia trova una svolta nel finale del film: attraverso gesti ripetitivi e ritualizzati, il sé culmina in un spiritualismo laico. Non si tratta di redenzione, ma piuttosto di una purificazione del tempo-spazio e della forma, un prolungamento del gesto di partire, di andare -via, un’eco in qualche modo trascendente.

Il film rivela agli spettatori stati di follia e irrazionalità che la società non riesce ad accogliere, e proprio qui risiede la natura rivoluzionaria e politica: non nell’essere passivamente rappresentati, ma nel riappropriarsi attivamente delle esperienze delle immagini per vedere ed essere visti nell’imprevedibilità dell’accadere. Il regista rivolge un’attenzione particolare alla banalità quotidiana, praticando una resistenza alle grandi narrazioni dominanti e una ricerca dell’autenticità che tenta di recuperare l’esperienza vissuta, diretta e genuina. Così, la forza liberatoria del film ci riporta allo stato pre-linguistico dell’infanzia, esplorando l’impossibilità della ragione stessa.

Jingni Zhang