Le prime volte

Due voci si rincorrono, si sfiorano, si scrivono attraverso il tempo. Emilia e Caterina non hanno volti riconoscibili, eppure la loro presenza è ovunque: nei corpi delle ragazze che ridono, giocano, filmano, nelle immagini mute e tremolanti di un tempo ormai perduto. Le prime volte, cortometraggio di Giulia Cosentino e Perla Sardella, è un film fatto di scarti, omissioni, frammenti trovati e poi risignificati: immagini anonime di cinema amatoriale degli anni Cinquanta, provenienti dall’archivio della Fondazione Museo Storico del Trentino, sottratte al loro contesto d’origine e attraversate da una voce e uno sguardo femminile.

Nel cuore del film, c’è una domanda implicita e radicale: chi può abitare l’archivio? A chi è concesso riscrivere il passato? Molti archivi di famiglia, soprattutto quelli amatoriali su pellicola, portano con sé un’impronta maschile: sono stati uomini, per lo più, a impugnare la cinepresa e le immagini scorrono da un punto di vista che è spesso quello del padre, del marito, dell’osservatore silenzioso ma onnipresente.

Le prime volte non è un’operazione di restauro né di semplice riuso, ma una riscrittura affettiva e politica che scardina lo sguardo maschile da cui quelle immagini furono, in origine, prodotte.

Cosentino e Sardella montano, dipingono, cancellano, annotano. Intervengono sulle pellicole come se stessero scrivendo una lettera, o ricamando una memoria altra. E dentro questa memoria, costruita nel montaggio, nella voce, nei testi sovrapposti e poi lasciati scorrere come diapositive, si fa spazio una storia d’amore taciuta, quella tra due giovani donne che si scoprono e si amano tra le mura di un collegio.

«Il tuo corpo per me è l’unico sensato», scrive Emilia a Caterina. Le prime volte non vuole tanto raccontare un passato quanto liberarlo, riscriverlo, ridargli senso e possibilità. Pennellate di colore si sovrappongono al bianco e nero dell’archivio, un pennarello cancella il volto di un uomo, la macchina da scrivere scandisce una nuova presenza. Il tempo si piega: il passato diventa materia viva, e il presente si innesta come un gesto di resistenza.

È un film che parla con delicatezza ma con fermezza, che abita lo spazio fragile tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. E proprio per questo, ci riguarda. Le prime volte non è solo la storia di Emilia e Caterina, ma il tentativo di immaginare un cinema che ricuce, che riattiva e che, soprattutto, restituisce visibilità e presenza.

Noah Zoratti


Così Com’è

Vi è una profonda fiducia verso il fare cinema in Così Com’è. Con gentilezza e coraggio il regista Antonello Scarpelli racconta di due coniugi di mezza età che, in seguito alla diagnosi di Alzheimer del marito, decidono di intraprendere un viaggio per incontrare il figlio e dirglielo. L’obiettivo è dare la notizia di persona perché, come spiega la protagonista Emilia, moglie nella coppia, certe cose: “non si possono dire al telefono”. Questo giovane è però schivo, distante, e non risponde ai messaggi, costringendo i due a vagare continuamente.

I rapporti famigliari al centro della pellicola non vengono solo analizzati ma affrontati realmente: a interpretare i due coniugi vi sono infatti i veri genitori del regista e nei panni del figlio è il regista stesso. Un approccio intimo, in una storia di finzione che si ispira a veri contrasti familiari. Il dramma è portato avanti da un nucleo famigliare che si mette a nudo, costringendosi ad affrontare dissidi molto comuni nelle famiglie: la scarsa comunicazione, i rapporti freddi, la segretezza sul proprio stato emotivo.

Ma la fiducia verso il cinema come strumento di indagine capace di portare soluzioni non si ferma qui. Vi è infatti una raffinata fattura nell’immagine, in particolare nell’utilizzo dello spazio e dei silenzi, elementi che qui fanno il racconto. Le inquadrature minimaliste ricordano grandi autori formali come Ozu nel creare un dialogo tra personaggi e luoghi, in una comunicazione fatta di sguardi e silenzi, mentre la parola è lasciata in secondo piano rispetto all’immagine. Anche messaggi e chiamate risultano inefficaci al loro scopo: sono i volti e i corpi, con i loro primi piani, che riescono a raccontare e a raccontarsi.

È allora la macchina da presa che ha il ruolo di comprendere tutto questo: esplorando i personaggi ce li fa conoscere, ci lega empaticamente a loro. Il film, fatto di inquadrature intime e limpide, vuole essere esso stesso un modo per dialogare attraverso i corpi, riparando così a quelle lacune che le diverse forme di comunicazione contemporanee hanno.

Il regista Scarpelli dimostra una grande consapevolezza: non solo riflette sul reale attraverso la finzione, ma influenza quello stesso reale. Si porta così una piccola mutazione nel mondo: il regista riesce effettivamente ad avvicinarsi ai propri genitori grazie al processo stesso di creazione del film. La grande speranza è che anche chi vede Così Com’è possa riuscirci.

Luca Pacchiarini


Roikin <3  

Roikin è un bambino di Marsiglia. A causa del suo coinvolgimento nella criminalità del luogo, un giorno viene mandato in un centro di rieducazione. Ad accompagnarlo in questo nuovo percorso saranno alcune educatrici che, però, non sembrano capirlo a pieno. L’opera collettiva, realizzata dagli Ateliers cinematografici Film Flamme sotto la direzione di Claudia Mollese, è stata presentata in anteprima nazionale al Bellaria Film Festival.

Roikin <3 fluttua tra realtà e finzione, alternando scene di carattere documentaristico a immagini squisitamente oniriche. Ciò permette di evidenziare in modo efficace i due mondi in cui Roikin si ritrova a vivere, diviso tra consapevolezza adulta e ingenuità infantile. Pur essendo molto giovane, infatti, egli è costretto a interfacciarsi con la delinquenza per poter sopravvivere alla dura vita di alcune zone della Francia.

Quando le educatrici – tre ragazze poco più giovani – tentano di aiutare Roikin a costruirsi una vita migliore, faticano a entrare in sintonia con lui. Il loro approccio autoritario e a tratti distante, infatti, si dimostra poco propenso ad addentrarsi nel piccolo universo del ragazzino. Il mondo degli adulti si rivela così un antagonista.

Forse è proprio la fatica a riconoscersi in questa realtà ciò che porta Roikin a fuggire. La solitudine vissuta durante il peregrinaggio, però, non deve essere intesa solo in maniera negativa. Infatti, sarà la fuga a far emergere il suo lato più infantile e innocente, a lungo tenuto nascosto. Dapprima schiacciato da un forte senso di emarginazione e di incomprensione, Roikin intraprenderà un percorso che gli permetterà di conoscere ed essere, per la prima volta, sé stesso. Una nuova consapevolezza permetterà a Roikin di avvicinarsi alle educatrici. Infatti, alla fine del viaggio si renderà conto che, in realtà, le giovani ragazze sono simili a lui, condividendo il forte desiderio di vivere una vita serena e spensierata.

La cinepresa documenta la vita di Roikin, affiancandolo durante il suo viaggio fisico e introspettivo. I momenti di finzione si fondono con la realtà, rendendo indistinguibile il confine che li separa. Lo spettatore diventa sempre più consapevole della finzione cinematografica, che viene esibita per coinvolgerlo maggiormente nella storia rappresentata. La rottura della quarta parete che avviene verso il finale – con gli attori che guardano verso la cinepresa, vi si avvicinano e si mettono in posa – non solo dona alla scena una grande genuinità e autenticità, ma permette anche di rendere il pubblico più consapevole riguardo alla realtà mostrata nel film.

I fotogrammi conclusivi esprimono la necessità di leggere in senso più ampio gli eventi narrati, come l’immagine del nome di Roikin scritto sulla sabbia, che progressivamente si dissolve tra le onde. Questa non è soltanto la storia di Roikin – sembra dirci la Mollese assieme a Film Flamme. Non è un caso che il film sia dedicato alla memoria di uno dei bambini di Marsiglia, che a differenza di Roikin non ha trovato il suo posto nel mondo.

Diletta Frittoli