Passati ormai diversi mesi il momento sembra opportuno tirare le fila sulla settantacinquesima edizione della Berlinale.
Da un lato, l’avvicendamento al timone che ha visto Carlo Chatrian lasciare il posto a Tricia Tuttle (ex BFI London Film Festival) sembra davvero aver convinto pochi. La nuova sezione, Perspectives, ha stentato a ritagliarsi uno spazio in un panorama già ingombro, incuneato com’è tra i Cineasti del Presente di Locarno e il Certain Regard cannense. Sarà interessante tenere d’occhio i film in programma alla salle Debussy in questi giorni, per capire se sia in atto qualche aggiustamento tra i maggiori festival europei. Ma pure a Berlino, del resto, l’innovazione sperimentale tipica del ‘cinema nuovo’ era già ampiamente presidiata dalla sezione autonoma Forum, gestita da Barbara Wurm per l’Arsenal, l’istituto berlinese di cinema e video arte, nonché cuore cinefilo della kermesse. Quella di Perspectives era e resterà una scommessa difficile, insomma. Quanto alle altre sezioni, Panorama ha continuato a farsi apprezzare per una partecipazione popolare schietta ma non schiacciata su logiche prettamente commerciali. Per converso, il Concorso ha destato parecchi malumori, fatto in sé non particolarmente emblematico (fatico a ricordare un festival in cui qualcuno non si sia lamentato del concorso) ma, nell’insieme di quest’anno uno dell’era Tuttle, poco incoraggiante.
Dall’altro lato, e mettendo da parte la politica festivaliera spiccia, vale forse la pena tornare a soffermarsi su questioni ormai familiari, e sulle quali tanto Filmidee quanto il circuito critico nel suo complesso si vanno interrogando da diversi anni. Mi riferisco alla difficoltà, da parte del cinema contemporaneo, di trovare strategie di rappresentazione capaci di articolare una ‘mappatura cognitiva’ efficace, per riciclare una celebre frase di Jameson. Dico cioé una messa in quadro del mondo e del soggetto che sappia ‘aprire’ il presente, ‘mapparlo’ e renderlo perspicuo, passibile di intervento e quindi di cambiamento, al di là dell’ammiccamento narcisista o del compiacimento stilistico.
Esiste, va detto fin d’ora, un coté prettamente politico di questo problema: la tendenza, anche in film e cineasti che si vogliono engagé, a far prevalere strategie di posizionamento identitarie che sfruttano la manipolazione dello spettatore, risolvendo in logiche tribali questioni che meriterebbero invece approcci dialettici. Marco Grosoli ne ha scritto con lucidità, in pagine a cui rimando il lettore [https://www.filmidee.it/2025/03/iffr-2025-through-cinema-we-shall-rise-seconda-parte/], a proposito dell’ultimo festival di Rotterdam. Qui invece mi preme piuttosto ripassare al vaglio alcune tendenze rappresentazionali che da diversi anni vado seguendo per Filmidee, e che di questo problema rappresentano per così dire il versante fenomenologico.
Prima tra esse è la tendenza verso la scartamento laterale, una sorta di ‘messa in parentesi’ preliminare con cui cineasti di matrice diversissima si ritagliano uno spazio di parola e di intervento nella congerie mediale contemporanea. L’impressione è che quest’anno, a Berlino, questa strategia si ritrovasse principalmente in alcuni film ‘minori’ di cineasti altresì affermati. Penso in primis a Hong Sang-soo, il cui microcosmo personale di artisti e intellettuali continua a funzionare come una sorta di distillato astratto della complessità sociologica contemporanea, soprattutto coreana, di cui cogliamo sì gli echi, ma filtrati come da una grande distanza.
What Does That Nature Say To You, in cui un giovane poeta finisce malgré soi per passare una sera e una notte coi genitori e con la sorella della compagna, offre agli appassionati di Hong la consueta mescolanza di conversazioni ad alto tasso etilico, traiettorie drammaturgiche oblique, e disquisizioni etico-esistenziali di varia natura. Al cuore tematico del film sta il rifiuto del compromesso (con la società, le sue aspettative e i suoi valori) in nome di un’autenticità esistenziale forse egoista, forse ingenua: e proprio l’ingenuità un po’ arrogante del giovane poeta mi pare qui sintomatica di una consapevolezza più sottile. Detto altrimenti, la scelta del protagonista di guidare una Kia degli anni Novanta (scelta scandalosa, a quanto pare, di fronte alla quale il padre della compagna reagisce manco fosse la 313 di Paperino) mi sembra riecheggiare la scelta con cui il cinema di Hong si chiama fuori dal tempo, per ritagliarsi, appunto, uno spazio di manovra, un’orizzonte di analisi e di messinscena. E se questo è vero, mi sembra allora che What Does That Nature Say To You interroghi proprio la liceità di quel ‘chiamarsi fuori’, tanto in termini di praticabilità quanto di coerenza interna, lasciando aperta la possibilità di una svolta (rottamare la Kia) senza peraltro arrivare a un giudizio netto.
L’altro titolo che mi sembra pertinente citare qui è Kontinental ‘25 del rumeno Radu Jude, film dichiaratamente minore di un cineasta la cui prolificità, in anni recenti, si è accompagnata a una certa cristallizzazione di forme e modi retorici. Al di là degli esiti singolari (altissimi nel caso di Do Not Expect Too Much from the End of the World, più modesti in quest’ultimo titolo) mi preme sottolineare come anche in Kontinental ‘25 si ritrovino marche della strategia di scartamento che sto descrivendo. Il film segue la vicenda di un ufficiale giudiziario di Cluj, alle prese coi propri sensi di colpa dopo il suicidio di un clochard, ex atleta in cattivo arnese, a cui la protagonista aveva appena consegnato l’ingiunzione di sfratto dal locale in cui egli viveva. Già la sinossi dovrebbe segnalare al lettore la natura sottilmente aforistica di questo film, da morale, nel quale mi sembra anzi di ritrovare echi di una certa cultura ebraico-orientale (per un parallelo cinematografico, si pensi a A Serious Man dei fratelli Coen). All’astrazione implicita del conte morale, che Jude sottolinea ironicamente attraverso conversazioni in cui si snocciolano aforismi, favole zen e rimandi a Gödel, fa però da contrappeso la specificità geo-culturale del contesto transilvano: l’ufficiale protagonista è di etnia ungherese, il suicida è rumeno, e durante tutto il film le tensioni etnico-nazionaliste fanno da contrappunto al dilemma etico della protagonista. Per di più, a fare da sfondo all’intera vicenda c’è un contesto di speculazione edilizia, promozione aggressiva del territorio e capitalismo ruspante. Insomma, a emergere sono nuovamente i limiti di questa strategia di scartamento, cioé a dire l’impossibilità di prescindere, di esaminare la moralità di azioni e posture private senza considerare i contesti socio-economici e culturali in cui queste hanno luogo.
Se la Berlinale continua quindi a ospitare film che si appoggiano alla ‘messa in parentesi’, sia pure per saggiare i limiti intrinseci di questa strategia, va segnalata quest’anno l’assenza di film stratigrafici, come ho preso invece a chiamare quel filone di opere che cercano di abbracciare la totalità del sistema mondo senza alcuna riduzione preliminare. Mi riferisco a film come Pepe dall’edizione dell’anno scorso (si vedano i miei appunti a proposito https://www.filmidee.it/2024/04/berlinale-74-arginare-la-deriva), i quali sulla scia di un generale ‘superamento del antropocentrismo’ provano a mettere in campo dispositivi di rappresentazione a più strati, nei quali l’agire umano coesiste alla pari con altri piani d’azione (geologici, naturali, eccetera). È senz’altro troppo presto per parlare di stanchezza di questo filone: più probabile che a incidere qui siano inflessioni di gusto nella squadra curatoriale, anche se non è impossibile pensare che il corso recente degli eventi mondiali abbia rammentato a tutti che, volenti e nolenti, a guidare la storia—e il cinema—sono soprattutto le persone, e che da ultimo la soluzione al nostro impasse non può che essere umanista.
Segnali di vita più decisi, in questo senso, arrivano dal film saggio: una forma che pur partendo da un prospettiva umanista (e spesso privata) prova comunque a tenere insieme la complessità della Storia. Si va dall’intreccio di esperienza migrante, lavoro e architettura commerciale nel cortometraggio in retrospect di Daniel Asadi Faezi e Mila Zhluktenko, al pamphlet di denuncia Evidence di Lee Anne Schmitt, film che partendo da ricordi d’infanzia privati finisce, attraverso la doviziosa rassegna di documenti e tracce materiali, per ricostruisce l’influenza di un gruppo reazionario statunitense sul pensiero e sulla società americane. In entrambi i casi, mi sembra importante sottolineare quello che in inglese si chiama l’aspetto ‘situato’ di questo discorso: tanto l’aggancio dei discorsi (politico-storico-sociali) agli oggetti materiali che ne documentano l’impatto sulla vita quotidiana, quanto l’imprescindibilità di ogni intervento dal contesto vissuto, biologico e famigliare del soggetto che interviene: anche questa è una forma di mappatura cognitiva.
Restando sul film saggio, ancora più ambizioso è La memoria de las mariposas, sontuoso debutto di Tatiana Fuentes Sadowski. Dopo aver rinvenuto per caso una fotografia raffigurante due giovani amerindi in abiti occidentali, la documentarista si imbarca in una sorta di contro-scrittura della memoria coloniale. A fare da filo conduttore sono i due giovani della foto, Omarino e Aredomi, portati a Londra all’inizio del novecento dal diplomatico irlandese Roger Casement, nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica britannica sulle pratiche disumane messe in atto nell’estrazione del caucciù (in quello che passò poi alla storia come il genocidio del Putumayo). Fin dall’inizio, però, Sadowski trasforma la ricerca d’archivio in una metafora più ampia. La superficie del film, un intreccio di fotografie d’epoca, dispacci e pagine di diario, e riprese originali in super-8, spesso virate, diventa correlato filmico di una memoria storica lacunosa, in cui le tracce dell’oppressione sono per lo più frammentarie e interrotte, come i segmenti stessi della pellicola di Sadowski, in cui frequenti stacchi sul bianco rimandano alle linguette di caricamento, e quindi all’idea stessa di interruzione, lacuna. Il risultato, va detto, conferisce al tutto un’innegabile potenza estetica, e già questo sarebbe un risultato notevole per un film d’esordio. Ma ciò che rende La memoria de las mariposas eccezionale è il modo in cui Sadowski inserisce se stessa nell’impianto. Nel ricostruire la complicità genealogica della sua famiglia nel commercio del caucciù, la documentarista inserisce nel film quell’aspetto situatio di cui dicevo sopra. Non solo: nelle sequenze finali, esaurita ogni pista d’archivio e giunta a un impasse nella sua ricerca, Sadowski porta le fotografia di Omarino e Aredomi a una comunità di indigeni peruviani. Essi celebrano un rito collettivo per reintegrare la memoria dei due giovani uomini in una continuità culturale: così facendo, il film va oltre il riconoscimento (del passato, e della posizione del singolo rispetto al passato) per farsi intervento, gesto politico, capace di reintegrare la frattura del passato in una continuità di memoria, viva e collettiva. Non è cosa da poco.