Nella prima sezione di questo dispaccio berlinese ho voluto fare il punto su alcune strategie di rappresentazione che in modo diverso rispondono all’impaccio del cinema nel trovare un punto di sintesi (e di arresto) di contro alla deriva dell’orizzonte mediale contemporaneo. Mettendo da parte questo particolare angolo di analisi e allargando lo sguardo, voglio ora segnalare quelle che mi sembrano le altre linee di tendenza emerse dalla rassegna berlinese.
In primis, va riscontrata una tendenza verso un massimalismo visionario che sembra guardare a Jodorowksy, Ossang, o Mandico in film come Eel di Chu Chun-Teng, Ancestral Visions of the Future di Lemohang Mosese, e Reflet dans un diamant mort di Bruno Forzani e Hélène Cattet. Si prenda a esempio Chun-teng, il cui film a distanza di mesi non sembra peraltro aver riscosso grossi apprezzamenti di critica. Il regista dimostra un controllo formale formidabile in una pellicola di gusto sperimentale, in cui il tema della redenzione dai vincoli traumatici del passato si mescola a un immaginario erotico-surrealista. La storia, ambientata in un isolotto alla periferia di Taipei, sfrutta appieno le potenzialità del fiume come locus simbolico e filosofico, e sembra a tratti alludere a una critica del produttivismo e dell’alienazione sociale. Ma a colpire è la messinscena, e l’impressione è che il film sia soprattutto un esercizio stilistico—pretenzioso forse, ma senz’altro godibile, almeno per chi scrive. Molto più indigesta, per contrasto, è la pellicola di Mosese, la cui messinscena patisce il peso di un’enfasi troppo gridata. Performance teatrali, segmenti visionari, commenti poetici fuoricampo: il pastiche si fa pastrocchio, nonostante alcuni passaggi di sapore più neutro, in cui emerge l’affetto per il nativo Lesotho e che si fanno apprezzare per alcuni slanci di regia. Nel complesso, tuttavia, il tentativo del film di agganciare un registro mitico fallisce per eccesso di magniloquenza. Anche con il massimalismo ci vuole misura.
Molto più convincente è Reflet dans un diamant mort del duo belga Forzani e Cattet, in cui l’esuberanza cinefila e l’esplorazione esibita di stilemi di genere si fanno marca di una poetica matura, sfavillante ma indiscutibilmente efficace. Già in Amer il duo aveva splendidamente iniziato un lavoro di riduzione del ‘giallo’ europeo ai suoi elementi viscerali, in quella che si potrebbe definire una sorta di analisi del sensorio psico-erotico del genere (ma si veda, per una ricognizione critica più ampia, lo speciale https://www.sensesofcinema.com/category/split-screen-cattet-forzani] pubblicato da Senses of cinema nel 2018) . In Reflet l’attenzione si sposta su un immaginario decisamente italiano, che mescola il film di spionaggio europeo, i fumetti neri alla Diabolik e perfino gli echi operatici di un cinema d’autore alla Visconti. Alla distillazione delle figure estetico-narrative di questo immaginario si accompagna qui un’indagine sottile ma precisa sull’infinito rincorrersi di identità e immagine, con il protagonista affascinato da una elusiva donna dai mille volti, donna schermo su cui si proiettano fantasie di fuga e di desiderio: fantasie imperfette e ambigue, ma umane, che assumono un profilo quasi nostalgico di contro all’insinuarsi di poteri molto più tetri e disumani.
Nel migliore dei casi, insomma, con questa tendenza massimalista siamo di fronte a una struttura caleidoscopica, fatta di rifrazioni e permutazioni, in cui si intravedono strategie postmoderne (il pastiche, il commento metacinematografico) filtrate attraverso una nuova consapevolezza contemporanea. In questo senso l’opera di Forzani e Cattet andrebbe vista, credo, non tanto come divertissement cinefilo, ma come una verifica dei poteri: un tentativo di saggiare le risorse residue dello sguardo postmoderno alla luce della deriva digitale.
Altrove, il genere serve invece come fondamento per film che provano a leggere la realtà di traverso, affrontando problemi sociali sullo sfondo di canovacci narrativi tradizionali, come quello del road movie o quello della fiaba. Al road movie va ricondotto per esempio O último azul di Gabriel Mascaro, film avventuroso e un filo piacione, in cui la satira della produttività a oltranza e dell’ingegneria sociale danno il là a un racconto rocambolesco: una sorta di Thelma e Louise a lieto fine, forse troppo furbetto, ma riscattato dalla fotografia lirica e francamente meravigliosa di Guillermo Garza. Guarda alla fiaba oltreché al road movie, invece, il bel film di Ivan Fund, El Mensaje: parabola sui generis, in cui un misterioso trio di personaggi (un uomo, una donna e un’adolescente) vagano per le strade della campagna argentina, offrendo servizi medianici a pagamento per proprietari di animali domestici che desiderano comunicare con le loro bestioline. La premessa fa pensare alla satira: ma Fund sorprende lo spettatore con un film profondamente umano, dolce, fatto di contatti fugaci, frammenti di relazione e di affetti gettati contro il vasto silenzio della strada. Consigliatissimo.
Sempre alla fiaba va ricondotto La tour de glace di Lucile Hadžihalilović, che continua qui la sua disamina dell’immaginario femminile preadolescenziale. Rispetto a Innocence (2004), La tour de glace combina la fiaba con il metacinema, in un racconto che nella Savoia degli anni sessanta vede una ragazzina fuggire dalla montagna per ritrovarsi casualmente sul set di un adattamento cinematografico de Sneedronningen di Hans Christian Andersen (con Marion Cotillard nella parte della vampirica regina delle nevi). Hadžihalilović recupera la lezione di Catherine Breillat e Angela Carter per aggiungervi il suo innegabile talento di messinscena, in cui artificio e una certa morbosa naturalezza si tengono in perfetto equilibrio. Ma è soprattutto la complessità dello sguardo, capace di mettere a disagio e insieme affascinare lo spettatore, a farne una cineasta formidabile. Il discorso sulla riarticolazione del fiabesco nel panorama contemporaneo meriterebbe uno studio più ampio (si pensi alla perdurante popolarità del Frozen disneiano), ma resta chiaro che, almeno nel caso di Hadžihalilović, il coté psicanalitico (Carter, appunto) si riflette alla luce di una sensibilità in cui la carnalità di corpi e desideri coesiste con una geometria astratta di sdoppiamenti e riflessi identitari che fanno pensare un po’ a Persona un po’ a Sciamma. Hadžihalilović commette forse l’errore di esplicitare troppo la natura sessuale della minaccia, già implicita nello schema della fiaba, ma il film resta notevole—tra le cose migliori che ho visto a Berlino.
Chiudo questa carrellata finale con un cenno doveroso a Želimir Žilnik, cineasta chiave dell’Onda nera jugoslava che all’età di 82 anni realizza, con Restitucija, ili, San i java stare garde, un’opera di docufinzione tanto innegabilmente ‘tarda’ quanto disarmante nella sua semplicità. Stevan, ex musicista di avanspettacolo trapiantato in Austria e ormai ottuagenario, si ritrova inaspettatamente erede dell’antica villa di famiglia in Serbia. La premessa sembrerebbe configurare uno scenario da commedia mordente, e in parte è così, con la trama che tra nostalgie, gelosie e intrighi famigliari non risparmia elementi di satira della società post-comunista. Ma solo in parte: come nel caso di Fund, Žilnik sorprende lo spettatore con un tono più dolce, fiabesco, che senza rinunciare né al pragmatismo storico né all’acume sociale finisce col risolversi in una leggerezza insospettata, e quasi poetica, con tanto di partenza finale in mongolfiera. È un piccolo gesto di speranza: di questi tempi, non si può che apprezzare.