Come ormai tutti sanno, all’inizio del 2024 una bambina (Hind Rajab) intrappolata a Gaza dentro un’automobile insieme a svariati famigliari crivellati da proiettili israeliani, muore a propria volta perché l’ambulanza accorsa sul luogo (era stata lei stessa a telefonare ai soccorsi via cellulare) viene a propria volta crivellata da proiettili israeliani. The Voice of Hind Rajab è una drammatizzazione di quelle ore, piuttosto fedele nonostante qualche inevitabile licenza, ambientata tutta dentro il centro di soccorso cisgiordano col quale la bambina è stata via via in contatto telefonico.

A tale proposito, Kaouther ben Hania ha utilizzato le registrazioni telefoniche autentiche, con la vera voce della bambina incastonata dentro la finzione cinematografica. Il che solleva ovvi interrogativi etici: al di là dell’intento encomiabile di sensibilizzazione verso ciò che sta accadendo da quelle parti, è giusto farlo in modalità così sfacciatamente manipolatorie? È giusto, insomma, mischiare così spregiudicatamente realtà e funzione utilizzando la prima come un mezzo in vista del fine, inevitabilmente estrinseco, di suscitare emozione presso lo spettatore?

La regista è avvezza a giocare con questi dilemmi, già in primo piano nel suo precedente Quattro figlie (2023) e stavolta portati agli estremi da un racconto di calcolatissima alternanza drammaturgica tra tempi forti e tempi deboli, euforia e disforia. Proprio per questo, sarebbe fuorviante (e soprattutto: troppo direttamente in linea con l’intento programmatico della regista) giudicare il film unicamente in base a questa scelta. Più pertinente è invece giudicare il film nel suo insieme, facendo di questa postura volutamente manipolatoria, spinta fino al meta-film meta-manipolatorio (che denuncia cioè come tale la propria manipolazione), solo una delle componenti del film.

A cos’è, infatti, che essa si accompagna? Cosa c’è sul suo sfondo, e che invertendo sanamente il cannocchiale dovremmo invece riconoscere come il vero centro del film? Un conflitto tra personaggi: uno, ipersensibile (e già qui cominciano i dubbi: possibile che un centralinista di un’organizzazione del genere, verosimilmente esposto da mesi a casi analoghi, subisca un crollo emotivo del genere davanti a questo caso specifico? O è una facile concessione a necessità drammaturgiche che finiscono col violare la logica del racconto per facilitare l’identificazione spettatoriale?), auspica l’intervento immediato delle ambulanze per salvare la bambina; l’altro si attiene al protocollo ufficiale e al regolare coordinamento con le altre istanze coinvolte (affinché venga garantito un corridoio sicuro per i soccorsi) prima di fare alcunché.

Istituzionalità contro spontaneità. Un conflitto pressoché connaturato a moltissima serialità televisiva, e soprattutto a quella già non recentissima che intende esplorare questo conflitto dall’interno dell’istituzione stessa: è infatti alla galassia di E.R. (idealmente ricongiunta al nostro Vermicino catodico del decennio precedente, passando per la meta-manipolazione di Schindler’s List), concitazione del real-time compresa, che guarda con ogni evidenza l’approccio stilistico di ben Hania, fino a far assomigliare il suo film a una puntata di una serie tv (e, di nuovo, non della generazione più recente). Veniamo così messi davanti alla nostra impotenza di spettatori che da quasi un paio d’anni tutto vedono, nessuna atrocità esclusa, ma nulla possono, attraverso una puntata di serie tv, però, filtrata con la consapevolezza critica dell’arte contemporanea, con le sue dotte chiose meta-mediali (i due avversari che, in attesa dell’ok ufficiale all’utilizzo dei mezzi di soccorso, si mettono a giocare a un videogame tra loro), e soprattutto con la sua calcolatissima alternanza tra shock emotivo e coscienza critica. Alternanza ideale per i musei ma assolutamente anti-cinematografica: al cinema, l’emozione del cuore e il rigore dell’intelletto critico sono una cosa sola, o non sono.

Non è questo, tuttavia, il problema principale del film. Esso è, soprattutto, il rifiuto di percorrere fino in fondo la propria strada. Quando l’ambulanza arriva sul luogo e viene distrutta, il conflitto tra istituzionalità e spontaneità viene risolto: la prima si mostra retroattivamente vana perché l’ultima parola è dell’esercito israeliano, che può fare quello che vuole ignorando qualunque prassi istituzionale. Il film, però, tralascia completamente questo aspetto: il tragico epilogo della faccenda viene usato non per affermare quale delle parti in conflitto avesse, a quel punto oggettivamente, ragione, ma per introdurre una “forza maggiore” che pacifica i due lati del conflitto interno, uniti innanzi a un male effettivamente più grande. Facile ecumenismo che di lì a poco si prolunga nei materiali di repertorio (foto, video etc.) della bambina ancora in vita con cui si chiude il film. Di nuovo: catturare lo spettatore alternando shock emotivo a coscienza critica è tutto, anche a costo di sacrificare l’integrità della logica del racconto, adducendo come giustificazione l’autenticità dei materiali di partenza.

Il problema dunque non è il carattere manipolatorio dell’operazione, troppo esplicito per essere davvero imputabile, ma che esso faccia da schermo a un altro problema: la logica del racconto che va da una parte precisa (l’asimmetria, a posteriori, tra i due diversi modi di reagire all’orrore: istintualità frontale o ragione pragmatico-burocratica) e il film che si rifiuta di seguirla fino in fondo.