Il cinema di Ross McElwee è unico e inconfondibile: cinepresa in mano in quasi ogni momento della propria vita, voce over e montaggio che di quel girato in prima persona singolare fanno un infinito romanzo che intreccia la propria autobiografia con innumerevoli piste socio-storico-politiche. Nel 1993, il suo Time Indefinite vide nascere il figlio Adrian, con il quale (e la moglie, da cui nel frattempo McElwee è divorziato) a metà degli anni 2000 andò in Sudamerica per adottare la piccola Maria (In Paraguay, 2008). E nel Photographic Memory del 2011 Adrian era addirittura co-protagonista: adolescente difficile, aspirante filmmaker a propria volta (ma in digitale!), McElwee jr. sembrava cominciare a risollevarsi dopo un periodo complicato che lo portò addirittura alla tossicodipendenza.

Sembrava essersi ripreso, Adrian, soprattutto dopo essersi trasferito in Colorado. Pochi anni dopo, tuttavia, i suoi problemi di droga aumentano: dopo il picco, segue la riabilitazione, che però come spesso accade si rivelerà illusoria e di breve durata. Proprio quando sembrava finita, in visita a casa dei suoi la vigilia di natale 2016, scoppia l’astinenza, va in overdose, muore.

Remake è costruito intorno a questo e altri abissi senza fondo. Uno di questi è una componente essenziale dell’esperienza umana, ma troppo spesso rimossa: l’amnesia. Charleen, amica di McElwee e presenza indimenticabile in molti suoi film, oggi ha un principio di Alzheimer, e si è dimenticata (tra molte altre cose) anche di molte delle occasioni di collaborazione con lui. Quanto a Ross, ovviamente, dimenticare è impossibile: per la prima volta, il solito intreccio connettivo tra elementi anche lontani nello spazio e nel tempo, davanti all’enormità e all’irreversibilità della morte di figlio cede il passo a una semplice cronaca cronologica della tragedia, un fatto dopo l’altro, in semplice sequenza.

Non è il tratto meno straziante di un film il cui impatto emotivo è naturalmente enorme. Non sono da meno molti dei momenti in cui Adrian appare davanti all’obbiettivo negli ultimi anni, e soprattutto gli sta dietro: non è il minore degli esorcismi tentati dal padre quello di esplorare ciò che il figlio ha filmato negli anni precedenti la sua scomparsa. Su tutti, l’inaudita scena in cui Ross commenta le riprese fatte del figlio sulle piste mentre stava sciando: quando il figlio si ferma e contempla il silenzio intorno a sé, il padre si immagina che in quel momento Adrian abbia toccato, prima di morire, quel nulla da cui le immagini, come la memoria, vengono inghiottite. A un festival che ospita una sua retrospettiva, Ross rivede il momento del “finché morte non ci separi” con la ex-moglie: non c’è rimedio, anche quella memoria che si sedimenta sulla pellicola alla lunga si autocancella, non documenta che il proprio essersi trasformato, nel frattempo, in finzione. Tanto è ravvicinato il confronto con questo oblio che fa proprie persone, immagini, memorie, che McElwee accantona la spericolata camera-stylo del romanziere per immagini in favore di una posizione più remissiva, attendista, ancor più ricettiva di prima verso lo scorrere del tempo e quello che porta con sé. Analogamente, il remake hollywoodiano (e poi in forma di serie televisiva) di Sherman’s March (capolavoro del 1986 che lanciò il documentarista verso la celebrità) non si farà, ma al suo posto verrà messa in piedi un’improbabile “live performance” in cui i dialoghi del film vengono cantati sul palco. Seguire, non imporre una tessitura di senso che comunque è sempre soggetta a venire cancellata in un colpo.

Dolorosa, fragilissima ma lucida e quasi illuministica elaborazione di un lutto, Remake non si fa mancare, oltre al rimorso (“non sarà che quando lo portavo in giro ai Festival ho dato ad Adrian un’immagine sbagliata, irrealistica di cosa sia il mondo?”), anche precisi agganci socio-geopolitici. Nuovo oppio dei popoli (proveniente non da ultimo, e con non poca ironia della Storia, da quella Cina il cui crollo uno-due secoli fa fu accelerato proprio dal consumo estesissimo di oppioidi vari), il Fentanil che ha ucciso Adrian è oggi, negli Stati Uniti, dilagante, una piaga sociale che ha azzoppato come minimo un’intera generazione. Più di qualsiasi altra cosa, tuttavia, Remake è un’occasione per ripensare la continuità tra arte e vita che ha informato un’intera esistenza e un’intera filmografia, a partire dal suo limite, a partire cioè dal punto in cui questa continuità (condizione di possibilità della mirabile attività di scrittura costruttivista per immagini e voce di cui McElwee è maestro) si interrompe.