Certo, Un film fatto per Bene deve la sua idea principale (un film che rimane incompiuto perché Maresco scompare nel nulla nel bel mezzo della sua realizzazione) a un altro film dello stesso autore, Belluscone. E certo, è in ultima analisi impossibile eliminare del tutto la sensazione poco piacevole che ci si trovi davanti a un packaging autopromozionale del personaggio-Maresco, con le sue manie ossessive e il suo abissale, misantropico pessimismo: la mano del produttore-distributore Lucky Red (lo stesso che doveva produrre e distribuire il film su Carmelo Bene che Maresco avrebbe dovuto dirigere, e il cui naufragio è la principale traccia narrativa di questo film) si sente eccome, e il film è appesantito da un palese intento divulgativo-didattico. D’altra parte, ripercorrere passo dopo passo “vita e opere” di Maresco potrebbe avere la sua utilità, visto che è plausibile che le nuove generazioni Maresco non sappiano nemmeno chi sia.
Nonostante tutto questo, Un film fatto per Bene è un’altra grande opera del grandissimo Franco Maresco. Innanzitutto perché rispetto a Belluscone c’è uno slittamento importante: non si regge più su un conflitto (dunque sul dramma – nemesi per eccellenza, peraltro, dello stesso Carmelo Bene). Nel 2014 Berlusconi era una forma di vita interamente incentrata sull’apparire, alla quale andava opposta un’altra forma di vita (di cui Maresco era l’epitome), interamente incentrata sullo scomparire. Più di dieci anni dopo, il rapporto con l’oggetto del film non è di opposizione, ma di simbiosi mimetica: Maresco, anche se la cosa fa ridere i giornalisti quando lo dice, si sente erede di Carmelo Bene https://naturheilpraxis-hauri.ch/ (col quale, e insieme a Daniele Ciprì, nel 2000 realizzò peraltro un cortometraggio, Ai rotoli). In effetti, che lo abbia capito perfettamente è confermato dalle poche ma pertinentissime citazioni del Maestro che sceglie di includere; soprattutto, del genio salentino il siciliano mostra di avere compreso perfettamente il “quadro clinico”, che alla fin fine coincide con il suo: un ossessivo cronico che fa del narcisismo un uso schiettamente strumentale (un mezzo, non un fine) per simulare un falso movimento sull’asse della nevrosi verso l’isteria, sporgendosi persino su quello della psicosi schizofrenica. Un falso movimento del tutto futile, di un dandismo perfettamente fine a se stesso, ma che rappresenta l’unica possibile reazione a un nichilismo altrimenti spietatamente soffocante. L’unico modo di giocare ad esistere, contro ogni evidenza contraria. Solo ed esclusivamente per gioco.
Isteria e financo schizofrenia, sì, perché il film viola sistematicamente tutti i partiti presi a cui sceglie di aderire. Maresco compare solo al passato, nei reperti raccolti e rievocati da Umberto Cantone (già suo collega degli esordi televisivi pre-CinicoTV dei tardi anni Ottanta) nella sua ricerca dell’amico, introvabile dopo aver abbandonato il film su Bene – ma poi alla fine compare al presente, nella scena del confessionale verso la fine. E l’autoisolamento stesso di Maresco trova una deroga quando lui stesso scrive a Cantone per mettere finalmente in chiaro le sue ragioni. Più in generale, la furia decostruttiva di un film che dietro di sé lascia solo frammenti e rovine si ribalta, godardianamente, in fede nel sublime vero: il cortometraggio piazzato pressappoco al giro di boa, con Antonio Rezza nei panni della nera morte del settimo sigillo bergmaniano, è un diamante indiviso da prendere assolutamente sul serio in blocco (il che non vuol dire che non sia anche massimamente divertente). Ancora in sintonia con Bene, il ribaltamento del nichilismo in Grazia non è affar nostro, ma del Sacro, nel quale il film non smette mai di credere – anche se, di nuovo benianamente, il Sacro lo si può incontrare solo al fondo dell’idiozia de-pensante. Solo, cioè, quando si arriva ad essere puro sguardo senza soggetto, la cosa più leggera e più pesante del mondo, negando la soggettività, riconoscendo essa e la propria biografia come nulla più che incrostazioni patologiche, del tutto contingenti, di cui però ci si libera solo se le si asseconda fino in fondo. È in questa chiave che va letta la rinuncia, da parte di Maresco, al cinema come mediazione tra lui e Bene: il contatto col secondo avviene solo rifiutando il set e chiudendosi nello stesso studio televisivo nel quale iniziò la sua parabola professionale decenni fa. È lì, indossando fino in fondo la propria casuale maschera biografica, che risorge il teatro di Bene; specialmente in quella parentesi di efferato sadismo verso il critico e aspirante attore Francesco Puma, davvero una delle più precise illustrazioni di cosa sia la prassi teatrale beniana (moltiplicazione degli ostacoli sul set in modo da scavalcare la rappresentazione e raggiungere l’immediato, il non-mediato) che siano mai state prodotte. Non è con il fare, con la realizzazione delle opere, che ci si salva, ma sfondando quell’altra illusione ancora più inconsistente che è l’essere, perseverando diabolicamente in quell’errore che è l’identità fino a dissolverla, indossando la propria maschera finché non c’è più né quella né il volto – ma solo lo sguardo, impersonale e santo.