Come rappresentare i flussi della globalizzazione? È davvero sufficiente una mappa? E se invece fosse necessario rivolgersi a mappature dinamiche (anziché grafico-statiche), quali forme bisognerebbe adottare? Implicitamente o meno, è a questi interrogativi che guardano gli ultimi due lavori di Olivier Assayas (Il mago del Cremlino) e Gianfranco Rosi (Sotto le nuvole), partendo dal presupposto che l’estetica possa almeno cominciare a suggerire qualche, ancorché embrionale e preliminare, risposta.

Assayas prende un best-seller di Giuliano da Empoli, e lo fa adattare per lo schermo da una personalità letteraria (Emmanuel Carrère) troppo forte per non lasciare anche la propria impronta, trasfigurando così l’oggetto di partenza in qualcosa di riconoscibilmente diverso. Il mago del Cremlino si impernia su una lunga intervista, da parte di un giornalista anglosassone, a un’immaginaria eminenza grigia del potere russo post-sovietico, Vadim Baranov, responsabile fra le altre cose dell’ascesa e affermazione di Vladimir Putin, e ora ritiratosi a vita privata soprattutto per poter stare con la figlia. Per quanto lo spettatore, nei flashback che sostanziano la versione di Baranov, venga inondato da un fiume in piena di informazioni intorno alla Russia dai primi anni Novanta ad oggi (non manca nulla: dal Kursk a Maidan e quant’altro), verosimilmente nessuna di esse gli è ignota. Ma se il proposito principale del film non è informativo, allora qual è?

Per capirlo, bisogna ricordare che il cinema di Assayas consiste in larga parte in un ventaglio di intelligenti variazioni su un unico tema (dichiaratamente preso in prestito dalle nouvelles vagues), che è la discrasia tra il presente e il movimento. Il mago del Cremlino è il funerale fatto all’idea che un’unica istanza, un unico soggetto, possa sintetizzare e dare una forma definita al movimento della Storia. È forte la tentazione di vedere in Baranov l’emblema dell’assioma di Guy Debord secondo cui tutto, oggi, è diventato Spettacolo. In realtà, il film (che tiene comunque questo postulato in grande considerazione) fa una cosa molto diversa: non mostra che lo Spettacolo è la definitiva cristallizzazione, e dunque immobilizzazione, del movimento della Storia, ma che questo movimento consiste in un perpetuo slittamento da una forma di volta in volta illusoriamente eletta a motore assoluto della Storia, a un’altra. Nessuna di esse è definitiva, nemmeno lo Spettacolo: ciò che è definitivo è l’infinito passaggio, sempre prevedibile e sempre sorprendente, da una all’altra ogni volta che una ha raggiunto il proprio sempre provvisorio apogeo. Gettata nella globalizzazione come un neonato, in alcune sue regioni, verrebbe gettato nell’acqua gelata per temprarlo, e sulla scia di una già malinconica scoperta del presente assoluto della Libertà e dell’Evento che Assayas fa vivere al giovane Baranov degli anni Novanta riproponendo la sua Eau froide del 1993, la Russia ha bruciato le tappe tracciando in accelerata un arco storico che in pochissimi decenni congiunge il pre- al post-globalizzazione, sineddoche traumaticamente compressa di ciò che è successo, con diverse tempistiche, un po’ dappertutto. E se il personaggio altrettanto immaginario di Ksenia ci ricorda che da nessuna parte come in Russia l’arte è entrata in simbiosi con la filosofia della Storia, è lo stesso personaggio a ricordarci che quel punto di miracolosa convergenza si può solo guardare da lontano ma mai abitare. Da cui il movimento perpetuo: dall’illusione che i soldi siano tutto a quella che sia il potere a esserlo; dalla verginità degli anni immediatamente successivi alla guerra fredda al formarsi di una superpotenza che guarda a Stalin con un postmoderno senno del poi, al riproporsi davanti a lei di quella stessa, perduta verginità (Maidan) cui si reagisce cucendo insieme una totalità “liquida”, come il digitale della Rete, di soggettività federate insieme dalla stessa insoddisfazione verso la globalizzazione. E così via. Al cinema spetta di mettere in fila e in prospettiva le informazioni che tutti sanno perché disordinatamente assorbite dagli altri media, e mettere in forma questo movimento perpetuo, fondato sul non potersi dare di una “ultima parola” della Storia, ficcandosi nell’asintoto incolmabile tra la parola e l’immagine. Più ancora dell’inarrestabile logorrea di Baranov in voce over, che meglio informata non si può, conta infatti ciò che quasi impercettibilmente l’immagine aggiunge rispetto alla parola: è insomma la particolarissima cura riservata alla ricostruzione d’epoca, in ognuna delle epoche attraversate, a dirottare verso di sé il fulcro di un’opera altrimenti palesemente sbilanciata verso la volatile parola dell’informazione mediatica, imprimendo così un’ulteriore torsione al movimento perpetuo in cui consiste il film e, secondo lo stesso Assayas, la Storia stessa nell’era, per definizione tanto definitiva quanto precaria, della globalizzazione.

Rosi, invece, fa di Napoli un nodo nevralgico del convergere diacronico di imperi di oggi (la nave che lì si ferma col grano preso in Ucraina e distribuito poi altrove) e di ieri (i Borbone, ma Greci e Romani ancor prima), in una stratificazione di diverse epoche storiche meno meccanica della Roma di Sacro GRA, perché più esposta a un dinamismo che tra quegli strati, come tra quelli fisici dell’unicissima planimetria partenopea, non cessa di circolare verticalmente. Quando non sono i terremoti a mettere gli strati in comunicazione tra loro c’è il ciclo dell’acqua (il mare, le nuvole del titolo, la pioggia…), o magari le chiamate ai vigili del fuoco più gassose del gas medesimo. Complicando forsennatamente non solo il postulato che fa di Napoli il perno ideale di qualunque mappa dell’Impero, ma persino l’immortale metafora benjaminiana della porosità di quella città, Rosi imbastisce un avanzatissimo lavoro figurativo che, flirtando con un’idea diacronica di una possibile cartografia dell’Impero, finisce poi per cancellarne i contorni esasperando visivamente le vie centrifughe della verticalità a pressoché ogni sua inquadratura, riaprendo ogni volta ciò che il montaggio, con la sua ormai già ampiamente percorsa (da Rosi) alternanza circolare in parallelo di nuclei narrativi di base, sembra chiudere. Resistenza (all’Impero) è dissoluzione dei contorni: è mettersi nel punto da cui si può guardare a tutto il resto come a qualcosa destinato sempre e solo all’archeologia. Cinema compreso: se Rosi mostra periodicamente una sala vuota, abbastanza in rovina, nel quale vengono proiettati l’immancabile Viaggio in Italia rosselliniano, Gregoretti che intervista i tombaroli e altro materiale del genere dal secolo scorso, è perché cerca una restituzione estetica della globalizzazione che vada al di là della sua mimesis (ciò che il cinema è per definizione) – e a maggior ragione dunque della sua rappresentazione, cartografica o meno. La globalizzazione si fa, e soprattutto si disfa, in ogni momento.