9 edizioni per il Korea Film Festival di Firenze. E a giudicare dagli ospiti e dalla loro rilevanza, sostanzialmente il gotha del cinema coreano, pareva quella del decennale. Eppure, nonostante non siano poche le edizioni alle spalle, forse non sono state sufficienti a rafforzarne l’identità festivaliera in senso stretto. Senza voler istituire paragoni scomodi, Udine – patria del Far East – in teoria non dovrebbe attrarre più persone o costituire in qualche modo terreno più fertile per un festival rispetto a Firenze, ma la realtà è questa: mentre il Teatro Giovanni di Udine è pieno ogni sera da quando il Far East esiste, l’Odeon pieno durante il Korea lo si vede raramente. Ma i film ci sono. Il Korea vanta sempre un programma invidiabile, anche in virtù dello stato di salute della cinematografia più sorprendente del terzo millennio, alternando pepite scovate dal passato (negli anni Kim Ki-young e Shin Sang-ok) a retrospettive sui registi che sono il vanto della Corea del Sud, oltre a un’ampia vetrina sulle uscite dell’ultimo anno. Quest’anno in particolare ha visto transitare sul palco dell’Odeon Bong Joon-ho con la retrospettiva, Lee Chang-dong con Poetry e Im Sang-soo con The Housemaid, in anteprima rispetto alle uscite nelle sale italiane. Per chiunque sia anche lontanamente appassionato di cinema coreano è davvero difficile pretendere di più.

BONG JOON-HO: COME ACCONTENTARE PUBBLICO E CRITICA

L’anno scorso toccò a Hur Jin-ho, maestro del melò moderno, quest’anno è stata la volta di Bong, un talento che ormai ha ampiamente varcato i confini patri. Non suona (più) come un’esagerazione parlare di Bong Joon-ho come di uno dei dieci maggiori registi viventi. I fatti parlano chiaro, sotto forma di una carriera costituita numericamente da pochi lungometraggi – Barking Dogs Never Bite, Memories of Murder, The Host, Mother – ma qualitativamente da altrettanti e mirabili esempi di padronanza dei generi e del loro snaturamento. Dilungarsi oltre su titoli che tutti conoscono o dovrebbero conoscere è forse superfluo, ma rivederli tutti insieme (con aggiunta di Tokyo! a cui Bong ha contribuito con un delizioso episodio su un hikikomori) porta a delle considerazioni sul sottotesto che attraversa l’opera di Bong.

In primis un cinema costantemente politico, senza che la denuncia si trasformi mai in pamphlet; la riflessione sociale resta sullo sfondo e si camuffa nella trattazione di genere, agisce in incognito. Se già in Barking Dogs sotto la scorza della commedia surreal-demenziale trapela il pessimismo nei confronti di una società in cui occorre corrompere per diventare professore o nei cui scantinati custodi folli cucinano cani, nel prosieguo la critica si fa ancor più netta. Gli abusi di un potere che privilegia la repressione rispetto alle indagini su un serial killer in Memories of Murder, disarmante rappresentazione della barbarie culturale figlia che alberga in un regime; il mostro come pretesto per un giro di vite sui diritti di uomini e cittadini nell’originalissima fantascienza di The Host.

L’autorità ne esce costantemente con le ossa rotte: nel migliore dei casi come esempio di somma inefficienza, nel peggiore come organismo preposto alla sopraffazione (di diversi, svantaggiati o nemici politici) più che alla tutela dei suoi cittadini. Fino al maestoso Mother, in cui il registro di Bong si innalza a livelli di tragedia greca, giocando con archetipi ancestrali per raccontare in una storia di miserie umane l’assurdità dell’orrore e la morbosità di relazioni familiari che hanno irrimediabilmente deviato dalla retta via. Famiglia e provincia, la crudeltà del quotidiano, proprio come in Poetry di Lee Chang-dong (anche se da un altro punto di vista e con differenti approdi). A completare il quadro della retrospettiva i primi cortometraggi di Bong, disconosciuti dallo stesso autore per eccesso di umiltà di chi preferisce nascondere i primi vagiti di un genio ormai scopertamente rivelato al mondo del cinema.

IL CONCORSO

Un’annata ricca di titoli, quella 2009-2010, da cui il Korea ha pescato un po’ acriticamente. Come apertura si è puntato sulla pompa magna, quel Blades of Blood che, seppur campione di incassi in patria, non fa che riproporre tutti gli annosi difetti irrisolti del wu xia in Corea, strizzando l’occhio a innumerevoli stereotipi (lo spadaccino cieco, la vendetta, la figura tragica del super-guerriero che dimentica l’importanza degli affetti) senza mai raggiungere una coesione narrativa che non sia zavorrata dagli eccessi. Molti dubbi anche sull’assegnazione dei premi: al di là degli evidenti meriti di un film astuto e accattivante, ha senso che vinca nuovamente Castaway on the Moon, già vincitore quasi un anno prima a Udine? Il premio è del pubblico, non della giuria – che ha scelto l’involuto She Came From – ma le perplessità permangono sulla decisione di includerlo nella rassegna; in ogni caso Castaway on the Moon conferma di saper toccare le corde giuste tra commedia e melò, mescolando abilmente una sceneggiatura brillante con una confezione da esportazione.

Estremamente ambizioso Moss di Kang Woo-suk, sorta di Chinatown della provincia coreana sui segreti sepolti nel passato di una singolare comunità, tratto da un fumetto di successo in patria. Materiale per un’eccellente serie tv che invece si traduce (solo) in un  prolisso whodunit, in cui vengono introdotti troppi elementi eterogenei a infittire inutilmente la trama. Deragliando dai binari della convenzionalità, avrebbe potuto essere un capolavoro. Termine – aborrito ma efficace – a cui si avvicina Paju, secondo film della talentuosa Park Chan-ok, già passato a Rotterdam: una donna, merce rara nel cinema coreano, quasi il contraltare della hongkonghese Ivy Ho. Una storia d’amore che va oltre la soglia del dolore e non si arresta di fronte a nulla: sofferenza, rimpianti, sensi di colpa a cui non ci si può sottrarre, scherzi del Fato che sembra costantemente agire nei tempi sbagliati in una tragedia degli errori che fonde abilmente evoluzione dei sentimenti e impegno politico. Mentre nel nulla spaziotemporale di Paju gli edifici crollano e si sgretolano, come le vite irrimediabilmente diroccate dei protagonisti.
Sorvolando sulla retorica patriottica di 71 Into the Fire, ennesima riproposizione del modello di Salvate il soldato Ryan mediato da Taegukgi e aggravato dalla presenza di idoli del K-pop, sull’irrimediabile involuzione di Hong Sang-soo (Ha Ha Ha), sul disarmante remake di Blair Witch Project (The Haunted House Project) e sul piatto Secret Reunion, dove per la prima volta Song Kang-ho pare adottare il pilota automatico, è il thriller-noir (emblema del cinema coreano come lo heroic bloodshed fu del cinema di Hong Kong) a riservare le ultime sorprese in chiusura di festival. I Saw the Devil, ultima fatica di Kim Jee-woon, forse eccede nei territori del manierismo (cari all’autore di A Bittersweet Life), ma imprime nella mente immagini di morte e disperazione con una forza visiva che è propria solo dei grandi; in tono più sommesso ma non meno efficace Man of Vendetta di Woo Min-ho, cinema di genere duro e puro che non accenna un minimo di allargamento dei propri orizzonti, ma sfoggia con orgoglio la solidità di un artigianato che non teme rivali, regalando un villain memorabile, oltre che uno dei moventi più disgustosamente prosaici della storia del noir.

Il 2012 sarà l’anno del decennale, quello in cui il Korea dovrà vivere la sua svolta più impegnativa: tentare il salto di qualità organizzativo per conferire alla doverosa e inevitabile celebrazione il contesto che merita.