Un’opera pienamente calata nel presente, nella quotidianità più prosaica, e al contempo un’arca archeologica, un film-documentario che appassiona quanto una fiction, una telenovela vera come la vita. Certo, per lo spettatore le dodici ore in cui è filmata la vita del quartiere di Mafrouza ad Alessandria, in Egitto, potranno costituire una prova, benché suddivise in cinque documentari di oltre due ore ciascuna (talvolta avvicinandosi alle 2.20, altre volte superando le 2.30).

Ma se si ha la tenacia di arrivare intorno alle due ore, vale a dire non molto lontani dalla fine, ciascuno di essi si rivela nella sua unicità, nella sua irrinunciabilità. A Parigi, la stampa d’opinione (Libération, Le Monde…) ha tributato un’attenzione forte al ciclo Mafrouza (e il cinema d’autore, del resto, lo è di prammatica da queste parti) della francese Emmanuelle Devoris. Le sale che lo proiettavano vi hanno aggiunto simpatiche iniziative di sostegno: il cinema Saint André des Arts, sala storica in pieno Quartier Latin, sabato 2 luglio ha proposto una notte con l’integralità dell’opera, dalle 20 alle 9 del mattino, in cui venivano offerti un buffet egiziano e al mattino una prima colazione…Un’iniziativa che riflette lo spirito dominante in questo spicchio nascosto di umanità ultima egiziana: se dovessimo dire lo Spirito che anima gli abitanti di Mafrouza, diremmo che sono due: lo Spirito della Notte e lo Spirito della Festa. La festa malgrado tutto.

Perché questa sorta di enclave di paria (rac)chiusi in una sorta di no man’s land, spesso sconosciuta ai più anche nella stessa città di Alessandria, che vivono in abitazioni semi-diroccate vicino al porto, costruite sopra una parte della necropoli greco-romana, sorta di bidonville della pietra, trova la piena espressione del suo Sé (se inteso, paradossalmente ma non troppo, come una collettività-entità) nelle sequenze notturne, nelle feste interminabili della notte. Queste notti hanno un loro Re, un loro eroe: Hassan, gaglioffo buono, disertore, incapace di accettare l’autorità, che torna, con una modalità più o meno accentuata a seconda dei casi, in tutti e cinque i film.

E’ un personaggio, Hassan. Un personaggio romanesque come non se ne fanno più al cinema. Come dimostra la La bocca del lupo di Pietro Marcello, non solo bisogna ormai scovarli nel reale, ma ai margini del reale, tra i marginali dei marginali. E come La bocca del lupo filma “una storia d’amore come non se ne sanno più raccontare” (Goffredo Fofi), Mafrouza filma tante storie, incrociate tra loro, di personaggi che un tempo la cultura borghese avrebbe definito pittoreschi, quale più, quale meno, ma divenuti oggi “merce” rara assurgono a ultimi sopravvissuti di un mondo pasoliniano ormai scomparso. Un Mondo Perduto. Un Arca che racchiude gli ultimi esemplari di un sottoproletariato, ma è un’Arca senza futuro, troppo fragile rispetto ai panzer della modernità che avanzano inesorabilmente. Questi marginali dimenticati da tutti, sono la vita e ci ricordano cosa è la vita vera, vissuta con gioia, con pienezza.

Hassan è il personaggio paradigma di un enclave anarcoide che un tempo era frequente trovare nelle capitali europee, enclavi ora praticamente scomparse. Una delle più belle rappresentazioni recenti, su cui abbiamo scritto altrove, è quella raccontata dal francese David Prudhomme nel suo romanzo a fumetti Rebetiko (Coconino press), ma l’ambientazione si svolge appunto nel passato, nel 1936, durante la grande avanzata dei fascismi, e in Grecia. E’ il ritratto unico di un mondo di ladri e musici, anarchico e anti-borghese, gioioso e fiero della propria identità. Prudhomme, del Rebetiko, musica di minoranza tra le musiche delle minoranze etniche, ne fa una metafora di tutte le etnie perseguitate perché “diverse”. Qui, nella fattispecie, è la comunità greco-turca che viveva in una bidonville di pietra. Una comunità danzante, sempre e comunque, ma il cui spirito fa ucciso non dal dittatore Metaxas che li perseguitò, ma dall’industria consumistica livellatrice che li depauperò dell’identità, o li fece divenire simulacri di sé stessi per il turismo newyorchese.

Mafrouza è film eminentemente archeologico: come detto, il quartiere era situato su un immenso sito greco-romano, quartiere-decrepito, e in parte immondezzaio, abitato da derelitti, ma costruito sulle vestigia di un passato grandioso. La sua realizzazione del resto è stata suscitata da un archeologo francese che ha segnalato questi luoghi alla regista, la quale vi è andata con un altro archeologo che lavorava alla topografia del quartiere. In un tempo passato più recente, altra vestigia, vi erano le officine di lavorazione del cotone, da cui deriverebbe il nome di Mafrouza. La Davoris ha impiegato due anni a girare le dodici ore di documentario, ma la costruzione del progetto ne ha richiesti circa dieci. Una pazienza da archeologa, da premiare. Una lotta contro il tempo prima che tutto questo si dissolvesse, assillo tipico degli archeologi. Perché oggi, come il potere di Mubarak (l’unico passato per il quale non si prova nostalgia), Mafrouza non esiste più. Dal 2007 fa parte delle vestigia della memoria, memoria a cui contribuisce in modo fondamentale questa serie di film. I suoi abitanti sono stati ricollocati in giganteschi palazzoni dove hanno perso la loro identità, a quanto ha dichiarato al quotidiano Libération Emmanuelle Davoris: “il quartiere è stato distrutto in due giorni nel 2007 […]. Gli abitanti [di Mafrouza  sono stati alloggiati] in un immensa cittadella di grattacieli, sulla strada desertica del Cairo, con dei laghi inquinati attorno. Le condizioni d’igiene sono un po’ migliori: c’è l’acqua corrente, non ci sono più pulci, scarafaggi. Ma con l’allontanamento dal porto (tre ore di andata e ritorno in mini-bus), molti uomini non lavorano più. Le derrate sono più care. L’impoverimento è molto netto. Sul piano dei rapporti umani è abbastanza disastroso: le donne non escono più la sera o senza il velo, i rapporti di solidarietà sono scomparsi”.

Il cinema, sempre più, registra e indaga il dissolvimento di vecchi e cadenti luoghi abitati, ma dove l’essere umano, con mille difficoltà, dominava e illuminava, sostituiti dall’innalzamento di grattacieli dormitorio, dove gli abitanti perdono qualsiasi fantasia e capacità d’interagire con gli altri, con il territorio. Ci torna in mente quanto scrivevamo su Chatrak, l’ultimo lungometraggio del cingalese Vimukthi Jayasundhara, visto a Cannes; in quel testo accennavamo tra l’altro anche a Still Life, il capolavoro del cinese Jia Zhang-ke, altra opera che trattava di questo dilemma dilaniante.

Ora, in qualche modo, anche gli abitanti di Mafrouza sono vestigia. Irrinunciabilità, dicevamo all’inizio del testo. Se si giunge alla fine di ciascun documentario, e alla fine del ciclo, questi personaggi, questi esseri umani, ti si attaccano addosso, ed è un mondo caldo e avvolgente da cui è doloroso staccarsi. L’irrinunciabilità è quella di chi è filmato e assieme quella dell’opera filmica, in un tutt’uno inscindibile. La Davoris “fa corpo” con i corpi filmati, e riesce a farlo anche grazie al fatto che non sempre capiva bene quello che dicevano i suoi interlocutori.

Il minimalismo della vita quotidiana reso epopea. Nel costruirla, la Devoris compie un va e vieni continuo tra le case-anfratto, i vicoli-anfratto, dove l’unica apertura sull’esterno è data dall’enorme voragine in cui si riversano detriti di ogni genere. Tutto è filmato a livello d’uomo, anzi, a livello d’abitante di Mafrouza, proprio come i palazzi che circondano la voragine sono filmati dal basso della voragine. E lo spettatore può impostare a modo suo un va e vieni tra un episodio e l’altro. Come rivendicato dalla regista e dalla produzione, i singoli episodi sono autosufficienti: il film è vedibile in ordine cronologico, ma anche nell’ordine anarcoide che vorrà dargli lo spettatore, riflettendo lo Spirito delle “genti” filmate e quindi lo Spirito del film.

Ma volendo seguire l’ordine (pre-costituito), Oh la nuit, il primo documentario, è un ode alla notte, alla festa (ma festa e notte torneranno anche nei film seguenti), un concatenamento di feste nuziali, cioè di vita piena e speranza nel futuro in un ambiente costretto. Ma è forse l’episodio che fa più respirare l’atmosfera archeologica; Coeur, il secondo film, ci fa vedere molta acqua: infatti molti abitanti sono afflitti dall’acqua, dalla melma. Le infiltrazioni dal terreno sono incessanti, inondano le case: assistiamo così a spericolate e complicate manovre per svuotarle dall’acqua, acqua che poi spesso torna. E assistiamo alle confessioni afflitte di chi non sa come uscirne; Que faire (Che fare?), il terzo capitolo, è quello in cui si percepisce che ormai il popolo di Mafrouza ha preso definitivamente confidenza con la camera, con Emmanuelle, ribattezzata “Iman”. E’ l’episodio della spontaneità, e quello che racchiude alcune sequenze chiave. Forse il più minimalista, perché vi trascorre molta vita quotidiana, pochi piccoli-grandi eventi; come invece ve ne sono nel quarto, l’invernale (si fa per dire) La Main du papillon (La mano della farfalla), dove si narra della nascita di un bimbo e di fidanzamenti; il quinto infine, Paraboles (Parabole), con la sua televisione dominante, è il presagio della situazione attuale, delle disintegrazione della comunità, della curiosità verso l’altro, del piacere dello stare insieme: nulla è più importante se non seguire l’ultimo telefilm, e ci si abbevera ai messaggi subliminali che rimandano a simboli di status. Si è poveri fino all’estremo, ma tv, satellite e cellulari non devono mancare. C’è un personaggio unico: quello dello sceicco della Moschea, gioviale quanto malinconico, profondo ed ipocondriaco, coscienza frustrata di Mafrouza che detesta i Fratelli Musulmani (da parte di molti, bisogna dire, vi è diffidenza verso di essi). Ha sviluppato un arte dell’oratoria, ma non gli serve a nulla, e si guadagna da vivere col suo piccolo emporio, dalla cui finestra-sportello per la vendita commenta le cose del mondo: la telecamera, quando è con lui, filma dall’interno del negozio verso l’esterno della finestra, che funge come da seconda inquadratura. Si è “dentro”, con la sua visione, la sua sensibilità.

Naturalmente, in questa chiusura vi sono delle brecce: come nelle sequenze fuori da Matrouza, lungo le grandi spiagge di sabbia di Alessandria, di giorno e di notte, con tavoli e sedie alla portata di tutti, si beve e gioca, e l’affollatissima spiaggia nelle ore diurne non dà mai l’impressione di una calca disumana che s’ignora e mal si sopporta, ma di un unica grande famiglia, vociante e festosa. Proprio come dentro Mafrouza, dove, come dice ancora la Devoris a Libération, vi era “una grande libertà d’espressione e di modalità di vita. Ad esempio, le donne non si velavano, fumavano in pubblico. Un qualcosa che si è potuto ritrovare a Piazza Tahrir”.

Il mondo di Mafrouza è un mondo: pare come una tribù che vive ancora in maniera splendidamente primitiva, che ha ancora un’identità, rispetto a quelle irriconoscibili, piene di alcolizzati, che hanno subito un contatto con la civiltà. Perché Emmanuelle non si comporta come quest’ultima. Ascolta, col suono e con l’immagine, anche quando non capisce il parlato. Non violenta. Riesce perfino a inserirsi con naturalezza in una crisi coniugale, senza problemi e senza che questo sembri irrispettoso. Le interviste sono degli scambi; s’integrano, quasi senza che ce se ne accorga, con la registrazione delle conversazioni (in cui magari si passano le sigarette alla regista), che siano casalinghe o di strada. Hai l’impressione di una sola grande intervista, o di una sola grande registrazione: devi stare ben attento per cogliere se sia l’una o l’altra.

Mafrouza non esiste più e il sentimento dello spettatore, se ha il coraggio e la tenacia etica di giungere fino alla fine del “Tutto”, è quello di incredulità: non si capacita di aver lasciato tanti amici, per i quali non sa bene cosa può fare, eppure vorrebbe fare. Deve rinunciare a quell’irrinunciabilità dell’inizio.

Mai più ascolteremo le riflessioni piene di ironia dello sceicco ipocondriaco perché malato di (ri)cerca di umanità; mai più sentiremo quello splendido vecchio con la barba dissertare con saggezza su tutto, e ricordarci che il povero ha tempo, e quindi è umano. Se hai tutto, non hai più tempo, hai sempre qualcosa da fare, non hai più gli “altri”, non hai più nulla. E mai più sentiremo ballare e cantare Hassan, l’anarcoide Spirito della Notte, e dunque di Mafrouza, ragazzo di una bellezza da cinema d’avventura d’altri tempi. Ormai nessuno di loro è più così come li vediamo in Mafrouza, l’epopea minimale. Fantasmi su pellicola della grandezza che furono.

Ma a noi hanno lasciato la vita, e, sperando di non fare retorica, sta a noi saperne fare tesoro, invece di fare di questo documentario ciclopico un ennesima opera cult, che è una forma di morte. Perché nel dibattito sul futuro della critica, così importante su questo sito, chi scrive queste righe comincia a pensare, spero con modestia, che forse bisogna tornare a mischiarsi di più con i corpi della vita, con il volontariato coniugato ad una critica assieme divulgativa e di alto livello, alla Bazin. Ma capace di comunicare l’entusiasmo. Bazin: per noi un fantasma vivo dopo aver visto Mafrouza.

Mafrouza, regia di Emanuelle Demoris, Francia 2011, 730′