CRONACHE DI ORDINARIA DESOLAZIONE (ITALIANA)

È una definizione perfetta per il vero “film sorpresa” della mostra. Ma lo è anche per gli altri due film recenti sulla desolazione nazionale, non per forza italiani, che si sono susseguiti in quest’ultimi mesi: Habemus Papam di Nanni Moretti e Un été brulant di Philippe Garrel, visto nei primi giorni del festival. E ora questo L’ultimo terrestre in chiusura. Come presi a panino. Come a non voler lasciare vie di fuga e obbligarci a vedere. Il problema dell’Italia è quello di non voler vedere.

Adattando il romanzo a fumetti di Giacomo Monti Nessuno mi farà del male (appena ripubblicato da Canicola in una splendida edizione), Gianni Pacinotti, Gipi in qualità di autore di fumetti e illustratore, ne fa un’opera con contaminazioni dalla cultura pop e da quella di certo fumetto (sicuramente non da quello esplicitamente concettuale alla Monti). E, in questo senso, rischia molto perché potrebbe anche sembrare che il romanzo a fumetti di Monti, freddo, asciutto, pura descrizione di comportamenti, e di grande precisione, venga fagocitato da giochi referenziali e quindi ridotto a una piccola parabola, magari graziosa, sul male di vivere nella società odierna… Che non ci sia presa di distanza dalla cultura pop. Che la trasfigurazione sia priva di profondità. E invece Gipi, al suo esordio da regista, da un lato fa della pop art sulla pop art al cinema (come molto del miglior fumetto contemporaneo – Ware, Burns… – fa della pop art della pop art nel fumetto) e, dall’altro, anche se può sembrare paradossale, rilancia da un’angolazione inattesa la necessità del corpo dell’attore. E del corpo umano.

Luca Bertacci, un giovane cameriere, vive la propria condanna alla solitudine, come i suoi colleghi, tra il ristorante del Palabingo dove lavora e anonimi incontri con prostitute. In questa monotonia assoluta, viene annunciato un evento incredibile, o almeno tale in teoria: l’incontro con una civiltà extraterrestre.

L’annuncio avrebbe dell’incredibile, dell’epocale, ma l’apatia e disillusione italica, virus pervasivo che pare aver avuto la meglio sul vaccino naturale verso il bello che permeava l’italianità, toglie qualsiasi grandezza ed emozione all’evento. Sfondo e tema del film si confondono: la stanchezza dell’Italia, l’incapacità di indignarsi per questioni etico-morali (fanno eccezione i fanatici religiosi), di meravigliarsi per la bellezza, sia per quella insita negli eventi micro – ma così fondamentali nella vita di ognuno – che macro, è la patologia che affligge il Paese. Chiunque venga dall’estero in visita non si capacita del perché di questo abbrutimento, di questo livore, di quest’odio che cova sotterraneo: si è inondati dalla voluttuosità dei colori, degli odori. Del bello. E questo capita anche all’italiano che torna nella penisola dopo una permanenza di una qualche lunghezza. Naturalmente bisogna essere consapevoli che non tutti vivono in posti bellissimi, e che quest’ultimi sono sempre più riservati ai borghesi dai processi socio-economici. Altrimenti si rischia di ragionare come i bobos, i bohémien-bourgeois, che magari vivono a Montmartre e non si rendono più conto dell’orrenda prigione senza futuro in cui vivono, ad esempio, immigrati o discendenti d’immigrati – di seconda, terza generazione – confinati nelle orrende cittadelle neo-medioevali, les Cités… Anche i bobos, a modo loro, non sanno più vedere (e sentire).

Gli extraterrestri del film – questi esserini-logo non caricature dell’immaginario, ma caricature di come il pop ha rappresentato certo immaginario – sono ovviamente metafora del diverso (gusti e costumi sessuali diversi, culture e religioni diverse), in Italia sempre più visto come nemico, e qui percepiti come un sinonimo di ricchezza (e diversivo dalla noia). Ma sono soprattutto soldatini di un cavallo di Troia al servizio di una metafora più ampia: quella di tornare a saper vedere il bello. Consapevoli della voluttuosità che ci circonda e che pervade l’intera nostra storia. La nuvola extraterrestre finale, splendida Apocalisse liberatoria, pare la restituzione di questa consapevolezza: la nuvola del bello c’è sempre, ma noi non la vediamo più. Gli extraterrestri ce la rendono di nuovo visibile. Ma essi paiono anche metafora ironica del desiderio italico di non auto-responsabilizzarsi mai, di un personaggio – o di un Evento, come questo degli extraterrestri – che li tiri fuori dalla situazione difficile, un effetto dei cattivi vizi, mediante un qualcosa che non può esistere nella realtà. Vogliono uscire dal vizio grazie al vizio. Anzi, attraverso una sua permanenza accresciuta. E questo prima o poi non può non renderti schizoide. Votare Berlusconi, dopo l’immobilismo quarantennale democristiano e i terrificanti anni ottanta craxiani, è stata un’operazione colossale d’ipocrisia nazionale che ha finito per far sprofondare definitivamente il paese e gli italiani nella palude, nell’attuale no mans’ land.

Se si tengono presenti queste considerazioni, e anche se quest’opera prima non manca di alcuni difetti, il quadro metaforico-allegorico scelto dal regista è perfetto, nella rappresentazione di questo infantilismo paludato. Soprattutto è un concentrato di leit motiv – di regia, scenografici, di montaggio, sonori, di dialoghi – più o meno ricorrenti, che si configurano ben presto come un reticolo ossessivo, e dove anche gli elementi segnici più occasionali s’inseriscono in una struttura predeterminata, chiusa, dalle aperture apparenti. O forse apparenza non è, sono i personaggi a non saper vedere la potenziale apertura, a non averne consapevolezza. Il Pala-bingo, luogo di clausura della schiavitù del lavoro, ha tavole e poltrone circolari, le abitazioni sono un complesso di casupole bianche, talvolta di uno scialbo rosso-mattone – i cui  appartamenti si chiamano “app. club n. 5” – divise da una stretta viuzza e da muri di cinta a loro volta di un bianco immacolato avvolgente; le inquadrature sono praticamente sempre oblique, laterali: un mondo di linee parallele (righe disegnate d’un sol tratto, se fossimo in un fumetto) che spesso s’incrociano e si scontrano tra loro, sia quando Luca guarda dall’alto la vicina parlare con il suo fidanzato e i suoi amici, sia quando è inquadrato dall’alto vicino ad una piscina, immobile. Inamidato: un inquadratura-manifesto della sua solitudine, delle altre solitudini raccontate. Un mondo dove i (piccoli-grandi) mondi delle individualità non s’incontrano mai, pur essendo spazialmente contingenti.

La sequenza iniziale è in sostanza un’anticipazione elegante di tutto questo, quasi un video-clip-prologo (che ricorda come concetto base – fatte le debite distanze perché parliamo di un capolavoro assoluto –, il video-clip-prologo al primo episodio di Three Times di Hou Hsiao-hsien): il nostro marginale ha appuntamento con una prostituta in un “appartamento” elegantissimo, estraneo all’anonimato in cui vive e nel quale si muove (la sua automobilina bianca di produzione indiana). In realtà la donna lo riceve in un complesso commerciale dalle grandi vetrate, a più piani, dove letti matrimoniali e non si accostano o si accavallano l’uno con l’altro. Ciascuno di essi ha una denominazione classista – il suo letto, dopo una serie di “miraggi” è quello denominato “cameriere”, con indicato prezzo relativo – nel mondo-non mondo scintillante, voyeuristico ed esibizionista, mercificato fino alla volta del cielo, dove si muovono Luca e gli altri. Per farcelo vedere il cineasta opta per una sequenza che, a suo modo, è cinema proprio nel senso di spettacolo scintillante, voyeuristico ed esibizionista, ma di classe. Allegoria-divertissement della mercificazione fascista della società dello spettacolo, mai lontana dalla realtà concreta. Ma questa sequenza-minuetto – come in Three Times vi era un minuetto attorno a un tavolo da biliardo, foriero di socialità e potenti incontri amorosi nella Taipei anni sessanta – è anche veicolo di contenuto, impedendo così che la bella rivisitazione dell’estetica retro anni Cinquanta e Sessanta in chiave pop sia solo una vana operazione, alla moda, di vintage: i movimenti di macchina eleganti dall’alto verso il basso sono sinonimo delle gerarchie sociali in cui si è imprigionati all’interno di un Paese divenuto un multi-complesso mercificato – provinciale e ammalato di status – e l’uso straordinario della profondità di campo – dei punti di fuga –, soprattutto nell’inquadratura che chiude la sequenza, indicano una possibilità reale… di fuga. E al contempo un miraggio crudele. Non solo: il minuetto tra due inamidati che si osservano circospetti, Luca, timido patologico, e la prostituta, di un glamour-algido che pare quasi scappata dal circo-cinema di Tim Burton, nonché parodia di certa sofisticazione di cattivo gusto che si è impadronita da tempo delle donne italiane, grazie ai piani diversi e alle linee divisorie esemplifica quell’impossibilità di incontrarsi, avvicinarsi con fiducia, e aprirsi, che permea l’intero film. Chi è l’extraterrestre?

RISVEGLIO PLANETARIO

Pacinotti vuole arrivare a un vasto numero di spettatori e quindi rovescia il minimalismo, grafico e narrativo, dell’opera di Monti. Il fumettista aveva scelto una griglia ossessiva: le vignette spesso piccole e regolari, sembrano equivalere a tanti micro-mondi imprigionati; il movimento del bianco, sia quello all’interno delle vignette che quello circondante le stesse all’interno dell’architettura generale delle tavole, mediante un lavoro sapiente sullo spazio è il misuratore della distanza presente nelle relazioni umane; a cui si aggiunge, infine, il procedimento della sottrazione grafica, volto ad esprimere al meglio la dimensione di limbo senza futuro in cui tutti sono immersi. Tutto ciò è reinserito all’interno del film grazie a opportune scelte di regia, costruzione delle inquadrature (e le inquadrature oblique, in modo più discreto, non mancano nemmeno nel libro di Monti), scenografie, montaggio, suono. Così, anche il grande formato cinematografico, apparentemente al puro servizio di uno spettacolo fascinoso, rivela la sua funzione di rafforzamento della duplicità spaziale: spazi potenzialmente aperti, chiusi di fatto.

“Risveglio planetario”. È lo slogan pubblicitario con cui viene comunicato l’evento del contatto con una civiltà extraterrestre, potenzialmente un Evento vero, di fatto declinato a surrogato, a simulacro postmoderno di un mondo privato di ogni grandezza. Di senso del grande e di un senso grande della meraviglia. Universo privato della vastità. Un mondo hangar-stazione di servizio-autogrill (dove viene assunta la vicina di Luca), filmato come un’unica astronave immobile nel tempo. Dal Pala-Bingo al negozio di ferramenta, passando per il centro commerciale, siamo immersi in un grigio-bleuté perenne: dalle ciminiere che paiono dei sylos di lancio di razzi spaziali – o militari – alla famiglia felice del manifesto da propaganda sovietica con riverniciatura all’americana. È la rivisitazione di certa estetica e certo immaginario Usa anni cinquanta e sessanta, divertente e un bel po’ patacca, fatta di alienazioni: dalle presunte invasioni di marziani ai presunti rapimenti da loro operati, fino alle sette affaristiche e sfruttatrici, ne L’ultimo terrestre tre “bei” yuppie, veri “furbetti der quartierino”.

Un quartierino, quello dove vive Luca, a ben vedere molto particolare, perché non se ne esce anche quando se ne esce: e se fossero (fossimo) tutti rinchiusi in una base spaziale o base militare, di quelle che negli Usa, dagli Quaranta-Cinquanta in poi, avrebbero rinchiuso le prove di extraterrestri e dischi volanti precipitati nel deserto? Una base da cui in lontananza – la profondità di campo – si vede l’uscita, ma che un campo magnetico, o una forza psichica, impedisce di fare, malgrado essa sia ben visibile. Luca è spesso vestito di grigio-azzurro, con un giacchetto esteticamente non lontano, anche nel taglio, da quello militare. Altra possibilità: e se fossimo (anche) noi i militari che imprigionano… noi, divenuti extraterrestri-subumani? Quando Luca spia dall’alto la già citata visita del fidanzato della vicina, è un continuo movimento di linee apparentemente vettoriali in realtà mai portatrici di movimento: piuttosto, sono un labirinto dell’immobilità; ancor più vero nella discussione sul gatto morto, filmata mediante un movimento di linee contrarie tra loro, in opposizione, dove la testa del protagonista spicca a malapena. L’Umano ha difficoltà ad affiorare, troppe linee divisorie si frappongono, ma queste linee, che s’intersecano e s’intrecciano tra loro caoticamente, sono in parte concrete e esterne a noi – imposte dal “sistema” – e in parte immateriali ed interne a noi, prigioni che ci costruiamo (sado)masochisticamente da soli. Un lavoro sulle architetture allegorico dell’odierno profondo caos psichico, della paranoia contemporanea elevata a “normalità” quotidiana. È il vecchio concetto di un mondo-cervello creato da un’individualità a suo uso e consumo, ma in una variante interessante perché immesso nel clima farsesco di una civiltà simulacro della grandiosa Storia umana che fu, ormai giunta al suo ultimo stadio.

IL LAVORO SUI VOLTI

Gabriele Spinelli, un amico del regista che studia da tempo tecniche e tecnologie del cinema, qui al suo debutto come attore, è una rivelazione nei panni di Luca Bertacci. Pacinotti, finora autore di fumetti dal segno delicato e guizzante nella leggerezza, compreso nel suo delineare volti tipizzati, dimostra la capacità di capire i volti più adatti al cinema. Volti veri, quasi pasoliniani. Volti che hanno “carattere” e assieme volti “maschere”, come a dimostrare la labilità dei confini. Il volto di Luca, le sue posture, i suoi movimenti, il suo parlare, sono metafora dell’intero film. Un volto compresso per un film compresso. Compresse le emozioni, i sentimenti, la rabbia. Una pentola a vapore che ogni tanto erutta, un rumore sordo che cresce sempre più, un mostro che cova. Del resto è una storia di brutti, dentro e fuori: quando Luca, con assoluta insensibilità, getta nella spazzatura il gatto della vicina, lei gli risponde con un: “Sei la cosa più brutta che abbia mai visto, un mostro. Un mostro!”. Più tardi uno dei suoi colleghi camerieri, gli lancia un: “tu sei oggettivamente brutto”. Un volto squadrato, quello di Luca, dagli zigomi pronunciati, dalla mascella a punta come quella di certe maschere. Un volto alla Chester Gould, il disegnatore di Dick Tracy, eccellente narratore di polizieschi che nei suoi volti-maschere di gangster, condensava tutta la degenerazione fisica dell’ossessione americana per la riuscita, vere e proprie specie di mutanti (concetto ripreso da Daniel Clowes in certe sue opere come Come un guanto di velluto forgiato nel ferro, ricondotto però alla patologia degenerativa dell’americano medio). Pacinotti non fa come Warren Beatty nel film Dick Tracy, dove Storaro riprende i colori accesi, pop, delle tavole domenicali, ma trova un equilibrio tra maschera e realismo. Perché siamo tutti maschere degenerate e volti patinati. Dov’è la differenza? Chi è l’extraterrestre? 

Volti brutti, abbruttiti, per non-luoghi di abbrutimento. La questione sono la donna e il fascismo maschilista italiano, mai veramente affrontato dal Paese al pari del fascismo in senso proprio (è stato colpevolizzato lo Stato italiano alla fine del secondo conflitto mondiale, che continua a non figurare nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma ben poco la popolazione, mediante una presa di coscienza). Perché un altro segmento di ossessivi leit-motiv riguarda il rapporto con il sesso e le donne. Luca è stato abbandonato, e il “Tu sei una puttana” è ovviamente figlio del “Sono tutte uguali, come la mamma”. Viene messa in scena tutta la cattiveria italiana maschilista, così greve dietro l’apparenza della battuta (o barzelletta), alla Berlusconi o Emilio Fede. Se il film, per restare nella dimensione mercificata, è un concentrato in stile dado Liebig – segnico e sonoro – di gran parte della bruttura dell’Italia contemporanea, questa parte è un super-dado Liebig della bruttura italica nel rapporto uomo-donna.

Certo, questo crea anche una certa meccanicità, un’asetticità marionettistica nei personaggi, ma è funzionale alla rappresentazione di un mondo robotico, meccanico appunto, privato dell’anima. I tre camerieri colleghi di Luca, e in particolare il loro capo, guarda caso quello più mussoliniano nelle sue fattezze, non sanno far altro che parlare di donne e scopate, di farsi le clienti. Il problema di vita è quello di “conoscere una troia”. Non è nemmeno più una sessualità gioiosa, come era un tempo per l’italiano medio: solo una frenesia gelida. Così è per i tre furbetti della setta: ‘fratelli di luce’ la cui rappresentazione rapsodica di un rapporto sessuale con due affiliate alla setta, pare quella di un documentario naturalistico sulla riproduzione dei conigli. Tra un saluto extraterrestre – Namasté – e l’altro, ci scappa “un rettiliano mi si appoggia dietro”. Ossessione per il sesso e fobia per l’omosessualità vanno mano nella mano: “magari pensavano che volevamo far l’amore”, dice il capo-cameriere all’altro collega, beccati insieme in macchina dagli altri due. Il Paese dei mammoni è un mondo di odio verso la donna. La positività, in questo film, è invece marginalizzata nel femminile, in senso lato: in una certa misura nel trans, amico di vecchia data di Luca, nella graziosa e sensibile vicina – la storia d’amore pontenziale che non decolla mai –, e infine nella extraterrestre che si prende cura del padre di Luca – il volto segnato ma umano di Roberto Herlitzka –, relitto del vecchio mondo italico che vive in un casale, cadente, della campagna toscana.

Il casolare in disfacimento del padre, il suo vivere nella natura, contrasta doppiamente con il resto del film. Là dove vi era un bianco onnipresente per le abitazioni, o un grigio-blu industrial-spaziale, si oppongono ambienti naturali, un realismo classico, una rappresentazione naturalistica, a cominciare dai colori. Si gioca con il contrasto – molto forte nel cinema – tra la dimensione realistica insita nel mezzo cinematografico in maniera, per così dire “naturale”, e quella più irrealistica, così “naturale” per il fumetto (o nel cinema d’animazione, anche se con molte specificità a sé stanti), e che il cinema può raggiungere al prezzo di forti e talentuose manipolazioni, o trasfigurazioni (Fritz Lang, Fellini, Tim Burton…). Il regista gioca sul contrasto, usa l’estetica pop come metafora dell’odierno mondo inumano, ma qui si sente anche in modo esplicito quello che nel resto del film è implicito, lasciato negli interstizi della narrazione, del visivo: Luca è un logo-marionetta da fumetto (o quantomeno il suo essere anche logo lo rende riconducibile a certo fumetto), che soffre, e come abbiamo detto contiguo a tipologie reali, ormai più o meno perdute, di marginalità pasoliniane. Una dialettica – in gran parte del film sottile – che qui si fa esplicita, come nella bella sequenza notturna nella stalla del casale, con l’apparizione della extraterrestre, luminescente, di un biancore diafano, burtoniano. Ricordate il contrasto – che ha fatto scrivere non poche pagine critico-teoriche – nel capolavoro Still Life di Jia Zhang-ke dove, nel contesto di un approccio in stile documentaristico e prossimo a certo neorealismo, faceva capolino nel cielo diurno, rapidissimo, un ufo disegnato in digitale? Magia dell’irreale nel reale più netto: uno “stridore” così forte è possibile solo nel cinema. Così, l’assenza di una extraterrestre, di qualcosa del tutto alieno, si fa sentire ancora di più. La extraterrestre-logo se ne va, e torna il senso di vuoto: prima l’anziano uomo gli poteva insegnare come si faceva l’orto, lei gli cucinava bei pranzetti, la casa era di nuovo ordinata, e l’esterno del casale toscano, da smorto, assumeva colori rosso-ocra – più o meno quelli extraterrestri del finale.

I quattro camerieri si ritrovano tutti insieme per quello che dovrebbe essere uno scherzo goliardico – modo di scherzare tipico del Ventennio, e che ben resiste – al cameriere divorziato e abbandonato dalla moglie: farlo andare con un trans illudendolo che sia una donna. Non sono nemmeno sfiorati dall’idea che il trans sia una persona, quindi con una dignità propria, e possa reagire male, ribellarsi. Così come lo stesso trans e Luca, unici personaggi “maschili” di una qualche positività, sono minimamente sfiorati dall’interrogativo il comportamento corretto da tenere verso la vicina per il suo gatto morto, tale è la cieca assuefazione a comportamenti anomali divenuti normalità. Nel crescendo della sequenza della violenza sul trans, abbiamo l’illustrazione di uno dei tanti fattacci di cronaca nera, così tipici del nord-est “civilizzato”, seppur con una certa tendenza didascalica (forse consapevole). Per il transessuale è probabilmente l’ultima notte, anche se viene lasciata un ambiguità. È l’unico momento di violenza macro del film, dopo quello micro dell’uccisione del gatto (che il regista non visualizza). Perché Pacinotti predilige la violenza psicologica, sorda, insensibile che domina i rapporti umani di questo microcosmo limbico-infernale.

Spesso, lungo il film, Luca è assalito da una presenza-sonora – leggasi: la sua (mala)coscienza, così come il presagire l’arrivo degli extraterrestri; in pratica due facce di una stessa medaglia. Una Rivelazione –, la quale, sistematicamente, dopo aver raggiunto l’apice, si arresta di colpo, lasciando di nuovo spazio al silenzio, al vuoto. Un procedimento tipico degli horror, o dei thriller o della fantascienza in qualche modo contaminata dagli horror. Il lavoro sul suono, fondamentale quando nel campo c’è Luca, lo è in particolare nella sequenza dove il trans è picchiato a morte: il rumore di fondo ossessivo cresce, finalmente diviene urlo, poi esplosione rock, infine una doccia. Tutto molto veloce, rapsodico. È la Rivelazione, la Coscienza, l’Amore, che possono affiorare, che affiorano. Non bisogna infatti dimenticare che Luca è appunto il veicolo – versione ironica di un nuovo Messia – di un secondo movimento che cova: tutte le notti sogna gli extraterrestri, una nebulosa-presagio, forse qualcosa di più. L’ultimo terrestre è anche l’unico: colui che ha ancora qualcosa di umano, un qualcosa finora soggiacente, tenuto represso e che ne fa l’unico essere degno di poter incontrare la moltitudine extraterrestre (leggasi: i diversi e quel che hanno da dare, gay, trans, immigrati ovviamente. Senza dimenticare le donne, la più grande “minoranza” al mondo). Luca, dietro l’apparenza inamidata, è il personaggio che porta una croce, perché trafitto puntualmente da linee direttrici opposte, da “barriere architettoniche” divergenti e frastagliate riprodotte dall’esterno all’interno del Sé, nella propria interiorità. È dal conflitto interiore che nasce la Coscienza. Forse, la Santità. Basta saper vedere – ascoltare – i “segni”.

VIOLENZA ROVESCIATA

C’è poi un elemento profondo, nascosto dietro la cinéphilie: la violenza rovesciata. Citare Taxi Driver, ancora una volta è solo apparentemente pura pop-cinefilia: perché il film si pone all’opposto del cinema americano, anche quello di denuncia – Coppola, Kubrick, Scorsese, ecc. – che fa uso della violenza in senso spettacolare ma finalizzandolo alla critica di una società intrinsecamente violenta, ossessionata dalla riuscita e dallo status, e dove il represso è compresso, ma prima o poi esplode violentemente. Nell’Italietta americanizzata – berlusconizzata – il represso-compresso esplode – urla – ma in reazione alla violenza che non ha trovato la forza di fermare (la violenza omicida verso l’amico trans): una liberazione, un “elevazione della coscienza”, come forse riesce ai mistici – in fondo il nome di Luca è prima di tutto quello di un apostolo di prima grandezza nell’idea di una Chiesa davvero cristiana –, ma che nessuna setta è mai riuscita a conseguire. Un film non ateo, e nemmeno cristiano, duplice piuttosto: laico-cristiano. Questo comportamento del protagonista si riflette nel film: una sola scena di violenza spettacolare (e neanche troppo), poi più nulla: una compressione in positivo. Quell’urlo è, in verità, un no a tutto, un no all’accettazione dello stato di cose, nel suo senso più ampio. È quello che provano tanti osservatori stranieri, che non si capacitano di questo ripiegamento meschino rispetto ai problemi di altri paesi – ad esempio europei – dove la violenza sociale è problema ben più grave che in Italia. “Liberatevi” da questa visione autarchica, ripiegata su sé stessa, che vi toglie ogni futuro, è il loro potenziale urlo esortativo e salvifico nei nostri confronti.

Nel romanzo grafico di Monti sono due mondi che non s’incontrano, gli extraterrestri fuggono via. Va più a fondo – il suo approccio minimalista facilita una cronaca più realista – nella constatazione della deriva italica, sempre all’avanguardia nelle regressioni storiche. Ma Pacinotti rilancia lo spettacolo rifuggendo da eccessi spettacolari, costruisce sequenze ammalianti, e grazie ad esse fa giungere con dolcezza voluttuosa e ironia sabotatrice di falsa retorica, un messaggio insperato di speranza. Di ritorno della linea dell’orizzonte.

Di conseguenza, anche i pesanti macchinoni-blockbuster come Indipendence Day sono citati nel finale alla rovescia: la nebulosa finale che ricorda il film di Emmerich è infatti benefica, liberatoria. Con la sequenza in rosa-rosso, finalmente sostitutiva del grigio-blu, l’Apocalisse dell’amore giunge: sorge un suono, ma celestiale, poi il suono si ferma, silenzio, gli occhi di Luca si fanno dolci. Sorride. Finalmente liberato, ora è il primo terrestre.

Certo non mancano difetti, errori, cadute. Alcune battute sono fuori posto, non se ne coglie le “second degré”, la presa di distanza dal trash. La trasfigurazione. Ci vuole maggiore densità continuata nella costruzione di inquadrature e sequenze (quella nei locali della setta, un po’ troppo facile). A metà film ci vorrebbe forse una seconda scena come quella iniziale con la prostituta, veicolante un senso profondo e spettacolare insieme, perché si avverte un calo di tensione nonostante i numerosi colpi di scena. Tanto più che Pacinotti riesce ad essere più di una volta burtoniano senza essere ridicolo: numerosi i momenti dove si pensa al regista di Mars Attacks, Ed Wood e Edward mani di forbice, tutti antenati spirituali de L’ultimo terrestre. È quindi un peccato che non sfrutti appieno, e rimangano invece a livello di accenni, sequenze magiche come quella del rapimento del transessuale da parte degli extraterrestri: il cielo notturno che appare a più riprese, e che sembra pittato, resta nella mente. O il momento di comunione tra il padre, Luca e la donna extraterrestre. Manca un momento empatico magico – un momento di stasi nella successione meccanica – che conferisca una poetica accresciuta al film, pur nella sua dimensione ironica. Gli extraterrestri sono uno sguardo “altro”, alieno appunto, e quindi si prestavano a questo scopo. Tanto più che Burton è un grande esempio, nei suoi momenti migliori, di un uso plastico dell’immagine per sospingere il senso poetico del film ammaliando lo spettatore. La rivelazione fatta dal padre, che comprende anche l’omicidio della madre, avrebbe forse bisogno di un momento in cui ci si parla davvero come esseri umani e non di una battuta come “che vuoi, è successo, tanto tempo fa”. Forse il padre è perduto, ma è tutto un po’ troppo veloce e, soprattutto, un po’ troppo inumano (tanto più dopo la visita della extraterrestre). È invece meno fondata la critica che non si ha una reazione, una Rivelazione: se si analizzano la successione di fatti e azioni, e la struttura stilistica del film, il comportamento di Luca diventa inevitabile, conseguente.

In definitiva, unico ufo del Concorso (dove non mancavano buoni e grandi film), a noi pare che con L’ultimo terrestre sia nato un nuovo stile, un nuovo sguardo. Quindi un nuovo autore.