Lungo il suo percorso disuguale, serenamente indisciplinato, che lo ha portato avanti e indietro dalla sexploitation al documentario sociale, dai microbudget ai blockbuster di Hollywood, Jonathan Demme ha mantenuto un’affezione piuttosto costante per le incarnazioni di comunità locali, voci da raccogliere o rappresentare come genuina testimonianza dell’humus Americano. Così si può leggere il coro di radioamatori dipinto in Handle With Care (1977), primo progetto dopo la fuoriuscita dalla Factory Cormaniana, e allo steso modo è nato Melvin and Howard (1980), biopic antisensazionalista sull’instant celebrity Melvin Dummar, camionista proclamatosi erede del magnate Howard Hughes. Più di recente, le trasmissioni radiofoniche in creolo di Jean Dominique avevano rapito il regista durante le ricerche per un documentario sulla musica di Haiti, dando origine all’accorato e importante The Agronomist (2003).

Facile comprendere come il suo sguardo si sia potuto infatuare di Carolyn Parker, quotidianità lampante e orgogliosa che irrompe di fronte alla platea Statunitense durante un Comitato di Ricostruzione in diretta nazionale: occhi lucidi, teatralità da strada, parole feroci per reclamare il piano di riedificazione non pervenuto per il suo Lower 9th Ward, zona storica e disagiata di New Orleans, affacciata sulla foce del Mississippi e pressoché rasa al suolo dai flutti di Katrina nell’estate del 2005.

I’m Carolyn Parker: the Good, the Mad and the Beautiful è un ritratto emerso da centinaia di ore di girato raccolte in cinque anni di sopralluoghi a New Orleans con la macchina da presa in spalla concepiti inizialmente per documentare il disastro e la ricostruzione, delineatosi passo dopo passo attorno alla presenza vibrante di un personaggio magnetico nella sua appassionata normalità. Afro-messicana cresciuta ai tempi della segregazione, madre di tre figli orfani di un padre ucciso in una rissa ed ex cuoca di specialità creole, Carolyn è stata l’ultima ad evacuare dal suo quartiere e la prima a tornarvi, testardo puntello di una comunità sconvolta ma per nulla affranta dalla tragedia.

Le immagini del documentario si lasciano riempire dall’umanità strabordante di Carolyn, dei suoi familiari e dei vicini, dando la precedenza a un sorriso spontaneo, a un incontro casuale, a una ricetta cucinata in un container, al potere descrittivo di uno scambio di battute piuttosto che alla pulizia formale e fotografica o al taglio di un fuori fuoco. Mese dopo mese, dopo il colpo di fulmine, l’agilissima troupe di Demme torna a fare visita alla casa del Lower 9th Ward, testimoniando le difficoltà e i significati intimi della ricostruzione di un’abitazione dopo un disastro naturale, del tornare a vedere in famiglia le partite di football trasmesse dal Superdome in cui ci si è ricongiunti mesi prima con lo zio invalido.

Complementare alla denuncia canonica e rabbiosa dell’istantaneo When the Levee Breaks (2006) di Spike Lee, I’m Carolyn Parker cerca nella confidenza e nell’evoluzione di un rapporto diretto le tracce della propria “America preferita”, senza paura di affiancare ai quotidiani meriti della propria protagonista anche gli umanissimi difetti, come lascia intendere anche il ruffiano sottotitolo del film. La denuncia e la testimonianza trapelano sottili dagli accessi di rabbia nelle conversazioni col postino, dall’attaccamento a dalla gratitudine verso le installazioni fighette della che portano aiuto ai disastrati “bayou” di Backatown. Nella rinata chiesa rionale di St. David si canta “Brick by brick, step by step, people’ll do the rest”

Accolto svariate volte dai lustrini del Kodak Theatre, passato con piglio pragmatico attraverso blockbuster con Tom Hanks e thriller di fantapolitica, Demme aggiunge un nuovo tassello alla sua filmografia genuinamente “off”, in una carriera ormai quarantennale e mai dimentica di un principio cardine del filmmaking indipendente: una macchina da presa e tanta paziente determinazione, sarà la gente a fare il resto.