Il percorso artistico di Shinya Tsukamoto è quello tipico del cineasta perennemente ai margini. In Italia, per esempio, nel circuito distributivo regolare non è passato praticamente nulla, a parte Snake of June, eppure, e questo avviene persino dalle nostre parti, non sono pochi i cinefili che lo adorano, e la sua influenza è riscontrabile anche in cineasti apparentemente lontani (sarà deformazione professionale, ma durante Cut di Naderi a Venezia abbiamo pensato a Tokyo Fist, 1995).
Dai tempi dei furibondi esordi cyberpunk alla Tetsuo (1989),  il cinema di Tsukamoto si è rarefatto, fino ad arrivare ad opere magari dolorose ma irrisolte, come Vital (2004). Kotoko, presentato in Orizzonti con successo (ha vinto il premio della sezione), ci appare invece come l’opera della maturità di un cineasta irrimediabilmente scisso tra il cinema sanguigno e visionario delle sue origini e urgenze autoriali contingenti, sempre più particolaristiche e intime. Kotoko è una giovane madre single che ha dei seri problemi ad uscire di casa: vede le persone in qualche modo “sdoppiarsi” fisicamente, in una identità buona e in una cattiva. Le identità cattive la aggrediscono fisicamente, e le fanno progressivamente perdere il senno. Tanto che lo spettatore finisce per temere,  a un livello che rasenta l’intollerabile, per la vita del suo bambino. Il piccolo del resto le viene portato via dalla legge (viene affidato alla sorella, che abita fuori città), facendola cadere in un altro gorgo di disperazione e trasformando gli sparuti incontri con il bambino nella vera ragione di vita della donna.

Le tematiche autoriali di Tsukamoto ci sono tutte: l’orrore innervato nella quotidianità, la violenza ossessiva ed improvvisa, le fratture psichiche causate dal passato rimosso (che possiamo solo intuire, attraverso pochissimi frammenti, quasi subliminali, su una spiaggia). In qualche modo, però, si avverte in Kotoko un senso di compiutezza in grado di soddisfare appieno chi non aveva apprezzato gli ultimi lavori dell’autore, che sembravano sempre bloccarsi a metà senza riuscire ad organizzarsi in forma finita. Probabilmente, è merito di una struttura narrativa che scava nelle ferite della psiche della protagonista Kotoko, mostrandone da una parte l’insanità mentale, dall’altra l’istinto materno: perché la donna, che non riesce ad avere relazioni con nessuno (anche se ci va vicino con uno scrittore interpretato dallo stesso Tsukamoto) è chiaramente e profondamente disturbata, ma si sforza anche di essere la miglior madre possibile. Di più: la follia sempre più dilagante di Kotoko sembra il risultato dello stress teso al raggiungimento del benessere del proprio figlio. La regia costruisce la narrazione tenendo fuori il più possibile il mondo esterno ad una protagonista che con la gente, specialmente se si tratta di uomini, appare più che mai gelida e ferma. E il risultato finale non è tanto un’esplosione quanto un’implosione: la follia genitoriale di Kotoko diventa una richiesta d’aiuto, un grido di disperazione che non può trovare alcuna forma alternativa per manifestarsi. Non per niente il rapporto breve quanto malato con lo scrittore non riesce mai a diventare affettivo, anche perché questi parrebbe sottoporsi alle torture della donna più per una propria forma di infatuazione acritica, pennellata di masochismo, che per amore.
 
Kotoko è un film bizzarro, che riesce a fondere alla perfezione fantastico e ordinario, psicologia e lirismo, aprendosi alla commozione nel modo più imprevedibile. Le ossessioni orrorifiche dell’autore riescono a trovare un canale insospettabilmente calzante nel corpo e nella voce della cantautrice Cocco, in scena praticamente ad ogni inquadratura. Kotoko, difatti, trova una momentanea pace nei momenti in cui canta solitaria, e questi squarci lirici sono tra i momenti più alti del cinema di Shinya Tsukamoto.