Difficilmente due registi riescono a incontrarsi. La visione dell’uno crea un mondo a se stante che raramente può amalgamarsi, dialogare, con quello dell’altro. A volte non bastano nemmeno la stima, la devozione a superare questi scogli. Molti registi hanno tentato di ritrarre Artavazd Pelešjan, senza raggiungere il loro scopo. Nonostante le difficoltà, i tentativi si susseguivano per una semplice ragione: benché misconosciuto in Italia, Pelešjan è uno dei registi più amati e studiati dai cineasti di tutto il mondo. Relegato ai margini della fama per la sua autonomia, per il suo essere lontano dalle aspettative eccessivamente esplicative e narrative, il regista armeno, imperterrito, ha seguito solo le esigenze e le necessità della propria poetica. Infischiandosene delle durate e rinunciando a scelte opportunistiche, è stato ridotto al silenzio da un potere che non si sentiva rappresentato nelle sue opere, tanto lontane dal cinema medio. Tutto ciò ha contribuito a fare sì che il cineasta non sia mai giunto al lungometraggio e che la sua intera filmografia non raggiunga le due ore di durata.

Eppure la forza delle sue immagini, la capacità di amplificare il fascino e la concretezza dell’istante ripreso tramite “il montaggio a distanza”, rompendo il tempo del girato per poi ridargli vita in un montaggio che lo faccia scorrere in un tempo reinventato, impossibile, rende la visone delle sue opere un’esperienza rara, altissima. La pellicola diventa un fiume nel quale galleggiano i destini dell’umanità, e nella quale affiorano tanto i contadini della sua Armenia che i cosmonauti alla conquista dello spazio. Il tutto sopito in dimensioni così distanti da creare un’affabulazione silenziosa, nella quale ulteriori precisazioni, che forzassero l’invasione della parola sull’immagine, risulterebbero in una violenza, un ricondurre il tutto nella logica di un discorso, nelle maglie della ragione che si rivela gretta, povera.

Forse proprio l’accettare e l’ammirare il silenzio, è stata la chiave che ha permesso a Pietro Marcello di realizzare il suo film su Pelešjan. Dopo Il passaggio della linea e La bocca del lupo, la poetica del regista casertano si è sviluppata sulle linee sottili che intersecano la veglia e il sonno, i ricordi e i desideri con la realtà quotidiana. Film nei quali il montaggio restituiva un respiro globale, toccando punti antistanti, forse antitetici, ma riuniti in una dimensione altra, proprio grazie alla compenetrazione quasi liquida tra vari repertori, o grazie a un’atmosfera ammantata dalla voce sottile di una perdizione, di qualcosa di inghiottito nell’oscurità come i treni nella notte.

In questo ritratto di Pelešjan, ogni intento didattico è fugato dall’intenzione dichiarata di creare un affresco, tracciare le rimembranze sfumate di un sogno, di una vita giocata in solitudine. Marcello propone una riflessione, un favoreggiamento visionario inseguendo un regista silente che, mai domo, combatte marciando per vie parallele. Non concedendo altro che la sua presenza, il proprio sguardo fermo, Pelešjan costringe chi lo filma a porsi ripetuti interrogativi. Sembra quasi che il regista Armeno coltivi gelosamente il suo silenzio per dissuadere chi si fida delle linee facili della parola, per ricondurlo su binari impervi, percorsi dell’esperienza, per sfidare chi lo guarda a mettersi nei suoi panni. Solo mediante la massima discrezione, osservando in punta di piedi, pazientemente e diligentemente, ogni minimo gesto, ogni sguardo, si può forse giungere in possesso degli strumenti necessari a entrare in empatia con lui, a raggiungere quella vicinanza così rara e difficile, di cui si parlava all’inizio.

Il cinema “documentario” di Pelešjan, in fondo, possiede proprio questo intento: non cerca di scimmiottare l’esperienza attraverso il mezzo cinematografico ma, partendo da persone e fatti veri, dolorosi, tenta di reinventarli in movimenti e forme portatrici di un respiro differentemente vitale, umano e cinematografico. Seguendo il regista armeno tra i cimiteri, dove riposano i suoi grandi maestri, in casa propria o passeggiando per Mosca, cogliamo un uomo anziano dallo sguardo fermo, nobile, e solo grazie ad esso possiamo scivolare su una corda invisibile e sottile che ci porta tra le pieghe nascoste, tra le rughe dei ricordi, delle speranze. In tutto ciò sono la musica e le sonorità fortemente rielaborate a formare una pista audio che si fa traccia narrativa a indicarci il percorso, il filo del viaggio.
 
Per Pelešjan, l’uomo, che sia contadino o astronauta, è condannato a lottare, sapendo che alla fine non raggiungerà mai una posizione certa, stabile, e che continuerà a librarsi o cadere, imbrigliato tra le contorsioni del fato. Deve però sporcarsi con esso, coltivando nel cuore il battito di un tamburo scandente il ritmo di un tempo diverso, di una grazia, di una creazione più libera e viva. Una dimensione che, in fondo, è quella di un cinema capace di raggiungere una grazia tanto artificiale da divenire reale.