Il film di Farhadi, vincitore dell’orso d’oro berlinese, è imperniato sulla figura di una “badante”, per usare la definizione razzista imposta in leggi di Stato dalla Lega per le collaboratrici domestiche (definizione peraltro che i nostri media hanno assimilato senza opporre “resistenza”). Una delle questioni di fondo trattate sembra essere, in realtà, “chi” bada alla felicità e alla giustizia per le donne nello stato teocratico degli ayatollah, ossessivamente impegnato a badare al mantenimento di una sorta di clausura-castrazione della loro libertà, paradigma del velo steso dal regime sull’intera società iraniana. E proprio questo paradigma è l’ossatura su cui il registra costruisce la sua denuncia metaforica. Nemmeno poi tanto metaforica, a dir la verità, perché è chiaro l’intento di costruire una narrazione in equilibrio tra allegoria e realismo di denuncia, tra l’implicito e l’esplicito, mirabilmente tenuti in equilibrio su un filo sottile dall’inizio alla fine. Un impianto che ritroviamo anche all’interno della narrazione, nei suoi interstizi.

Personaggi maschili chiusi in sé stessi, ossessivi, pateticamente ripiegati nel proprio ego orgoglioso: è il caso del benestante Nader, che ha assunto Razieh, una giovane collaboratrice domestica per accudire il padre, e del marito della donna, Hodjat, di ben più umile estrazione sociale. Hodjat pare aver preso non pochi colpi dalla vita. Anche mediante una direzione degli attori di alto livello, il regista delinea tipologie credibili e vivide. La cosa meno evidente tuttavia, è la specularità dei due personaggi maschili. L’orgoglio di Nader al pari di quello di Hodjat sono un vero muro – un monolite – quasi impossibile da infrangere: entrambi sono l’essenza stessa del potere iraniano, un potere religioso assolutista, pertanto maschile, quanto ridicolo, rappresentato mediante due classi opposte della società iraniana, due facce della stessa moneta. Speculari appunto, andando dall’alto verso il basso delle classi e viceversa. Il film si sfila da una rappresentazione classista manichea pur non esitando a rappresentare il pesante fossato che divide i ceti sociali iraniani. La donna, incinta, sciattamente non sorveglia la nipotina che gioca con le bombole dell’ossigeno del vecchio – dall’inizio alla fine si lavora di fino con delle mini-suspense legate alla quotidianità – e altrettanto sciattamente lascia l’appartamento e l’anziano uomo da solo: per una questione importante e intima, come sapremo dopo. Compie, comunque sia, un atto di obiettiva imprudenza professionale e umana.

Al contempo, è anche il ritratto di una donna strattonata tra le mille difficoltà del quotidiano, impegnata a far da madre alla figlia, a guadagnarsi da vivere, a tenere a freno un marito incapace di lavorare o anche solo di una qualche diplomazia volta a questo fine. Quest’ultimo, si sente a tal punto vittima, predestinato ad esserlo, che per poco non finisce in prigione, passando agli occhi del giudice dallo stato di querelante a quello di querelato, dal giusto al torto. Razieh, in compenso, è sempre bravissima nel mettere pezze ai comportamenti irrazionali del marito. Tutto è sulle spalle della donna, tutto è sulle spalle delle donne, che sostituiscono così nel cinema iraniano i bambini: la donna (Razieh, la collaboratrice domestica); l’adolescente (Termeh, figlia di Nader); la bambina (di Razieh); sono con(in)catenate tra loro tutte le età della vita di una donna: salvo una, quella della vecchiaia che è lasciata al maschio: il padre di Nader, che, nel suo mutismo imbalsamato, paralizzato, pare l’allegoria della decadenza di questo potere. Più esplicitamente, solo agli uomini sembra permesso l’esser accuditi in tarda età, così come sempre alle donne tocca badare a questo accudimento. E se sbagliano nel farlo, sono guai. Per loro e per quell’uomo che, sommessamente, accudiscono, e che in teoria dovrebbe esser lui a proteggere e accudire. Schiavitù dell’accudimento, dell’atto d’amore. Schiavitù della badante. Schiavitù della donna. Prigioniera in perpetuità di una circolarità spietata, implacabile quanto insensata. Il cerchio che imprigiona la donna è indissolubile, inscindibile, da quello che imprigiona la società iraniana. Il suo futuro. Capirlo, vuol dire cambiare davvero. Fuggire, forse, è quello che cerca di fare Simin, la moglie di Nader. Paradigma nel paradigma, sembra esserne il cineasta Jafar Panahi, autore di eccellenti film come Il cerchio (Leone d’Oro veneziano nel 2000), ritenuto reo di aver girato un documentario sulle proteste seguite alla rielezione di Ahmadinejad nel giugno 2009 e obbligato al divieto di realizzare film per vent’anni, di uscire dall’Iran e di comunicare con i media. Questo cerchio va spezzato, e la moglie di Nader pur di non rinunciare al suo desiderio di fuga, di abbandono del Paese (e del campo di battaglia, per vigliaccheria o per lucidità?), divorzia dal marito, per dare un futuro alla figlia Termeh. Nader invece resta, pervicacemente, non rinuncia ad occuparsi del padre. Ma nel farlo, contrariamente alla donna dei ceti bassi, non cerca di essere attento a tutto il resto: butta fuori di casa con brutalità Razieh (incinta), crea un ricatto indiretto alla figlia adolescente, che deve decidere se testimoniare a favore o sfavore del padre, denunciato dalla coppia per omicidio (l’aver provocato un aborto, è infatti un omicidio secondo la legislazione iraniana).

Ritratto di un mondo maschile impietoso quanto disastroso – intrinsecamente immaturo – da un lato. Ritratto di una società iraniana esplosa – almeno nelle grandi città – dall’altro. Non siamo (più) lontani da quanto accade nell’Occidente consumista e mercificato fino al midollo, tanto vituperato da Ahmadinejad e dagli ayatollah. Come in Occidente, la famiglia pare anche qui in progressiva decomposizione. Resiste ancora nei ceti bassi, perché la fatica del vivere e la tenerezza che ne deriva (sempre da parte delle donne) sembrano unire le persone malgrado tutto, combinata al persistere in quei ceti delle convenzioni religiosi e sociali. Naturalmente, se è vero che gli uomini paiono sempre intrisi del loro ego, annegandovi in esso, il film non è manicheo in tutto fatto salvo nel presentare gli uomini senza alcuna umanità: vero è che Nader comunque resiste da solo nell’occuparsi del padre, anche se il personaggio pare un concentrato di egoismi e d’insensibilità; Hodjat si porta dietro un accumularsi gigantesco di umiliazioni, e il dolore di questo vissuto è ben percepibile. Il vittimismo di quest’ultimo, peraltro, pare anche essere quello del mondo povero rispetto a quello ricco: il povero ha certo tante ragioni, ma troppo spesso sembra compiacersi e crogiolarsi della sua condizione di vittima, senza farsi sufficientemente umile, volenteroso e astuto; inversamente, il benestante, pur non mancandogli nulla sul piano materiale, non esita a schiacciare chi ha problemi di sopravvivenza quando ritiene che vi siano state manchevolezze, senza indagare in maniera approfondita, senza ascoltare le ragioni dell’altra parte. Giudica e condanna, seduta stante. Salvo poi auto-assolversi una volta sotto processo. Mentendo e spingendo a mentire in maniera molto sottile. Con silenzi e non detti.

Quello che altrove sarebbe giocato attraverso una messa in scena che mette avanti la dimensione allegorica e i simbolismi, qui è tutta leggerezza, in una gran confusione mediterranea di movimenti e voci (rovinata dall’assurdo, pesantissimo, doppiaggio italiano), malgrado la gravità delle questioni, grazie all’approccio registico ed estetico che, una volta di più, richiama quello documentaristico. E questo è vero anche per un’altra interrogazione importante affrontata dal film, quella tra il vero e il falso, la verità e la bugia: anche qui tutto è negli interstizi, nell’intercapedine, della sceneggiatura, del montaggio, delle inquadrature, per mettere pian piano in luce il non detto, quel che non si osa dire. Grande il lavoro del regista su sguardi e silenzi. Nader ha davvero buttato fuori di casa in così malo modo Razieh da fargli perdere il bimbo di cui era incinta? Dove inizia la finzione (il cinema, le manipolazioni del regime, quelle del vittimismo del povero come quelle del ricco) e dove inizia la realtà? Il film si ricollega ad un interrogazione già affrontata con modalità diverse proprio da Panahi con Il palloncino bianco (sceneggiato da Kiarostami) e dal mitico Close Up di Abbas Kiarostami (regista di cui Panahi è stato assistente). E il fatto che la bambina protagonista de Il palloncino bianco si chiamasse Razieh come la collaboratrice domestica del film di Farhazi, sembra indicare due cose: la prima, è la conferma ulteriore di un filo rosso simbolico tra tutte le età della donna; la seconda, è che per le Razieh del futuro, non resta altro che la condanna a questa tirannide ferrea, cioè la condannare delle donne alla perenne bugia: è infatti Termeh, la figlia di Nader e Sirin, quindi una giovane delle classi agiate, quella che potrà forse fuggire. Inevitabile pensare, infine, che il film sottotraccia sia lavorato, travagliato, dal processo a Jafar Panahi: Le Monde ha giustamente definito la vicenda kafkiana parlando di This Is Not a Film, girato da Panahi (assieme a Mojtaba Mirtahmasb) nel suo appartamento, dove si trova agli arresti domiciliari, e fatto arrivare fortunosamente allo scorso Cannes. L’inquadratura finale voluta da Farhadi, nei corridoi del tribunale, ci lascia nella situazione tragica e grottesca – kafkiana appunto – in cui sono immersi i personaggi, in qualche modo tutti vittime e carnefici di loro stessi. Nell’inquadratura di chiusura, in quella sospensione, in quell’attesa di Termeh, tutto sembra tranquillo. Si ode un litigio in lontananza: forse ogni cosa continuerà come prima, in perpetuità. Una separazione, ovvero una rassegnazione? Oppure è l'(in)quiet(tudin)e che precede la tempesta?

Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin), regia di Asghar Farhadi, Iran 2011, 123′