1. I SUPPORTI E LE COMUNITÀ. DALL’HOMEVIDEO AL WEB

1.1. Cinefili e rivoluzioni tecnologiche

“En tant que cinéphile, je ne peux qu’aimer le vidéo”: questa frase di François Truffaut appariva come schermata iniziale in una serie di videocassette francesi degli anni Ottanta, dedicate ai classici del cinema d’autore. Nel 1983 Giovanni Buttafava scriveva su «Il patalogo» un testo intitolato Una videoteca ideale dove, agli albori dell’era del videoregistratore, descriveva i propri piaceri di cinefilo; e stendeva un lunghissimo elenco di cult movies o, come diceva lui, “filmsanti” italiani (da La segretaria privata di Goffredo Alessandrini a La luna di Bernardo Bertolucci), recuperati e riscoperti grazie alla programmazione televisiva, e resi fruibili ad libitum dalla videocassetta (1).
Ancora oggi esistono i nostalgici del grande schermo: sono soprattutto cinetecari gelosi custodi delle proprie pellicole, o registi che non tollerano di vedere rimpicciolite le proprie opere. Ma di fronte alle innovazioni tecnologiche, al mutare dei supporti di visione e delle forme di fruizione, una parte della cultura cinefila è sempre stata molto ricettiva: quella che ha fatto del cinema una passione che si sovrappone alla vita, e che ha amato il cinema in tutte le sue forme, comprese le più basse e meno qualificate culturalmente.
Se vogliamo capire come cambia la cinefilia nell’era del web, è utile partire dalla prima grande rivoluzione tecnologica dell’esperienza spettatoriale, quella causata dal diffondersi dell’homevideo (2). La videocassetta all’inizio degli anni Ottanta, e il dvd alla fine degli anni Novanta, spostano la visione sullo schermo casalingo, come aveva già fatto la televisione; di più, la rendono replicabile e manipolabile, sia pure entro certi limiti. Il cinema perde, per la prima volta, la dimensione di esperienza collettiva nella sala cinematografica. Si deve dedurre che la cinefilia diventa idiosincrasia e idioletto, come fa presupporre l’elenco di Buttafava, che assomiglia più a un privato catalogo di ossessioni o al diario di un adolescente che a una proposta storico-critica condivisibile?

1.2. Come nasce una comunità cinefila

Rick Altman, nell’ormai classico Film/Genere, ha spiegato come le comunità degli spettatori, anziché essere gruppi materiali, siano spesso “assenti” e “implicite” (3). Dopo avere analizzato il concetto di genere dal punto di vista di chi produce e distribuisce i film, Altman si sposta dal lato dello spettatore. E mostra come il riconoscimento di un genere, delle sue costanti semantiche e sintattiche, crea l’illusione e la necessità di una comunità con cui condividere gli stessi gusti e gli stessi amori. Se amo il cinema horror, posso anche non fare parte di alcun gruppo socio-culturale concreto, ma mi costruisco l’immagine di una “comunità assente”. L’esperienza del cinema di genere passa attraverso la “nostalgia” per una comunità di questo tipo; Altman la chiama “comunità costellata”, ma è una metafora di cui possiamo fare anche a meno.
Detto altrimenti, per entrare a far parte della comunità di fan di The Rocky Horror Picture Show, non è (non era) necessario vederlo in un’affollata proiezione del sabato sera, con i mimi in sala davanti allo schermo e gli spettatori che recitano a memoriale battute dei personaggi. Basta (bastava) vederlo su qualunque supporto, e condividere i valori estetici e morali di cui quel film è considerato espressione dalla comunità degli spettatori, eventualmente influenzati dalla critica: il gusto camp snobistico (4), il riuso ironico di generi cinematografici classici (il musical, l’horror), la trasgressione sessuale.
Nella costruzione di una comunità, giocano sempre due elementi contrastanti e concomitanti. Da una parte, le caratteristiche dei prodotti, il mercato, i canali distributivi, i paratesti modellano le modalità di fruizione, e quindi contribuiscono a definire l’identità e le caratteristiche delle varie comunità. Ma in parallelo a questa comunicazione verticale, esiste una comunicazione laterale e dal basso tra i singoli spettatori o fan: questi si scambiano informazioni (o le lanciano nella semiosfera, come messaggi nella bottiglia), e aggiungono argomenti per rafforzare le proprie passioni. La comunicazione verticale è impositiva e ineludibile, e marchia il testo: l’immissione in un determinato circuito, un certo tipo di manifesto o di pubblicità sono altrettanti segnali di genere. La comunicazione laterale, che Henry Jenkins chiamerebbe partecipativa (5), è meno immediatamente gerarchica: il che non vuol dire che sia automaticamente paritaria; e può essere implicita, nel senso che è meno legata a marche precise, ma può dipendere dal clima sociale o culturale.

1.3. Dai cult movies al trash

La cinefilia degli anni Settanta e Ottanta, che crea il fenomeno dei cult movies (6), nasce da un atteggiamento al tempo stesso controculturale, intellettuale e snobistico. Valorizza l’eccezione, l’oscurità, la trasgressione morale e comportamentale prima ancora che estetica. E crea una mitologia dello spostamento, della irripetibilità e della fatica della visione: film visti in sperdute sale di periferia o di provincia, o in proiezioni non replicabili in qualche festival (le celebri proiezioni a Massenzio durante le “estati romane” organizzate da Renato Nicolini), o con ritualità precise (i film di mezzanotte). Il cult movie non può essere di massa, pena la perdita della sua aura.
Nell’era dell’homevideo, quanto più la comunità del fruitore si restringe fino a coincidere con il singolo e i suoi spazi privati, tanto più si estende e genera maggior coinvolgimento in proporzione alla maggiore accessibilità dell’oggetto di visione. Grazie alla vhs e al dvd, l’esperienza della visione diventa più facile e replicabile a piacere. E mentre si diffonde l’homevideo, all’inizio degli anni Novanta nasce un nuovo termine per indicare una nuova cinefilia: trash (7). Il termine, strappato all’originaria connotazione negativa (8), si sostituisce man mano a cult. E viene usato con orgoglio per indicare categoria estetiche e modalità di fruizione diverse dal cinema ufficiale, che sia quello dei grandi maestri o quello dei blockbusters hollywoodiani.
Il trash nasce in parte come reazione dal basso a un’industria che, dalla fine degli anni Ottanta, si impossessa del concetto di cult privandolo di ogni elemento di trasgressività e trasformandolo in un elemento di marketing per lanciare film nuovi: lo aveva intuito Serge Daney fin dall’inizio del decennio (9). Il trash propone una riappropriazione spontaneistica della storia del cinema che, a differenza del cult, ha una forte componente anti-intellettualistica. Ignora, almeno in un primo momento, il cinema che esce in sala, e recupera il cinema di un passato relativamente vicino (la blaxploitation negli Usa, le commedie sexy e i poliziotteschi in Italia) come campione di valori che il presente non offre più. E diventa il collante di una comunità di spettatori che esaltano film ritenuti trasgressivi, anti-intellettuali e popolari (ma sul concetto di popolare si dovrà tornare), dove sesso, violenza e umorismo grossolano diventano elementi di apprezzamento e marche identitarie.

1.4. Collezionismo, commercio, scrittura

Nella cinefilia da homevideo, alla fatica dello spostamento si sostituisce la fatica della ricerca. E compare una più marcata dimensione economica: entra in gioco il collezionismo. Quasi tutto si può trovare e si può avere, purché si sia disposti a pagarlo. Se nella cinefilia da sala la soglia discriminante riguarda l’impiego del proprio tempo (necessario per raggiungere la sala sperduta o non mancare l’appuntamento non replicabile), in quella da homevideo è di tipo pecuniario e, in minor misura, tecnologico (devo avere soldi per comprare vhs e devo saper maneggiare il videoregistratore).
Nell’era del trash, si costituiscono nuove comunità di cultori del cinema di genere, basate sull’accumulo di oggetti, lo scambio e il commercio. Negli anni Novanta i collezionisti si scambiano liste, dove i film rari si duplicano solo in cambio di film altrettanto preziosi, o dietro adeguato esborso. Per essere fan dell’horror non basta più annotare le proprie visioni su un quadernetto e vantare visioni vecchie di decenni. Occorre anche possedere gli oggetti della propria passione, in modo da presentarsi alla comunità forti di un patrimonio da condividere.
Forse non si è mai riflettuto come la nascita delle prime fanzines (a volte fotocopiate, in certi casi destinate a trasformarsi in riviste) sia contemporanea al diffondersi delle vhs. Non a caso una delle riviste storiche dedicate al cinema di genere, “Video Watchdog”, fondata da Tim Lucas nel 1990, nasce come bollettino delle novità homevideo. In Italia «Nocturno», che nasce nel 1994, e «Amarcord», che nasce nel 1996, si rivolgono a un pubblico che è innanzitutto fatto di collezionisti e consumatori di vhs. Nelle comunità dei collezionisti, la scrittura critica diventa un forte elemento identitario e fondante: leggere e scrivere dei propri film preferiti diventa il passo successivo e spesso obbligatorio dopo il possesso della vhs. Chi colleziona film, spesso ne scrive; chi legge gli altri, spesso è anche un critico in prima persona, che misura ed esibisce la propria competenza anche sulla base dei film collezionati.
Le fanzines nascono come spazio su cui dare sfogo alle proprie urgenze espressive al di fuori della critica ufficiale, ma anche come strumento per lo scambio, come aiuto alla reperibilità dei film cercati, attraverso un mercato parallelo di duplicazioni più o meno illegali. Chi era cinefilo negli anni Novanta, ricorda l’americana VSOM, Video Search of Miami: un’impresa commerciale, chiamiamola così, tuttora attiva, che all’epoca faceva pubblicità sulle riviste specializzate, e duplicava a caro prezzo film di genere, cult, trash e underground, non usciti sul mercato statunitense, e quindi, sulla base di qualche emendamento opportunamente evocato, non tutelati dal copyright federale. Un catalogo fotocopiato, spedito a pagamento, indicava accanto al titolo la qualità della copia ottenibile (con l’inevitabile perdita di definizione derivante da una duplicazione analogica, da videoregistratore a videoregistratore), e la presenza di sottotitoli inglesi fatti ad hoc per film orientali o europei. VSOM, tutt’ora attiva e presto detestata dai collezionisti italiani per la bassa qualità delle copie fornite (poteva capitare di ritrovarsi con registrazioni da televisioni private italiane), non era l’unica impresa di questo tipo (10).
Insistere su questa archeologia del collezionismo e della fanzine non intende essere una celebrazione nostalgica o un’aneddotica folkloristica. Si vuole suggerire come il mercato dei supporti, il costituirsi di comunità cinefile e la prassi di una scrittura selvaggia e di una critica dal basso, nell’era dell’homevideo, funzionassero con modalità che poi si ritrovano nell’era del web.

1.5. Splendori e miserie del dvd

La comunità del trash, nostalgica e proiettata verso un passato che non ha vissuto in diretta, diventa anche un target di mercato. Ciò può succedere perché, a differenza delle comunità dei cult movies, la comunità del trash è di massa, ed è sempre più facilmente raggiungibile con l’evolversi delle tecnologie.
Il mercato comincia a interessarsi al fenomeno del trash, e a intuirne le potenzialità commerciali, con l’arrivo del dvd: il supporto digitale che alla fine degli anni Novanta esautora l’ingombrante vhs, vincendo la concorrenza di Laserdisc e VCD. Grazie agli extra o contenuti speciali (interviste, documentari, making of, scene tagliate e alternative, commenti del regista, trailer, bonus di ogni tipo) il dvd si rivolge al pubblico cinefilo, rendendo più attraente il possesso dell’oggetto. In realtà non si tratta che di un potenziamento di quanto avveniva nelle vhs: pochi ricordano le collector’s editions di titoli cult (poniamo The Killer di John Woo), accompagnate da libretti informativi e da trailer e scene alternative in coda al film.
Il dvd, per altro, è un medium nato vecchio, e che infatti alla fine degli anni 2000 entra in crisi. All’inizio del decennio suscita un buon numero di analisi accademiche e non, cui la vhs non aveva avuto l’onore, che puntano sulla novità teorica ed esperienziale di alcune sue caratteristiche (11). Di fatto, il dvd non è che un’estensione e un miglioramento della videocassetta, con una qualità di visione migliore ma non ottimale. La pretesa interattività (12) consentita dalla facilità di accesso alle immagini e la favoleggiata rottura della linearità di visione non sono che un upgrade della funzione fast forward del videoregistratore. Di più, la visione personalizzata che diventerebbe accessibile a ogni fruitore di dvd, non è molto lontana dall’esperienza di qualunque spettatore degli anni Sessanta e Settanta che entrava in sala a film iniziato, usciva, rientrava, vedeva il film due volte.
Con il dvd non cambia il rapporto dello spettatore con il film. Si tratta ancora di un oggetto concreto, riutilizzabile, e dalla durata più o meno estesa. La novità del dvd – e questo non è mai stato sottolineato abbastanza – è il fatto di essere stato concepito all’interno di una complessa strategia distributiva: è la tappa di un percorso che va dall’uscita del film in sala alla programmazione televisiva, dove ogni tappa ha caratteristiche, prestigio, remuneratività e valori immaginari diversi. Il dvd non a caso è contemporaneo all’avvento dei multiplex. Ed è uno degli ultimi strumenti con cui l’industria ha cercato di organizzare e controllare razionalmente il mercato: prima che i film fossero comprimibili in DivX e diventassero liberamente scambiabili, scaricabili e visibili sul web.
Nella breve epoca del dvd – meno di un decennio contro quasi i vent’anni della vhs – si sono create gerarchie precise nella distribuzione e nell’accessibilità di prodotti, in modo molto più sofisticato di quanto fosse avvenuto con la vhs. Così come il sistema dei multiplex non ha creato una più ampia circolazione di film, ma al contrario ha consentito uno sfruttamento più intensivo di pochi titoli penalizzando i film indipendenti, allo stesso modo il dvd ha creato nel mercato strozzamenti e gerarchie. I titoli considerati più prestigiosi escono in varie versioni: costose collector’s editions in cofanetti a più dischi, edizioni in disco singolo per la grande distribuzione. Certo, sopravvivono nicchie che si rivolgono ai cinefili, dedicate a titoli rari, misconosciuti, o a classici presentati in edizioni curate sia dal punto di vista dell’immagine e del sonoro, sia della filologia. Ma solo le etichette che si rivolgono a un mercato internazionale, come l’americana Criterion, riescono a sopravvivere, mentre analoghe imprese italiane europee chiudono o continuano tra grandi difficoltà.
Per quanto riguarda il cinema di genere e trash, il dvd ha in parte patito la gestione dilettantesca delle libraries delle case di produzione del passato, spesso acquisite da terzi dopo la loro dismissione. Ma ha anche permesso una distribuzione di massa di titoli attorno a cui si era creato da tempo il culto e il consenso della comunità cinefila. Nel 2005 i film italiani più venduti sul mercato dvd sono Vieni avanti cretino (1982) di Luciano Salce con Lino Banfi, Attila flagello di Dio di Castellano e Pipolo ed Eccezzziunale… veramente (1982) di Carlo Vanzina, entrambi con Diego Abatantuono, e L’allenatore nel pallone (1984) di Sergio Martino con Lino Banfi. Alimentato da trasmissioni televisive come Stracult di Marco Giusti, in onda su Raidue dal 1999, il trash diventa anche un affare per trarre una redditività in prodotti che in certi casi non l’avevano mai avuta. Se si considerano gli incassi in sala dei quattro film sopra citati, si scopre che due sono successi medi (1108 milioni a testa per Allenatore ed Eccezzziunale) e due sono mezzi flop (Vieni avanti 648 milioni, Attila 483 milioni): e questo in anni in cui Speriamo che sia femmina di Monicelli incassava 2659 milioni, e Splendor di Scola ne faceva 1467.
Sulle conseguenze di tale fatto si tornerà nella seconda parte di questo intervento: per il momento va sottolineato come la dimensione orizzontale della cinefilia trash sia fortemente condizionata e modellata dalle strategie verticali del mercato.
La cinefilia della prima ondata dell’homevideo, negli anni Ottanta e Novanta, cercava i propri oggetti di culto negli angoli bui delle videoteche, secondo una mitologia in parte diffusa da Quentin Tarantino, cinefilo onnivoro con un passato di commesso in un videostore, e in seguito massimo divulgatore e promotore globale del cinema di genere del passato, in particolare italiano. La cinefilia degli anni Zero, invece, si nutre di ciò che trova nei megastores. Se Attila flagello di Dio diventa cult come non lo era mai stato e invece Tango della gelosia, per citare un altro film con Diego Abatantuono, rimane misconosciuto, per quanto all’epoca dell’uscita (il 1981) fosse stato indubbiamente “di culto”, dipende semplicemente dalle strategie del mercato e dall’accortezza degli aventi diritto. Il cinefilo si riduce a consumatore, chiuso nella nicchia che il mercato ha preparato per lui.
Intanto, alla metà degli anni Zero, il consumo di cinema cambia. Mentre i multiplex entrano in crisi, si diffondono le pay TV e i canali satellitari e tematici. Il dvd diventa merce di poco prezzo, allegato di quotidiani e settimanali: era già successo alla vhs, ma l’operazione non ha più i crismi dell’eccezionalità, come era successo ai tempi dei film di Truffaut o dei classici italiani venduti insieme a «l’Unità». Smerciato in edicola a pochi mesi dall’uscita in sala del film, il dvd si propone sempre più esplicitamente come oggetto usa e getta, tradendo la sua natura di ultimo escamotage per consentire di fare qualche guadagno in un panorama mediale che sta entrando in crisi.
L’abbassamento del costo del dvd e la sua distribuzione in massa in edicole e autogrill a prezzo ribassato ha avuto l’effetto collaterale di svalutare non solo l’oggetto, ma anche il cinema di cui consentiva la fruizione, e che veniva a perdere ogni aura. Ma anche quello di preparare, forse inconsapevolmente, alla rivoluzione del cinema sul web: dove il film non è più legato né a un oggetto tangibile, né a un costo.

1.6. Immateriale e (quasi) gratis: il cinema sul web

Nell’era del web, il collezionismo homevideo rimane in forma residuale, come bene di lusso: per questo è stato lanciato all’inizio degli anni Dieci il Blu-ray, che garantisce qualità di visione e durevolezza di supporto superiore al dvd. Ma il primo effetto evidente delle tecnologie di compressione digitale sul web è stato di liberare il film dalla dipendenza da un oggetto fisico, cassetta o dischetto (13). Il cinefilo degli anni Zero non ha più bisogno di essere un accumulatore di oggetti: basta che sia un raccoglitore di files, magari dotato di hard disk esterni dalla capacità di svariati terabytes. Il risultato è una notevole democratizzazione: dopo l’investimento iniziale di un pc e di una linea adsl, virtualmente si può iniziare a collezionare film a costo zero, scaricando gratuitamente da reti peer to peer, in barba alle leggi sul copyright. Ovviamente questo è possibile perché qualcuno si è preso la briga di mettere sul web i propri film, rippando dvd o trascodificando in formato DivX vecchie videocassette o registrazioni televisive. Spesso i film vengono muniti di sottotitoli home made, come succedeva ai tempi delle vhs di VSOM; degni di nota, perché indicativi di un consumo e di una comunità, sono i film americani con sottotitoli in inglese semplificato per gli utenti ispanici. Si può discutere se la disponibilità di titoli sia aumentata in modo significativo rispetto al modo del dvd, dato che non tutto ciò che esiste in homevideo è finito in rete (ma vale anche il contrario). Certamente è stato aperto uno spazio alle produzioni indipendenti che prima non esisteva.
Così come la nascita dell’homevideo è legata alla fanzine, quella del cinema su web è legata al tramonto delle riviste cartacee e alla diffusione della critica online esercitata su newsgroup, forum, blog, riviste web, siti tematici e monografici, siti generalisti che consentono possibilità di inserire voti e commenti (come Internet Movie Database), senza parlare di Twitter. Il blogger, da questo punto di vista, è un discendente diretto dell’autore o collaboratore di una fanzine; rispetto alla dimensione cartacea, ha molta meno difficoltà non solo a confezionare il proprio prodotto, ed è anche molto più slegato da un controllo di qualità da parte dei suoi lettori. Ma un discorso specifico sulla critica web esula dai limiti di questo intervento. Occorre invece chiedersi quanto sia diversa la comunità cinefila che fa uso del web da quella che nasceva dall’homevideo, e come sceglie i suoi valori.
La cinefilia web da una parte ha una dimensione più spiccatamente multimediale: l’utente è attivo su più canali e utilizza più supporti, in un contesto dove vecchio e nuovo convivono. Per il momento si può lasciare senza risposta la domanda se questa media convergence, come suona una recente parola d’ordine degli studi mediologici (14), sia solo un upgrade del passato o un cambio di scenario.
Più immediatamente verificabile, nella cinefilia web, è la sua dimensione internazionale, parallela e indipendente dalla globalizzazione verticale che colpisce le strutture di produzione, distribuzione e consumo, con i noti effetti di controllo del mercato e omologazione del gusto. Internazionalizzazione, in questo ambito, significa accesso agevolato a fonti e produzioni diverse (oggi è più facile vedere un film di Hong Kong rispetto a vent’anni fa), ma anche delocalizzazione. Posso ignorare dove vive chi ha messo in rete il film che sto scaricando, posso non avere nessuna comunicazione con lui, ma il fatto di utilizzare la stessa rete crea un comune profilo identitario: quello di persone non solo dotate degli stessi gusti, ma anche dalle stesse idee, diciamo così, politiche, e dalle stesse pratiche, caratterizzate in primo luogo dall’infrazione del copyright. Com’è noto, mettere su una rete peer to peer un film piratato, ripreso direttamente in sala con la videocamera (cam), copiato da un dvd non commerciale inviato in anteprima ad addetti del settore (screener), o copiato da un dvd magari uscito in un Paese con codice regionale diverso (dvd-rip), ha spesso il sapore di una sfida casalinga al potere delle multinazionali, di un sabotaggio al sistema capitalista (che questa sfida sia effettiva o fittizia è altro discorso).
All’abbassamento della soglia di investimento economico e della politicizzazione più o meno reale, corrisponde però un innalzamento di soglie delle competenze tecniche e un nuovo tipo di elitarismo. Vedere un dvd è molto facile, copiare un dvd è abbastanza facile, metterlo in rete e scaricarlo lo è molto meno. L’accesso a una rete peer to peer come eMule presuppone non solo programmi appositi di gestione non intuitiva, ma anche la condivisione di un numero adeguato di film per acquisire il diritto di entrare in un gruppo che esclude chi cerca di fruirne in modo solo passivo.
Scaricare film con un client BitTorrent, indipendentemente dalla legalità dell’operazione, è invece molto più facile, in quanto richiede solo l’installazione di un programma. Ma l’accessibilità del film voluto è ostacolata da tanti fattori: copie di bassa qualità; copie fasulle, contenenti virus o che reindirizzano a siti che richiedono una quota d’iscrizione; lentezza o impossibilità di scaricamento per i film poco richiesti.
La gerarchizzazione dei consumi che si era imposta nei dvd si riproduce, paradossalmente, anche nel mondo del peer to peer: scaricare un film recente e di grande successo è sempre e comunque più facile che scaricare un film del passato o poco noto. Nel web non si creano gerarchie di valori alternative. E si riproducono alcune delle modalità elitarie del vecchio collezionismo homevideo: non tutti sono disposti a condividere tutto con chiunque. Certo, negli anni Novanta si doveva andare nel negozietto cinese di Parigi o Londra per trovare una copia illegale su vhs di un Laserdisc hongkonghese, mentre ora si tratta solo di trovare il link giusto da cui scaricare il dato film: almeno la fatica della dislocazione è evitata.

1.7. Qualcosa di completamente diverso?

Gli svantaggi di gestione delle reti peer to peer sono scavalcate dai siti che offrono i film in streaming, a pagamento o no. In questo caso il sito funziona come un canale televisivo specializzato, e la modalità di visione funziona non diversamente dalla pay per view in televisione. Esistono piattaforme come MUBI, dedicate a film d’autore che mai arriverebbero nel circuito “normale”. Ma per quanto MUBI offra ai suoi utenti anche l’accesso (tramite forum e Facebook) a una comunità vivace e competente, rimane all’interno di una fruizione tradizionale: dato che non è ipotizzabile che chi vede online i film di Pere Portabella o di Peter Tscherkassky lo faccia in modo interattivo, non lineare e anarchicamente personalizzato. Piattaforme come MUBI sono la dimostrazione che anche all’interno di un medium nuovo come il web esistano nicchie dove il passato continua a esistere (e a resistere).
Un fenomeno di tipo completamente diverso rispetto a tutto quanto considerato finora è YouTube, dove i film vengono caricati in forma integrale, parcellizzata e antologica. Nato nel 2005 per ospitare video realizzati da chi li carica, YouTube non prevedeva all’inizio questa forma di utilizzo, e ha sempre combattuto l’upload di materiali provenienti da terze parti che infrangessero il diritto d’autore. Ma la battaglia sembra persa: e il sito, al momento, è un collettore straordinariamente caotico, ricco di materiali di ogni tipo, che vanno da programmi televisivi al cinema di ogni tempo ed epoca.
Su YouTube, e non nel dvd o nel film scaricato, si realizza davvero l’interattività del fruitore e la manipolabilità del testo filmico. Su YouTube smonto il film, e lo fruisco a pezzi: isolo la mia sequenza preferita, e trovo oggetti con lo sesso tema (“Alvaro Vitali e Lino Banfi”: 356 video; “Alvaro Vitali pernacchia”: 9 video; “Edwige Fenech doccia”: 18 video), creando nuove catene paradigmatiche. Si attenda con ansia che qualcuno venga a parlare, anche questa volta, di fine della linearità della visione. Siamo davvero di fronte a una rivoluzione epocale? O siamo più verosimilmente di fronte a un nuovo contesto mediatico, che si affianca ma non sostituisce la fruizione filmica tradizionale?
Dal punto di vista di questo intervento, va sottolineato come su YouTube la comunicazione dal basso e laterale tra gli spettatori può ridisegnare i contesti di fruizione, creare e ridiscutere etichette generiche, eludendo in qualche modo la verticalità del mercato. Inoltre su YouTube, dato che chiunque può lasciare un commento, la comunità di visione non è più implicita, ma tangibile. Chi si prende la briga di intervenire è pur sempre un perditempo e la punta di un iceberg. Ma non c’è bisogno di scrivere un commento per lasciare traccia di sé: e ogni volta si può sapere quanti hanno visto il dato “video”, e valutare la comunità di cui si entra a far pare. Per esempio, il 3 novembre 2011, chi inizia a vedere Alleluja e Sartana figlio di… Dio, oscuro western comico di Mario Siciliano (1972), sa che 2954 utenti hanno già visto la prima parte, ma solo 735 hanno visto la decima e ultima delle parti in cui è stato diviso il film.
 
2. GERARCHIE DI VALORI, CRITICA, DIFFUSIONE: IL CASO DEL CINEMA DI GENERE
 
2.1. La rifondazione del canone

Fin da quando, negli anni Cinquanta, i giovani critici dei «Cahiers du cinéma» recensivano polemicamente noir e western americani contrapponendoli al cinéma de papa, ogni rivalutazione del cinema di genere, che avvenga in diretta o sia postuma, come nel caso del trash, mira a contestare i canoni estetici correnti, a rifondare il canone dei film significativi e, in prospettiva, a riscrivere la storia del cinema. In Italia Giovanni Buttafava è tra i primi a manifestare insofferenza per un cinema ufficiale percepito come ridicolo e imbevuto di falsa coscienza. Il suo bersaglio è il cinema di impegno civile di Petri, Rosi e Damiani, cui contrappone il cinema “poliziottesco”, che lo diverte di più, apparendogli più genuino e meno pretenzioso, e che analizza con gli strumenti di uno snobismo intellettualistico ancora influenzato dal camp (15). Erede dell’estetica di Buttafava, Marco Giusti costruisce a partire dalla fine degli anni Novanta un controcanone cui dà forma di dizionario: lo scopo è dare spazio “a tutti i capolavori dell’eccesso e dell’improbabile. Trash, bis, gore, splatter, cult. Di più. Stracult. […] Uno spazio meraviglioso dove lo spettatore può perdersi per il puro piacere schermico. Là Bombolo vale Fritz Lang, Monnezza vale Nicholas Ray” (16). Da La bestia in calore di Luigi Batzella (apprezzato come trash di primo grado) a L’odore del sangue di Mario Martone (letto maliziosamente come trash involontario), Giusti intende celebrare “uno scatenamento dalle regole del cinema civile del tutto liberatorio” (17): valido negli anni Settanta, quando uscivano le commedie sexy con Gloria Guida e “l’Italia era ancora avvolta nella cappa pesante degli anni di piombo”; e valido oggi, quando, nell’era del postmoderno, sono saltate tutte le gerarchie.
Prima di Giusti, il terreno è preparato dalle fanzines poi diventate riviste come «Nocturno», che seguono un percorso in parte alternativo. Al piacere immediato del risarcimento di un cinema ghettizzato, segue infatti la volontà di dare una forma articolata a questa passione: in modo di legittimarla polemicamente anche agli occhi di chi si occupa di un altro cinema, magari senza pari rigore. «Nocturno», poi seguita da «Cine70», tratta il cinema di genere con strumenti ereditati, spesso inconsapevolmente, dalla critica autorialista dei «Cahiers» (l’intervista-fiume al regista) e dalla critica storicistica-filogica. Per parlare dei film diventa essenziale conoscere e consultare visti e incartamenti ministeriali, in modo da ricostruire le vicende produttive e gli interventi censori. Amare un film maledetto sulla base della memoria non basta: si confrontano minuziosamente diverse versioni (vhs e dvd italiani e stranieri, super-8, 35mm, registrazioni televisive, telecinema piratati o fatti in casa): nell’utopia, dichiarata come tale, di arrivare a un Urtext il più vicino possibile a quello concepito dall’autore.
Alla competenza data dal numero di visioni e dalla conoscenza enciclopedica dell’opera di un regista, si affianca un’autorevolezza più concretamente verificabile sulla base di date e metri di pellicola. Su forum come quelli di «Nocturno» si svolgono discussioni anche feroci legate all’integralità della versione di film spesso oscuri, di limitata circolazione, o addirittura mai usciti. Alla ricostruzione di Maldoror, film di Alberto Cavallone forse incompiuto e comunque inedito, mai visto e probabilmente perduto, Davide Pulici dedica su «Nocturno»  un’indagine appassionante e non ancora terminata18.
Sia la cinefilia di «Nocturno» sia Stracult mirano a costruire una cultura cinematografica alternativa a quella media, giornalistica, ufficiale, accademica. Una differenza è il modo in cui si rapporta al presente. Stracult fin da subito ha cercato una ricaduta sulla contemporaneità, celebrando i film e i personaggi ritenuti eredi del cinema di genere degli anni Settanta. Giusti ha pertanto iniziato a recensire sistematicamente ed entusiasticamente su «Il manifesto» tutti i cinepanettoni e i film dei comici italiani (da Pieraccioni a Boldi), vedendo in essi il proseguimento di un cinema popolare “sregolato”, “eccessivo”, sanamente plebeo, da contrapporre a certo cinema italiano di oggi pretenzioso e involontariamente ridicolo (quando non viene recuperato nel modo beffardo visto sopra). «Nocturno»  invece, dopo essersi chiuso nel culto e nello studio del passato, ha cercato di aprirsi alla contemporaneità, cercando terreno di confronto soprattutto nell’horror internazionale e nel cinema orientale: ma rischiando di creare disorientamento nei suoi lettori, che a volte mal sopportano di vedere trattate nella stessa rivista gli horror della serie Paranormal Activity e i film di Bruno Mattei.

2.2. Ricadute sui media e popolarità

Quali sono le ricadute sui media di queste prassi e di queste estetiche? «Nocturno» ha curato, nel corso degli anni, alcune collane dedicate al cinema di genere italiano, prima in vhs e poi in dvd, spesso arricchite da interviste e documentari, e con attenzione all’integralità della copia. Fissare la passione in un oggetto rimane il traguardo ultimo di una cinefilia nata nell’era dell’homevideo. Si tratta di una nicchia di mercato che si contrappone alla gestione spesso dilettantesca del cinema di genere (e non solo di quello) da parte di etichette che non si preoccupano di editare in dvd edizioni tagliate e spesso derubricate per il passaggio televisivo
Nel web la cinefilia estremistica di «Nocturno» trova un parziale riversamento attraverso il citato forum (cui si contrappone quello Gente di rispetto, più legato a «Cine70»), e produce indirettamente alcuni risultati. Esistono cinefili che confezionano, ed eventualmente mettono in rete, film MUX (o, con orrido neologismo, muxati). Nel caso più semplice viene modificata la traccia audio: per esempio a una copia straniera, integrale o di buona qualità, viene messo l’audio italiano proveniente da una copia tagliata o di bassa qualità. In casi più complessi, si inseriscono all’interno di una copia master (per esempio italiana) sequenze tagliate provenienti da altre versioni. Nel pio tentativo di restauro e di ricostruzione filologica, viene così creato un film-Frankenstein, che non è mai esistito in quella forma. Di La taglia è tua… L’uomo l’ammazzo io (El Puro) (1969) di Edoardo Mulargia, curioso western con personaggi gay, circola per esempio una versione MUX dove si parlano tre lingue diverse. L’utente interviene per modificare il testo d’origine: ma sono casi limite, non certo indicativi di una prassi diffusa o di un nuovo atteggiamento “interattivo” di fronte ai film.
Molto più rilevante è l’impatto che ha avuto sui nuovi media la cinefilia di Stracult. Nel campo dell’homevideo, non c’è una connessione diretta a livello di marchio, come nel caso di «Nocturno». Ma è un fatto che attori e generi rimessi in circolazione da Stracult alimentano e indirizzano le scelte del mercato del dvd, e viceversa. La riedizione in dvd e la distribuzione in grandi numeri di film con Tomas Milian, Lino Banfi, Alvaro Vitali, Edwige Fenech nasce da un clima culturalmente favorevole, dove la vecchia categoria del cult è sostituita da quella dello sdoganamento, già invalsa in politica. Sdoganare, nel caso dei film di serie B, significa eliminare i sensi di colpa, fruire alla luce del sole di qualcosa in passato ritenuto disdicevole. Non solo: lo stracult fa diventare di massa un prodotto popolare che di massa non era mai stato, anche e proprio a livello di incassi e distribuzione.
Come aveva scritto Vittorio Spinazzola, cinema popolare e cinema di massa non sono sinonimi (19). La dottoressa del distretto militare o L’allenatore nel pallone erano destinati al consumo esclusivo delle classi subalterne, in un circuito di sale periferico. La loro riproposizione in dvd vent’anni dopo li trasforma in un altro oggetto: trash destinato al consumo di massa, come i cinepanettoni con Boldi e De Sica. Come scrive Morreale, il trash, “più che un cinema che dialoga con il popolo, potrebbe essere definito come il cinema popolare durante la scomparsa di un popolo” (20): popolo che è stato sostituito da una massa di consumatori.
Un’altra influenza di Stracult deriva dal fatto di nascere (e continuare) come trasmissione televisiva, dopo avere dato vita a vari libri e ad almeno due retrospettive del festival di Venezia: Italian King of the B’s nel 2004 e Il western all’italiana nel 2007. La rimediazione (21) del cinema trash attraverso la televisione lascia una traccia molto più forte di quanto avvenga con il cinema in dvd, e forse anche con il cinema in rete. Un film scaricato e visto sul pc è pur sempre un film. Ma che cosa diventa il cinema in un programma come Stracult, dove viene parcellizzato, videoclippato, sminuzzato, non diversamente da quanto avviene al cinema in qualunque altro contesto televisivo? Il cinema diventa materiale da saccheggiare per fare colore, esattamente come succede nei telegiornali.
Secondo Morreale, Stracult “segna la definitiva ricezione del cinema come sottogenere televisivo” (22). Ispirato da uno spirito goliardico e romanocentrico, Stracult tratta il cinema di genere e i suoi protagonisti come campioni di una controestetica sregolata e “coatta”. E finisce per farne pretesto di intrattenimento, privandolo di ogni aura residua e rendendolo materiale indifferente e sostituibile, allo stesso livello degli sketch comici che inframmezzano il programma.
Ciò spiega come l’estetica di Stracult possa venire agevolmente travasata su un medium come YouTube che, come detto sopra, pratica sistematicamente la parcellizzazione. Su YouTube Bombolo conta 2260 video, Tomas Milian 1840 (ma Monezza ne ha 3580), Alvaro Vitali 2310 (ma Pierino ne ha 4690). Trovano la loro nicchia anche personaggi pittoreschi come Jimmy il Fenomeno (312 video) e Salvatore Baccaro (106 video), un figurante mai arrivato a essere caratterista, noto per l’arcaica bruttezza, e immortalato sulla copertina del Dizionario dei film italiani Stracult.
Per fare un confronto con il presente, su YouTube Massimo Boldi ha 3810 video, Boldi-De Sica 1230, Leonardo Pieraccioni 1490. È una prova che il web presentifica il passato: non cancella la memoria, ma schiaccia la prospettiva temporale. E gli anni Settanta di Monnezza diventano contemporanei degli anni Zero dei cinepanettoni.
 
Appendice

Alla fine di questo percorso, può essere interessante confrontare alcuni dati (tratti il 5 novembre 2011) relativi alla diffusione e reperibilità del cinema di genere italiano sul web. I siti presi in esame sono: Isohunt (client BitTorrent per scaricare film), YouTube, Nocturno Forum e il più diffuso dei motori di ricerca, Google. A mo’ di campione, sono stati presi in esame registi e attori italiani legati a un culto cinefilo più o meno esteso. A seguire, gli stessi siti sono stati interrogati su registi e attori stranieri, considerati esponenti di una cinefilia internazionale legata al cinema di genere, e su registi e attori di fama generalista. Ovviamente i numeri forniti da siti come YouTube e Google sono imprecisi e indicativi.
 
Mario Bava: IS 48, YT 1580, NOC 250, G 1.100.000
Alberto Cavallone: IS 0, YT 12, NOC 50, G 77.500
Bruno Mattei: IS 12, YT 599, NOC 175, G 508.000
Edwige Fenech: IS 45, YT 761, NOC 200, G 1.030.000
Tomas Milian: IS 44, YT 1840, NOC 375, G 825.000

Quentin Tarantino: IS 194, YT 42.000, NOC 550, G 19.500.000
Al Adamson: IS 2, YT 468, NOC 25, G 6.110.000
Jörg Buttgereit: IS 11, YT 325, NOC 75, G 46.800
Pam Grier : IS 37, YT 1930, NOC 50, G 2.870.000
Jean-Claude Van Damme: IS 306, YT 52.400, NOC 100, G 20.100.000

Sergio Leone: IS 58, YT 11.100, NOC 175, G 4.810.000
Federico Fellini: IS 127, YT 4570, NOC 325, G 4.910.000
Ingmar Bergman: IS 115, YT 3460, NOC 175, G 5.870.000
George Clooney: IS 112, YT 27.500, NOC 125, G 45.300.000
Marilyn Monroe: IS 121, YT 66.500 , NOC 25, G 53.400.000

 
NOTE

(1) G. Buttafava, “Una videoteca ideale”, in Gli occhi del sogno. Scritti sul cinema, Biblioteca di Bianco & Nero-Ubulibri Roma-Milano, 2000.
(2) Come quadro teorico di riferimento, si è tenuto conto in particolare di F. Casetti “Nuovi territori. Multiplex, Home Theater, canali tematici, peer to peer e la trasformazione dell’esperienza cinematografica”, in F. Casetti e M. Fanchi, a cura di, Terre incognite. Lo spettatore italiano e le nuove forme dell’esperienza di visione del film, Carocci, Roma, 2006.
(3) Rick Altman, Film/Genere, Vita & Pensiero, Milano, 2004.
(4) Cfr. S. Sontag, “Note su ‘Camp’” in Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano, 1967.
(5) Nell’era del fandom televisivo queste dinamiche hanno assunto forme complesse, e sono state oggetto di studi appositi, a partire da H. Jenkins, Textual Poachers. Television Fans & Partecipatory Culture, Routledge, New York-London, 1992 (nuova edizione: 2005), che critica di sfuggita l’approccio di Rick Altman al concetto di genere. Un’interazione tra un approccio testuale semio-pragmatico e uno socio-culturologico pare ancora da farsi, ed esula dai limiti di questo intervento.
(6) Sui cult movies, si veda lo speciale Deconstructing cult-movie a cura di Roy Menarini, «Segnocinema», 90, 1998.
(7) Tra i primi libri sul trash (o meglio, che celebrano il trash) pubblicati in italiano, si possono citare: G. Salza, Spazzatura, Theoria, Roma, 1994; J. Ross, L’incredibile storia del cinema spazzatura, Ubulibri, Milano, 1996 (l’edizione inglese è del 1993); A. Farina, Sparate sul regista! Personaggi e storie del cinema di exploitation, Il Castoro, Milano, 1997. Sul fenomeno si vedano anche: A. Pezzotta, Non sparate sul trash, «Bianco & Nero», 1-2, 1997; E. Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Roma, Donzelli, 2009, in particolare il capitolo “Mutazioni della cinefilia: dal camp al trash”.
(8) Cfr. il saggio di P. Kael Trash, Art and the Movies, del 1969, poi raccolto in Raising Kane and Other Essays, Marion Boyars, London-New York, 1996, e tradotto in italiano con il titolo “Spazzatura, arte e cinema” sul sito www.filmidee.it.
(9)  Serge Daney, nell’articolo “Wim’s Movie” (poi in A. de Baecque e G. Lucantonio, a cura di, Critique et cinéphilie, Cahiers du cinéma, Paris, 1996), parla di una “politica degli autori che è diventata marketing dell’effetto delle firme” (p. 194).
(10) Chi scrive ricorda anche di essersi procurato nel 1997 il primo film di Abel Ferrara, il porno 9 Lives of a Wet Pussy, da un piccolo rivenditore per corrispondenza newyorkese, che inviava per fax le proprie liste di film duplicabili; e ignorava che il titolo suddetto, firmato nei titoli di testa con pseudonimo, apparteneva alla filmografia dell’autore di Il cattivo tenente. Tutto ciò, evidentemente, poteva succedere solo prima dell’era del web e di Internet Movie Database.
(11) Sul tema, si vedano: L. Quaresima, V. Re (a cura di), Play the movie. Il dvd e le nuove forme dell’esperienza audiovisiva, Kaplan, Torino, 2010, e precedentemente lo speciale Critica del DVD a cura di P. Cherchi Usai, «Segnocinema», 124, 2003.
(12) Particolarmente illuminante l’intervento di Gianni Canova, Contro lo zapping istintuale, ivi.
(13) Sulle tecnologie di compressione delle immagini e il loro effetti sulla fruizione e i media, cfr. N. Rigamonti, “Personal home cinema. La rete, lo spettatore e il crogiuolo digitale”, in Terre incognite, cit.
(14)  Si veda H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007 (l’edizione originale è del 2006).
(15) Si vedano i saggi «Procedure sveltite» (1980) e «Metti, una guerra a cena» (1971) in G. Buttafava, op. cit.
(16) Aletta di M. Giusti, Dizionario dei film italiani Stracult, Frassinelli, Milano, 1999.
(17) M. Giusti, Sex in Italy, «Ciak», marzo 2005, p. 94.
(18) Si vedano i vari speciali Misteri d’Italia: «Nocturno», 47, 2006; 58, 2007; 70, 2008.
(19) V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bulzoni, Roma, 1985, p. 345.
(20) E. Morreale, op. cit, p. 202.
(21)  Il termine, com’è noto, è stato reso corrente da J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano, 2002 (l’edizione originale è del 1999).
(22) E. Morreale, op. cit, p. 201.

(Il testo è pubblicato all’interno di Le nuove forme della cultura cinematografica. Critica e cinefilia all’epoca del web, a cura di Roy Menarini, Mimesis, Milano, 2012)