Stefano Savona è uno dei documentaristi italiani più apprezzati all’estero. All’ultimo festival di Locarno il suo Tahrir, sulle manifestazioni egiziane che hanno portato alla caduta di Mubarak, è stato accolto molto calorosamente. Palazzo delle Aquile, che segue l’occupazione della sala consigliare del comune di Palermo da parte di un gruppo di sfrattati, ha vinto il Grand Prix al Cinéma du réel di Parigi.
Lo abbiamo incontrato in occasione del Festival di Torino (che gli ha dedicato alcune proiezioni e lo ha invitato a tenere una lezione di cinema) e con lui abbiamo parlato dei suoi film e del suo modo di intendere il documentario.

Con i tuoi film hai affrontato controverse questioni di politica internazionale, ha a che fare con la tua formazione personale?

Come cineasta e come fotografo sono nato vent’anni fa. Prima il mio sogno era diventare egittologo: ho studiato per fare quello. Ma subito dopo la prima guerra del Golfo ho abbandonato i faraoni per occuparmi di quel che stava succedendo. Volevo raccontare quello che stava accadendo. Non mi consideravo ancora un documentarista. All’epoca, per me, documentario era sinonimo di Piero Angela, di questo genere di cose. Conoscevo i reportage fotogiornalistici e così ho iniziato come fotografo. La prima fotografia che ho venduto era quella di un pakistano che leggeva il Corano: venne usata per illustrare un articolo su un attentato fondamentalista in Algeria! Lì ho capito che qualcosa non funzionava. Ho iniziato così a interessarmi al documentario. Un momento importante è stato, nel ’94 – ’95, la visione del documentario sul Cairo di Yusuf Shahin. Il Cairo è una città a cui sono molto legato: ci sono ritornato ogni anno, ormai è la città che, dopo Palermo, conosco meglio. Il documentario di Shahin fu sconvolgente, distruggeva tutti gli stereotipi sul Cairo. Mi è sempre rimasto il desiderio di fare un film su quella città. Oggi, Tahrir è il film che fa un po’ i conti con Il Cairo e con la mia storia personale.

Malgrado la differenza delle situazioni filmate, film come Tahrir, Palazzo delle aquile e Primavera in Kurdistan sembrano avere un nucleo tematico ricorrente, visto ogni volta da una diversa angolatura, quello del rapporto tra il popolo e i suoi rappresentanti, o i suoi leader. È, come dire, “casuale” il ritorno di questo nucleo tematico oppure i tuoi film intendono proprio esplorare questo tema?

Sì, più in generale, parlerei di un interesse per la politica. Più che per il tema specifico della rappresentanza, direi che in tutti i miei film c’è un interesse per il magma pre-esistente alla politica. Non è tanto il rapporto tra popolo e rappresentanti che mi interessa, quanto piuttosto, a livello di base, come si struttura la relazione politica. Questo interesse nasce con Primavera in Kurdistan. Il Kurdistan è un contesto particolare, molto chiuso, dove il discorso è sempre, costantemente politico.

Rispetto al tema del rapporto tra popolo e suoi rappresentanti mi pare che sia ricorrente una visione negativa (l’idea del tradimento da parte dei rappresentanti politici delle istanze del popolo, della fiducia che il popolo riponeva in loro). Persino Tahrir, nonostante sia un film dominato dall’entusiasmo, si conclude con una nota di scetticismo sui futuri esiti della rivolta popolare. Ci puoi dire qualcosa a questo proposito?

Oggi lo spazio politico si è enormemente ristretto, a mio parere. Gli elettori, i cittadini non riescono a trovare un accordo tra di loro e, diciamo così, “si fanno fregare”. Si aspettano che la soluzione arrivi dall’alto. Mentre quello che è necessario è imparare, dal basso, a strutturare una relazione politica, a trovare delle soluzioni dal basso. Questo processo di costruzione “dal basso” lo vediamo soprattutto in Tahrir. Il problema è come strutturare una rappresentanza politica. Quello che vedo è spesso una incapacità dal basso, dalla base, di trasformare delle idee in un leader che guidi l’azione politica.

In tutti i film che abbiamo citato hai sempre filmato situazioni in divenire, il cui esito non è scontato. Puoi spiegare in che modo il tuo sguardo di documentarista e, possiamo dire, la tua visione del mondo ogni volta muta nei confronti del divenire delle situazioni filmate? All’inizio hai in qualche modo l’idea, l’ipotesi di un possibile “arco narrativo”?

Ognuno ovviamente ce l’ha, un’immagine della realtà, ma inevitabilmente quando si confronta con questa stessa realtà finisce per essere smentito. In ogni momento hai un film in testa, però di fatto quel che giri lo sposta sempre: questo film cambia continuamente. E al montaggio cambia ancora.
È naturale che quando inizi a lavorare a un documentario ti immagini come vada a finire, che hai una struttura di lavoro. Se però poi la realtà non cambia la tua idea, la struttura che avevi in mente, allora vuol dire che qualcosa non ha funzionato. Quando gli stereotipi, i pregiudizi che avevi si rivelano veri questo significa che o la realtà che hai indagato è poco interessante oppure che non sei stato capace di cogliere i suoi aspetti veramente importanti.
Io vedo il documentario come una macchina per pensare e per mettere in discussione gli stereotipi. Il documentario ti serve per cambiare idea. Non necessariamente per ribaltare lo stereotipo, per dire esattamente il contrario. Ma per capire cosa ci può essere di vero o di falso nello stereotipo e, soprattutto, per capire cosa ha prodotto lo stereotipo. Anche capire in che modo un certo stereotipo si è prodotto e condiziona la nostra visione delle cose è un modo di documentare la realtà.

Qualche tempo fa al Milano Film Festival Jonathan Demme ha ricordato la lezione di Frederick Wiseman dicendo che, per poter realizzare, i suoi film si preparava lungamente prima di iniziare a girare, perché con la sua macchina da presa potesse diventare quasi invisibile, come “uno della famiglia” o come “la tappezzeria”. Il tipo di documentari che hai realizzato deve necessariamente confrontarsi con questo genere di problemi.

L’espressione “come la tappezzeria” non mi piace molto. Mi piace invece pensarmi “come uno della famiglia”. Sì, è questo ciò che cerco di fare. Io parlo moltissimo con le persone che devo filmare. Tutto il tempo che passo con loro lo passo a parlare: gli faccio una testa così! Cerco di farli partecipi delle mie idee. Il fatto è che loro vogliono sapere come li vedo. E quindi è necessario mettere in campo le proprie idee. Non si può giocare a carte coperte. E si deve creare una relazione di fiducia: tu hai bisogno di loro e loro hanno bisogno di te.
Quello che poi vado a filmare è frutto anche di tutte queste discussioni precedenti.
Non so se è lo stesso lavoro di altri documentaristi, ma io lavoro sempre così. Continuamente chiedo chiarimenti, spiegazioni alle persone che filmo. Quello che mi dicono, e che è importante per la mia comprensione della realtà, è sempre molto di più di quello che riesco a filmare. Il senso di quello che mi viene detto al di fuori del girato cerco di ricostruirlo in seguito, lavorando sui materiali girati in fase di montaggio.

In film come Primavera in Kurdistan o Il volo della rondine i personaggi vengono intervistati (anche se raramente sentiamo l’intervistatore fare delle domande, i personaggi spesso si rivolgono alla macchina da presa, a un intervistatore implicito che intuiamo avergli posto delle domande), mentre in Tahrir e in Palazzo delle aquile questo non avviene (cioè i personaggi parlano tra di loro, ma non si rivolgono mai direttamente a un intervistatore e alla macchina da presa). Puoi spiegare il perché di queste diverse scelte?

Non vedo una netta opposizione tra questi due modi di lavorare. Col tempo si acquisisce una capacità di lavorare che permette di far emergere in modo naturale le risposte alle domande che ti interessa esplorare, lasciando che le persone si esprimano liberamente.
Stando immersi con le persone che vengono filmate per così tanto tempo, parlando con loro così a lungo quando vai a filmarle le curiosità che tu hai vengono fuori in modo naturale. Questo perché le persone non si danno mai in maniera astratta, ma reagiscono sempre alle tue curiosità…
L’ho capito lavorando a Primavera in Kurdistan, che in parte è fatto di interviste e in parte di questo modo “indiretto” di interrogare le persone. L’importante è il rapporto di fiducia che si deve creare. Poi, comunque, anche i documentari che non mostrano delle interviste dirette, si basano su interviste che non vengono montate ma che servono a darmi indicazioni per ricostruire il senso di quella realtà. Quindi i due metodi sono complementari.

In Palazzo delle aquile una cosa che mi stupisce molto è il comportamento dei politici, che appaiono di una ingenuità inaspettata (penso al politico che esulta dopo una vittoria che vittoria non è, oppure al dialogo tra il gruppo di politici nel parcheggio). Dico inaspettata perché dovrebbe essere propria di un politico la capacità di variare le sue modalità di comunicazione a seconda dell’interlocutore che ha di fronte e della presenza o assenza di mezzi di registrazione: il politico dovrebbe cioè saper comunicare, a seconda della situazione, quello che è maggiormente funzionale alla costruzione della sua immagine di politico responsabile, capace, attento ai bisogni, ecc. Nelle due situazioni citate invece i politici (in modo ripeto inaspettato), si rivelano del tutto incapaci di fare questo. Si potrebbe magari pensare che vi sia una sorta di – non vorrei essere equivocato – “manipolazione” o di “decontestualizzazione” dei materiali registrati. Puoi dirci qualcosa rispetto a questo…

Le due scene, di per sé, non dicono nulla di particolare, potrebbero anche passare inosservate. È il fatto di metterle accanto alle scene precedenti che fa emergere quel significato che tu gli attribuisci…
Quando il giovane politico esulta, sono due i politici presenti nella stanza: una è consapevole che non si è trattato di una vittoria (che il risultato ottenuto è il minore dei mali), l’altro, in assoluta buona fede, si lascia trasportare dall’entusiasmo, si rivela incapace di concettualizzare una sconfitta. Ma direi che è capitato a tutti noi di cadere in questo tipo di errori di valutazione. Col senno di poi è facile giudicare, ma noi stessi cadiamo in queste contraddizioni. Quando le vedi messe in sequenza con tutto quello che è capitato nel mese precedente poi dare a quelle scene quel significato che dicevi…
Più che di “manipolazione”, quindi parlerei di “costruzione narrativa”, di ricostruzione di un tessuto narrativo. Come dicevo nella lezione poco fa, il montaggio è fondamentale: al momento del montaggio il girato arriva come “morto”. Occorre cercare di rivivere le sensazioni fisiche che si sono vissute quando si partecipava a quelle situazione e quindi ridare vita al girato. Il lavoro al montaggio è una specie di lavoro di Frankenstein che restituisce vita al girato e ricostruisce i significati selezionando il girato e dandogli una struttura narrativa. Col montaggio dai al girato un tessuto connettivo. L’idea che le immagini parlino da sole è una fesseria. Il senso delle immagini lo si ricostruisce al montaggio. È un’operazione di ricreazione, un’operazione critica, mai “naturale”.

I tuoi film, sebbene girati in condizioni spesso “di fortuna”, hanno notevoli qualità figurative. Penso, ad esempio, alla composizione di alcune inquadrature di Palazzo delle aquile o ai colori saturi di certe riprese notturne di Tahrir…

Per me questo è un aspetto importantissimo. La televisione ha talmente banalizzato l’immagine. In questo contesto c’è proprio il bisogno di far emergere la sensazione che le immagini non le abbiamo mai viste, che si abbia l’idea di vedere qualcosa di nuovo, di unico. La televisione impone dei cliché. Spesso usa le stesse immagini per illustrare storie diverse. In questo modo è come se dicesse che quelle immagini non hanno importanza, che ogni immagine vale l’altra. Il cinema svolge la sua funzione solo se riesce a restituire delle immagini che siano veramente uniche. E questo obiettivo per me passa attraverso la ricerca formale. Da parte mia c’è sempre lo sforzo di rendere quel momento che sto filmando come unico. Quella persona, in quel momento che è davanti alla macchina da presa è unica.
Se la storia che stai raccontando ha l’aria di essere qualcosa di già visto, di già sentito, nessuno ti sta ad ascoltare. Occorre perciò fare di tutto per trasformare il quotidiano in “straordinario”.

Per quanto riguarda il tuo futuro di cineasta, è un’opzione che potresti prendere in considerazione quella di girare un film “di finzione”?

Sì, è una cosa che – a certe condizioni – potrebbe interessarmi. Io cerco di catturare delle emozioni, cogliendole quando e come succedono. E queste possono succedere non solo con persone colte nel loro ambiente di vita, ma anche con degli attori.
Fare un film di finzione sarebbe un modo di portare più avanti questa ricerca. Una storia di finzione mi consentirebbe di esplorare storie più intime, che più difficilmente sarebbero filmabili attraverso gli strumenti del documentario. Sì, se riuscissi a farlo con la stessa leggerezza di mezzi con cui ho lavorato nel documentario, lavorerei anche nel cinema a soggetto. Al momento, però, non saprei quali siano le mia capacità di messa in scena. Credo nulle…
Il cinema che piace a me, comunque, non distingue finzione e documentario. Mi piacciono i momenti documentaristici nei film di finzione, i momenti di vita, nei quali si percepisce che qualcosa succede davanti a te. A me piace molto il teatro: mi piacciono gli attori che sudano, mi piace vedere come reagiscono rispetto al testo in quel preciso momento…
Mi piacciono i film di Ken Loach, di Cassavetes, di quei registi che danno fiducia alla realtà, che inseriscono gli attori di finzione nella realtà e lasciano che reagiscano con una certa libertà: a quel punto non ti chiedi più se sia realtà o finzione. Mi piace il cinema girato in continuità.
Non mi piace il cinema dove tutto è costruito, controllato. Non mi piace una certa idea di cinema digitale che pretende di mostrare “tutto”, ma poi lo fa in modo prevedibile. Il bello del cinema è in tutto quello che non si vede: l’idea che tutto quello che non è mostrato non esiste è una mostruosità del cinema contemporaneo. Il cinema mainstream di oggi è un cinema in cui non c’è più alcun angolo di ombra: tutto è in piena luce.

In questa descrizione del cinema che prediligi riconosco Cassavetes, mentre mi stupisce un po’ Ken Loach: in fondo è un regista che impone alle sue storie strutture narrative generalmente molto “forti”. Mi sarei semmai aspettato Mike Leigh…

Sì, è vero, in Loach c’è l’ideologia, ci sono strutture forti, però se prendi Terra e libertà io trovo che è un film emblematico nella sua scelta di mettere gli attori “in situazione” all’interno di strutture narrative forti. Dentro questa struttura agli attori viene data la libertà di trovare i propri percorsi. Per dire, girando giorno dopo giorno, non sapevano chi dovesse morire nelle riprese del giorno successivo. E questo crea una tensione che puoi percepire sullo schermo. Ogni attore conosceva molto bene il punto di vista, il carattere del suo personaggio ma non sapeva esattamente quello che gli sarebbe capitato e questo poi si vede sullo schermo…
Anche Mike Leigh segue un approccio simile, anche se lì c’è un rapporto molto stretto con un certo teatro contemporaneo, c’è un lavoro sugli attori simile a un laboratorio teatrale. Lavori di questo tipo sugli attori ti fanno sentire poi una naturalezza che non riesci a trovare nel cinema mainstream.
In Italia approcci di questo tipo non si trovano quasi mai. Li puoi trovare in Garrone, in Gaglianone e in pochi altri: li conti sulle dita di una sola mano… Il fatto è che in Italia c’è una pesantezza dell’apparato produttivo. Anch’io mi paralizzerei se per ogni cosa dovessi rendere conto a cinquanta persone. Questo “ambaradan” non mi piace, mentre altri fanno cinema anche per il piacere che possono provare nel far funzionare tutto questo. Non nego che per qualcuno ci possa essere questo piacere “felliniano” di governare questo meccanismo, ma per quanto mi riguarda è un meccanismo che mi farebbe paura e che non mi interessa.

Hai citato alcuni nomi di registi che ammiri. E per quanto riguarda, in modo più specifico, i documentari quali autori ritieni particolarmente importanti per la tua formazione?

Potrei dire De Seta, che è scomparso da poco. Ho conosciuto il suo cinema quando ancora non conoscevo Flaherty e quindi per me è stato molto importante. Poi, potrei dire Johan van der Keuken. Oppure Rithy Panh: il suo documentario sui campi cambogiani, S21, è un film straordinario. E poi Wiseman, Errol Morris, Chris Marker e i grandi documentaristi francesi, Pierre Perrault in Canada. E poi Eyal Sivan: Lo specialista è un grande film.
In generale, però, il documentario non posso dire che mi piaccia come “genere”. Sono piuttosto singoli film che mi hanno colpito. Alcuni anche girati anche da registi che hanno fatto magari solo quel documentario. Per esempio, Close up di Kiarostami oppure il documentario sul Cairo di Yusuf Shahin, che dicevo prima.

Puoi parlare dei tuoi prossimi progetti e di come i tuoi film sono finanziati?

Per quanto riguarda il mio prossimo film, si tratta di un documentario che dovrebbe essere pronto dopo l’estate. Abbiamo seguito per quattro anni una famiglia di Gaza che ha subito lutti gravissimi. Li abbiamo incontrati per la prima volta un mese dopo Piombo fuso, li abbiamo incontrati e seguiti altre volte negli anni successivi.
Per quanto riguarda i finanziamenti, devo dire che il rapporto con Rai 3 – che ha preacquistato alcuni film, trasmettendoli in versioni ridotte – mi ha certamente agevolato. Io lavoro molto in Francia, dove c’è un sistema di finanziamento pubblico e privato che funziona molto bene. Il CNC ci ha molto aiutati. Primavera in Kurdistan è stato finanziato da Arte.

Torino, 2 dicembre 2011

Filmografia di Stefano Savona

Storia della Sicilia dalle origini all’età romana (2000)
Siciliatunisia (2000)
Un confine di specchi (2002)
Primavera in Kurdistan (2006)
Il tuffo della rondine (2008)
Piombo fuso (2009)
Spezzacatene (2010)
Tahrir (2011)
Palazzo delle Aquile (2011)