Con Canzoni del secondo piano (2000), Premio della giuria alla 53a edizione del Festival di Cannes, e il successivo You, the living (2007), Roy Andersson ha imposto definitivamente la singolarità del proprio sguardo: quello di un autore capace di combinare tragico e ridicolo, realismo e poesia, indetermitezza e precisione, intellegibilità e complessità della scena. I suoi film sono costruiti come una successione di inquadrature fisse su spazi in cui personaggi, sospesi tra disperazione e comicità, paiono imprigionati contro il loro volere; a detta dello stesso Andersson: «(…) siamo perseguitati dallo spazio in cui siamo, (…) rivela il nostro posto nella società e nella storia, come la nostra esistenza sia l’esito di un processo storico in cui la nostra volontà ha efficacia assai minore di quanto vorremmo credere» (1). E così, all’interno delle sue vignette quasi prive di continuità drammatica, si incrociano individui della società svedese estranei gli uni agli altri e intimamente grotteschi, in un eterno presente che non concede prospettive.

Solo scoprendo il primo lungometraggio di Andersson, A Swedish Love Story (1970), si può comprendere come la peculiarità del suo cinema si rifletta anche in quella del suo percorso di regista. Andersson ha infatti esordito con un soggetto sideralmente distante da quelli recenti: una storia d’amore tra due adolescenti, a tratti lirica e melodrammatica. All’uscita nelle sale svedesi, il film ha entusiasmato il grande pubblico, tanto da divenire una pellicola di culto per le giovani generazioni. Il regista non ha ovviamente ceduto alle lusinghe del mercato, che avrebbero ripagato profumatamente un seguito del film, ma è passato presto ad altro. Già con Giliap, il suo secondo lungometraggio del 1975, Andersson si è affrancato dai codici della narrazione classica e dall’introspezione dei primi piani di A Swedish Love Story per avvicinarsi a un registro più distaccato, surrealista e coerente con la propria idea di cinema: portare sul grande schermo gli attimi meno determinanti dell’azione e proprio per questo, a suo parere, essenziali. Prevedibilmente, la risposta del pubblico alla svolta è stata negativa, tanto che il regista, per garantirsi l’indipendenza che lo contraddistingue e finanziare i progetti successivi, si è dedicato per ben venticinque anni alla regia pubblicitaria, realizzando prodotti su commissione dai quali in ogni caso già emanava l’umorismo amaro dei film a venire.

Quando ha girato A Swedish Love Story, Andersson aveva ventisei anni, era studente alla Scuola di Cinema dell’Istituto Svedese del Film, e ha corso il rischio di non diplomarsi per il disappunto degli insegnanti, che equiparavano quell’impegno all’abbandono della scuola. Colpito dalla nuovelle vague ceca e dal primo Milos Forman in particolare, il regista all’epoca voleva realizzare «… qualcosa di poetico, una ricognizione con un tocco di humour sulla vita quotidiana ma anche sulla situazione sociale, mentale e politica della Svezia di quegli anni» (2). Così ha scritto il racconto della scoperta dell’amore e dell’affettività da parte di due adolescenti biondi e dalla pelle candida innestandolo, però, nell’universo ferito di adulti depressi, in preda a una tangibile insoddisfazione esistenziale. La presa di distanza umoristica rispetto a ciò che viene mostrato è d’altra parte materializzata dal sipario rosso che riempie il quadro in apertura del film, e che solo una volta sollevato permette al racconto di iniziare.

Contro le apparenze, il film è in realtà un’esperienza imprescindibile nella carriera di Andersson, in quanto gli ha permesso di sperimentare i codici della narrazione cinematografica classica senza impedirgli di gettare le basi di quello che sarebbe diventato il suo stile. E questo si intuisce in primo luogo dall’evidente ricerca delle potenzialità del visivo, che lo portano a privilegiare costantemente l’immagine alle parole, riducendo i dialoghi al minimo; e in secondo luogo dall’organizzazione della struttura drammatica in blocchi di sequenze di lunga durata, talvolta dotate di autonomia narrativa. Una delle più imponenti è proprio quella del primo incontro tra i due protagonisti, il quindicenne Pär e la quattordicenne Annika, che avviene nel parco della clinica in cui sono arrivati con le rispettive famiglie per far visita ai parenti. Uno di questi è il nonno di Pär, fin da subito afflitto dall’incomprensione che sente attorno a sé, mentre l’altra è la zia di Annika, depressa per aver abbandonato le proprie aspirazioni lavorative e soprattutto per il senso di solitudine lasciato da relazioni amorose fallimentari. A Pär e Annika, che si trovano loro malgrado nel mezzo di queste disperazioni sussurrate, è sufficiente lo scambio di uno sguardo per innamorarsi. La macchina da presa pare cogliere questo piccolo miracolo quasi per caso, girovagando tra gli alberi del parco, soffermandosi su vari soggetti in attesa che qualcosa accada e facendo dell’attesa stessa il motore propulsivo del racconto. È infatti dal modo in cui lo sguardo di Andersson sosta sui dettagli umani sparsi per la scena che iniziamo a percepire il rigido dualismo che oppone l’età adulta, inerme e condannata a subire lo spazio che abita, e l’adolescenza, che al contrario riesce a far accadere qualcosa, come un lieve romanzo sentimentale a partire da uno sguardo. Finalmente il racconto prende una direzione, inseguendo la timidezza e il pudore dei due ragazzini in occasione del secondo incontro in città, questa volta in mezzo al gruppo di coetanei. Nel loro lento avvicinamento, Annika e Pär vengono osservati come creature dotate di una bellezza e di uno stato di innocenza assenti nel mondo adulto. La loro grazia viene colta quasi furtivamente nei reciproci gesti di tenerezza, come la prima dimostrazione d’amore di Annika quando, finalmente, raggiunge Pär che sta spingendo la motocicletta, e finisce per posare delicatamente la propria mano sul sellino.

Eppure, accanto all’idillio amoroso, Andersson non rinuncia a una rappresentazione realistica della gioventù svedese di quel periodo, e le scene della vita di gruppo esibiscono senza edulcorarla la noia di questi ragazzini, combattuta attraverso corse in motocicletta, partite a flipper nei bar, incontri serali in discoteca, con la sigaretta costantemente tra le labbra, proprio come i due protagonisti. Questi ultimi, pur integrati nell’universo che li circonda, con la loro fusione affettiva paiono tuttavia infrangerne le leggi: da un lato quelle che regolano il gruppo di amici, dove vige un inquieto libertinaggio, e dall’altro quelle che governano la socialità degli adulti, oscillante tra rancore represso e asettica formalità.
I “grandi”, spesso osservati in soggettiva dai due protagonisti, paiono non essere mai stati adolescenti o aver dimenticato di esserlo stati, imprigionati in contesti sociali, famigliari, lavorativi o relazionali opprimenti. Il padre di Annika è uno dei caratteri più rappresentativi in questo senso: lo vediamo rigido e irreprensibile sul posto di lavoro e altrettanto incontrollabile e rabbioso in casa, dove finge di tirare con il fucile contro un bersaglio invisibile, o impreca violentemente contro la moglie. È anche il personaggio a cui è affidata la voce frustrata della propria generazione, l’unico ad ammettere di sperare che la figlia risarcisca la sua disillusione diventando molto ricca, perchè i soldi sono l’unica cosa che conta per un’umanità fatta di “gruppi di bastardi”. Un sentimento di sfiducia nella possibilità di apportare modifiche al presente che risuona anche nel padre di Pär, quando scappa infuriato dalla famiglia che gli fa notare l’asimmetria delle ante che ha appena montato, o nella zia di Annika, incapace di lasciare un uomo che la umilia anche in pubblico.
La lunga sequenza finale della festa organizzata dai genitori di Pär, in cui si incontrano le due famiglie, si rivela il palcoscenico annunciato dal sipario iniziale, una pedana sulla quale gli adulti, attraverso l’alcol e i ridicoli cappellini di carta che indossano, inscenano una felicità inesistente. È ancora il padre di Annika a esplicitare l’autentico sentire comune: in preda a un accesso di disperazione, sparisce improvvisamente nel bosco lì vicino, mentre gli altri invitati iniziano a cercarlo e a chiamarlo con grida che si fanno via via più angoscianti. Alla fine, l’uomo viene ritrovato immobile e silenzioso in mezzo a una cortina di nebbia.

È ormai l’alba, Pär porta Annika sulle proprie spalle e insieme, sorridenti, vedono tornare il gruppo: per le due generazioni arriva finalmente il confronto prossemico, esplicito e dichiarato, che vede da una parte individui che brancolano nella nebbia, e dall’altra creature ancora capaci di ottimismo, perchè gli uccelli hanno iniziato a cantare e le vacanze, così come le aspettative, non sono ancora finite.

A SWEDISH LOVE STORY (En kärlekshistoria), regia di Roy Andersson, Svezia 1970, 113′ (Artificial Eye)