C’è un momento, in J. Edgar, in cui Hoover festeggia la promozione a capo del Bureau of Investigation a cena con la nipote e la madre. Quest’ultima piroetta felice e orgogliosa sulle note delle Variazioni Goldberg di Bach, la stessa composizione che Hannibal Lecter in Il silenzio degli innocenti ascolta assorto e soddisfatto per festeggiare il bagno di sangue che ha permesso la sua spettacolare evasione. La madre di J. Edgar Hoover non è un assassino seriale con una passione per l’antropofagia come il personaggio creato da Thomas Harris. Ma la sua sottile e ambigua capacità di penetrare nei meandri della psiche del figlio ricorda quella posseduta dal Dottor Lecter. Da qui è molto semplice per Dustin Lance Black, sceneggiatore del film diretto e prodotto da Clint Eastwood, costruire a livello drammaturgico un personaggio di uomo bambino, volitivo, capriccioso e tirannico, ossessionato e problematico. Un adulto marchiato a fuoco, nella visione di Black, da un'(auto)imposta (e mai più rimediata) soppressione della sua natura sessuale.

Da queste premesse Eastwood costruisce un biopic canonico, alimentato – in maniera poco dinamica e caratterizzata da rari guizzi – dal conflitto tra pubblico e privato (tra interni ed esterni, tra “lecito” e “illecito”, tra vero e falso). Sullo schermo scorrono 53 anni della vita di J. Edgar Hoover, figura fondamentale della storia politica e sociale degli Stati Uniti sin da quando, a 29 anni, prende in mano le redini del disastrato ed esautorato F.B.I. trasformandolo in pochi decenni in una delle più potenti e preparate agenzie investigative del mondo. J. Edgar cerca di superare la canonicità del suo approccio al genere scegliendo, sulla carta, di svolgersi in una struttura complessa e ramificata, che si muove su diversi piani temporali e al contempo cerca di sviluppare una quantità di universi tematici e narrativi interconnessi, comunicanti e in continua relazione di causa/effetto fra loro. Ma se la libera e volutamente inintelleggibile complessità dei piani temporali usata da Eastwood in Bird, biografia del geniale sassofonista Charlie Parker, sembrava ricercata e coerente, flusso di coscienza necessario a contenere lo spirito jazz di Parker, le stesse dinamiche in J. Edgar appaiono confusionarie, incoerenti e molte volte prive di un senso logico narrativo. E se in Cacciatore bianco, cuore nero, ritratto romanzato di un episodio della vita di John Huston, Eastwood affrontava un personaggio tirannico, passionale e difficile da avere accanto in maniera affettuosa e tenera, in J. Edgar non riesce a far trasparire la stessa profonda empatia.

A macchiare ulteriormente il quadro del regista californiano e dello sceneggiatore premio Oscar per Milk, ad appiattire la complessità della struttura del film, c’è una certa incuria nella scrittura, in certi frangenti abborracciata e superficiale, e nella messa in scena, claudicante, poco attenta ai dettagli, frettolosa. Il trattamento riservato a Leonardo Di Caprio e Armie Hammer – invecchiati e affogati in posticci mascheroni di lattice, immersi in una fotografia spenta e sciatta –, oltre ad alcuni infelici momenti in cui l’utilizzo della colonna sonora supera il labile confine tra classico e semplicemente prevedibile, sono alcuni marchiani esempi della goffaggine nella realizzazione.
Rimane il ritratto dolente e profondamente umano, seppur cinematograficamente poco riuscito, di un personaggio fondamentale nella storia americana, di un uomo che ha saputo essere grande (e fare grandi cose) senza essere mai cresciuto.

J. Edgar, regia di Clint Eastwood, USA 2011, 137′