Quando I disperati di Sándor (Szegénylegények, 1964) è presentato nella penultima giornata del Festival di Cannes del 1966, Miklós Jancsó ha già al suo attivo una quindicina di cortometraggi e quattro lungometraggi, e si può considerare uno dei rappresentanti di punta della cosiddetta új hullám, la “nuova ondata” cinematografica ungherese, secondo una formula ormai consolidata anche altrove (in Francia, ovviamente, dove la nouvelle vague funge da modello per il resto del mondo, ma anche in Cecoslovacchia, con la nová vlna).
All’epoca, della storia del cinema magiaro si conosce ben poco: nonostante il paese faccia parte del blocco sovietico, nemmeno la critica di sinistra (italiana come francese) se ne occupa. Bisognerà attendere proprio il fenomeno Jancsó per scoprire qualcosa di più di una cinematografia che vanta un primato significativo: nel 1919, durante la Repubblica dei Consigli, l’intera produzione viene nazionalizzata, quattro mesi prima di quanto poi avvenga in Unione Sovietica. Dopo la dolorosa parentesi del regime autoritario di destra di Horthy, nel 1948 la nazionalizzazione è definitiva. Come avviene contestualmente in Polonia e Cecoslovacchia, anche in Ungheria la creazione di un cinema statale (con l’istituzione dell’Accademia di Arti Drammatiche e Cinematografiche sotto la protezione e i moniti di Béla Balázs) se da un lato permette il ritorno in attività a cineasti censurati dal regime di Horthy, dall’altro impone i dettami più tipici del realismo socialista. Solo ad inizio degli anni Sessanta, con gli esordi nel film di finzione di personalità capaci di distinguersi da tutti gli altri, András Kovács e, come detto, Jancsó (nonché, qualche tempo dopo, István Szabó e István Gaál, esordienti presso lo Studio Béla Balázs, istituzione il cui scopo fondamentale è garantire l’accesso alla produzione a giovani che abitualmente attendono anni prima di passare dietro alla macchina da presa) si potrà parlare di una scoperta del cinema magiaro da parte della critica internazionale.

La considerazione nei confronti di Jancsó ha subito nel corso degli anni importanti modificazioni: regista simbolo del cinema ungherese degli anni Sessanta, autore di film in grado di colpire l’attenzione durante i “passaggi” nei festival internazionali, grazie alla costante trattazione di quelli che diventeranno suoi temi tipici (la Storia, il potere, il rapporto tra oppressi e oppressori) mediante stilemi ricorrenti (soprattutto il piano sequenza, tanto da motivare appieno questa affermazione: “Miklós Jancsó ovvero del piano sequenza: un nome che è divenuto sinonimo di uno stile cinematografico inconfondibile” (1); ma anche il rifiuto della drammaturgia tradizionale incentrata sulle motivazioni psicologiche del personaggio e la pressoché totale assenza della recitazione), oggi  Jancsó è ricordato per una manciata di titoli realizzati tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo e del tutto ignorato per quel che riguarda la sua carriera posteriore, animata da uno spirito di costante sperimentazione, tra cinema e televisione, tra film di finzione e opere documentarie.

Mai sostenuto con troppa forza da alcuna scuola critica perché troppo poco marxista e dialettico per i militanti di sinistra, accusato d’essere incapace di un reale confronto con la contingenza perché troppo attento alla forma anche per molte riviste di tendenza della giovane critica, Jancsó ha scaldato gli animi dei soli strutturalisti, che, all’uscita di Scirocco d’inverno (Sirokko, 1969), lo acclameranno, per dimenticarlo nel breve volgere di una stagione.
Già
alle prime visioni delle sue opere, alla critica non sfugge la
vicinanza tra Jancsó e alcuni nomi di punta del cinema europeo del
dopoguerra, in particolare Bergman e Antonioni. Soprattutto quest’ultimo è un suo punto di riferimento fondamentale, come lo stesso regista ricorderà in più di un intervento: “[…] sono un autentico ammiratore di Antonioni” (2).
Ma, al di là di ogni influsso, del cineasta magiaro colpisce da subito l’attenzione nei confronti della Storia, attenzione peraltro comune a tanto cinema ungherese, tuttavia da Jancsó rielaborata in maniera assolutamente personale: “Miklós Jancsó assorbe la dimensione storicistica tipica del cinema ungherese per renderla totalmente altra, in una ricerca sull’essere della storia che è insieme avvicinamento all’essenzialità dell’arte come sottrazione, depurazione e ritmo dell’autenticità insensata. Il suo cinema è un ripensamento sconvolgente della creatività, una sintesi di eccezionale rigore di antropologia negativa e di formalizzazione totale. L’aridità dell’essere coincide con l’essenzialità radicale del linguaggio” (3).

Il grande pubblico lega nome di Jancsó a quello che resta nell’immaginario il suo titolo più celebre, L’armata a cavallo (Csillagosok, katonák, 1967), ma il suo primo film ad essere distribuito non senza difficoltà in Europa occidentale, e in particolare in Gran Bretagna, è Il mio cammino (Igy Jöttem, 1964), che segna l’inizio della proficua collaborazione con Gyula Hernádi, scrittore che diventerà il collaboratore per eccellenza del regista.
Lo spunto della vicenda è dichiaratamente autobiografico. Primavera 1945: sono in corso gli ultimi combattimenti per la liberazione dell’Ungheria. I russi stanno per arrivare in una desolata zona del paese. Il giovane Jóska, non ancora diciottenne, a differenza dei suoi coetanei scampati dalla deportazione in Germania non prende la strada per il ritorno a casa. Una volta arrivati i russi, anche lui sarà fatto prigioniero: assegnato ad un lavoro in una fattoria, il ragazzo è controllato da un suo coetaneo, il soldato sovietico Kolja. Quando Jóska tenta la fuga, sarà proprio Kolja a salvargli la vita indicandogli il pericolo rappresentato da una zona minata dai tedeschi. In breve, i due stringono una forte amicizia, e quando a Kolja si riacutizzerà una vecchia ferita patita sul fronte, sarà il coetaneo ungherese a cercare, anche se invano, un dottore per prestargli aiuto. Alla morte di Kolja, Jóska indossa l’uniforme dell’amico deceduto: salito su un treno di sfollati, una volta smascherato, viene picchiato e buttato giù dal convoglio. In un’ultima sequenza d’impatto, il ragazzo raccoglie il cappello con la stella a cinque punte e, ricalcatoselo in testa, s’incammina, forse, verso casa.
Di certo l’intreccio presenta molteplici elementi di pathos piuttosto convenzionali (non è certo secondaria l’influenza di una pellicola sovietica che a Jancsó piacque molto, Ballata di un soldato, Ballada o soldate, 1959, di Grigorij Čuchraj), anche perché la questione del rapporto tra le truppe occupanti russe e la popolazione ungherese è piuttosto delicata (e infatti appare sostanzialmente “rimosso” e confinato alla sola relazione tra i due ragazzini (4) ). Il regista in qualche modo sublima tradendo forse in maniera troppo invasiva la sua formazione di etnografo, ricorrendo spesso a canzoni popolari, romanze cosacche, inni religiosi (segni di un folklore cui Jancsó ricorrerà spesso in futuro, giungendo probabilmente con Salmo rosso, Még Kér a Nép, 1972, ad un’operazione di sintesi totale tra forma e tradizione) che permettono di astrarre, almeno momentaneamente, dalla vicenda contingente. E pur tuttavia, il film contiene già quella tendenza alla sottrazione che diventerà costante nelle opere successive, a partire dai dialoghi che, complice la scarsa conoscenza delle reciproche lingue, imporrà ai due protagonisti scambi verbali alquanto limitati. In questo senso Giovanni Buttafava può affermare che Il mio cammino è “veramente la prima opera jancsiana” (5), e Penelope Huston che si tratta “di un crocevia nella carriera di Jancsó” (6).
Impressione confermata anche sotto il profilo più strettamente stilistico. Infatti, per la prima volta nella carriera, il regista fa un uso intenso ed intensivo del piano sequenza.

Ricorda il regista che “I piani sequenza davvero lunghi iniziano con I disperati di Sándor” (7), anche se non ancora in modo sistematico, in quanto la macchina da presa utilizzata, una Debry, pesa circa trecento chilogrammi, ed è quindi troppo ingombrante per poterla muovere agevolmente. In compenso, è il primo film in cui Jancsó utilizza il cinemascope.
Siamo in Ungheria, anno 1869: i moti del 1848 e la Rivoluzione di Kossuth sembrano un lontanissimo ricordo. Se nelle città si tenta di costruire un effimero e apparente benessere borghese (sperando nel sostegno dell’occupante austriaco, con cui si tenta un compromesso che garantisca agli ungheresi un “posto al sole” negli equilibri instabili dell’impero asburgico), nelle campagne si muore di fame e patimenti. Campagne dove si muovono, spostandosi continuamente da una parte all’altra della grande puszta, i ribelli capeggiati da Sándor Rósza, celebrato eroe di canzoni popolari.  Sándor e i suoi seguaci sono inseguiti dalle truppe del commissario governativo, il conte Gedeon Ràday (un tempo sodale di Kossuth, ora passato dall’altra parte della barricata), che non si fa scrupolo di adottare ogni metodo a sua disposizione per debellare i ribelli. In un fortino perduto nell’immenso nulla della pianura, Ràday rinchiude centinaia di contadini convinto che tra loro si nascondano di certo un buon numero di ribelli, i cosiddetti “senza speranza”. Nonostante le minacce, fisiche e psicologiche, nessuno tra i reclusi sembra disposto a cedere e a fornire informazioni sugli insorti, o ad autodenunciarsi come tale. Sarà solo la delazione a portare alla scoperta dei seguaci di Sándor e a condannarli alla loro fine.

Il soggetto è, nonostante si riferisca ad avvenimenti di un secolo prima, molto delicato. Infatti, non solo la storiografia borghese tradizionale ha tramandato di Ràday una valutazione positiva (politico illuminato che molto fece perché l’impero diventasse, anche se troppo spesso solo formalmente, austro-ungarico, che così si chiamerà dal 1867, data del noto “compromesso” con Vienna), ma la stessa saggistica del dopoguerra non si cimentò in un’operazione di revisione del giudizio su quello che oggi viene considerato come uno dei responsabili principali della subalternità del paese, ridotto ad una dimensione feudale, la cui popolazione è costretta ad una servitù totale.
Significativamente, lo spettatore non vede mai Ràday, nemmeno il rastrellamento da lui ordinato, né l’eliminazione dei “senza speranza”. La Storia resta in qualche misura fuori campo, in un film che seppure sia intensamente drammatico, evita accuratamente il ricorso a strutture drammatiche esteriori e convenzionali, ad esmpio il personaggio principale che qui, come nei futuri film di Jancsó, non esiste.
Lo abbiamo già accennato in precedenza: sin da questi primi lavori il regista si segnala per l’attenzione nei confronti della Storia. L’argomento, sempre come anticipato, è particolarmente sensibile in Ungheria, paese fortemente influenzato dalla speculazione di György Lukács, il quale è tra i primi ad accorgersi dell’emergenza della questione anche nell’ambito del cinema: “Per quel che riguarda la concezione della storia, sono convinto che Jancsó e Kovács debbano essere considerati come i pionieri di una vera avanguardia”, dichiara il filosofo (8).
András Kovács afferma senza mezzi termini: “concepivamo la storia, la storiografia, come una disciplina con funzioni politiche immediate. La stessa funzione toccava al cinema” (9).
Nonostante Jancsó abbia più volte ripetuto che “un film non sarà mai simile ad un manuale di storia” (10), è pur vero che la centralità di argomenti storici presto diventa l’etichetta che la sua opera si porterà dietro per sempre.

L’armata a cavallo
(una coproduzione con la moscovita Mosfilm) non farà altro che sancire questa lettura del suo cinema.
1918, Guerra Civile in Russia. Un gruppo di cosacchi bianchi insegue dei soldati rossi in una zona non meglio precisata: tra questi ultimi, ci sono anche alcuni ungheresi. Nonostante le importanti vittorie dei bianchi, i rossi si riorganizzano in un monastero abbandonato: qui dei prigionieri bianchi vengono giustiziati. Una volta assaltata vittoriosamente la roccaforte, i bianchi lasciano liberi gli ungheresi: “Questa è una guerra nostra”, dice un ufficiale cosacco. I prigionieri rossi vengono fatti spogliare, invitati a fuggire se in grado, e, invece, barbaramente giustiziati alle spalle.
Il film affronta un tema a dir poco delicato, uno dei momenti centrali della recente storia dell’Unione Sovietica. Difficile farlo accettare ai russi e, prima ancora, alle autorità ungheresi. Il regista motiva la sostanziale assenza di difficoltà con la burocrazia ai buoni rapporti che Márta Mészáros (la cineasta all’epoca moglie di Jancsó) vantava presso le alte cariche statali (11).
Jancsó rievoca così la sua partecipazione alla prèmiere che il film ebbe a Mosca: “Borbottai due cose in russo, salutai il pubblico e una volta sceso dal palco mi presero per le braccia e mi annunciarono che si sarebbe svolta la cena d’onore. Mi portarono al Circolo Ufficiali dell’Esercito”. Quasi alla fine della cena entra nella sala un uomo di grande stazza, il Presidente del Circolo, che domanda chi abbia girato il film. Jancsó pensa al giudizio pesante che l’uomo esprimerà, ma, invece, questi afferma: “è andata proprio così”, e abbraccia il regista energicamente e non senza commozione. Jancsó pensa immediatamente che l’ufficiale non abbia visto il film. E, in effetti: “Come si venne poi a sapere, l’avevano tagliato per bene, ne avevano fatto fuori quasi mezz’ora”. A distanza di anni, ricorda ancora Jancsó, un’amica russa critico cinematografico gli avrebbe detto: “Tu sei il regista europeo di cortometraggi più famoso in Unione Sovietica!” (12).

È la violenza il centro del film. La violenza dei bianchi e quella dei rossi non è posta (come a volte si è scritto) sullo stesso piano. Infatti, la violenza bianca è fredda, lucida e spietata, adatta alla ragione profonda del suo motore: perpetuare la sopraffazione di classe e mantenere il potere; mentre quella rossa è in qualche misura viva, meno calcolata, imperfetta, se ci si passa l’espressione. È la manifestazione della trepidante volontà di riscossa di una massa per troppi anni inerme e soggiogata. Agli occhi del regista è una violenza “giustificabile” perché atta al rovesciamento dell’esistente e all’affermazione di una nuova consapevolezza e giustizia di classe. È una violenza necessaria che ha poco a che fare con quella schedulata e pianificata dell’ordine bianco. Non possono che tornare alla mente le parole di Bertold Brecht, secondo cui “solo violenza aiuti dove violenza regna”. Si tratta di una violenza trattata senza toni romanticamente emotivi, in quanto è una pratica talmente istituzionalizzata da essere ormai perfettamente automatizzata. La sequenza del valzer in cui le infermiere dell’ospedale vengono obbligate a danzare è il simbolo della grottesca ritualizzazione della violenza, che si manifesta in una cerimonia apparentemente delicata (13). È la messa in scena di un gioco perverso che l’oppressore sa di poter mettere in moto nei confronti dell’oppresso. Come lo stesso Jancsó ricorderà più volte, manifestazioni del genere sono espressione della società borghese che si realizza in una “sopraffazione mascherata da civiltà”. La mancanza di una dimensione convenzionalmente psicologica garantisce la messa in scena della “filosofia della reazioni umane”, (14) e la recitazione tradizionalmente intesa pressoché assente negli attori è invece “assunta” dalla macchina da presa che, in virtù del suo incedere sinuoso, delle sue avvolgenti carrellate, diventa vera protagonista agente nella messa in scena.
   
Con questo film che si entra nel vivo della discussione intorno alla concezione della Storia nel cinema jancsiano. Il regista utilizza non solo la storia ungherese, ma più universalmente delle grandi idee generali per costruire strutture formali al fine di rendere meglio comprensibili non solo i dati basilari (situazioni, personaggi agenti, date), quanto per invitare lo spettatore ad una percezione attiva, spingendolo ad interrogarsi sulle motivazioni che hanno condotto ad una data situazione e inducendolo ad ipotizzare una soluzione della stessa. La concezione di arte socialista di Jancsó, rifuggendo ogni ipotesi di realismo socialista convenzionale e codificato, consiste proprio in questo: elaborare strutture formali non ovvie al fine di interrogarsi sul passato e sul presente storico per intervenire attivamente sul futuro. Il regista ha dichiarato chiaramente: “Mi sembra che non valga la pena di filmare o di scrivere se non per tentare di cambiare la corrente della vita” (15). A chi gli rimprovera di non fornire tutti i dati storici esatti della situazione presentata, Jancsó dichiara: “[…] nella storia non ci sono dei riferimenti veramente precisi […]. Non esiste una storia scritta, non esistono che degli scritti sulla storia” (16). È proprio questo il nodo centrale della prassi jancsiana: scrivere degli scritti sulla storia non tanto con i dati quanto con le idee, idee che per Jancsó si veicolano attraverso lo stile.
Nel suo cinema la Storia si fa quasi sempre “fuori campo” (e la metafora si adatta bene ad un Paese come l’Ungheria sempre dominato da potenze straniere), gli accadimenti decisivi sono già accaduti perché è il potere che è fuori campo (a Vienna, Mosca o altrove). Ed è sempre stato il potere a muovere la Storia: si tratta ora di comprendere e tentare di invertire la rotta, trasferendo l’azione nelle mani del popolo. La scelta stessa di rappresentare spesso la classe contadina è chiara: il regista sceglie la classe socialmente immobile, potenzialmente reazionaria, una classe che fin qui ha subito la Storia, ma che ora può e deve cambiarla. Ma non serve, nella prospettiva critica jancsiana, lanciare messaggi nello stile del realismo socialista, quanto fare i conti con i grandi errori del passato recente dell’Ungheria: l’impero austro-ungarico, il fascismo di Horty e quello recentissimo della fase di culto e delle sue deformazioni (è quel che accade nei film della cosiddetta “trilogia” formata da I disperati di Sándor, L’armata a cavallo, e Silenzio e grido, Csend és Kiáltás, 1968). (17)
A partire dalla metà degli anni Cinquanta, è Lukács a lavorare costantemente sulle contraddizioni e sugli errori del sistema e in qualche misura Jancsó pare seguire il suo approccio. Il cineasta investe degli errori il popolo stesso, caricandolo della propria parte di viltà storica, realizzando così uno dei più avanzati proposti del Marx dell’Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, secondo cui “Bisogna insegnare al popolo a spaventarsi di se stesso, per fargli coraggio”. Per dirla con Carlo Di Carlo, “Jancsó si serve della Storia e affonda nei contrasti della Storia per arrivare alle radici dei problemi, all’esemplificazione scarna per mettere a fuoco i nodi della vita e della lotta dell’uomo nella società” (18). E giungiamo dunque all’altro polo del cinema jancsiano, quello del suo linguaggio. Crediamo che nell’opera del regista la Storia scaturisca dal linguaggio e viceversa. Nel senso che “[…] per Jancsó idee e stile sono intimamente e dialetticamente legati, come le une siano l’esatta conseguenza dell’altro e viceversa, come la forma che egli esprime si legittimi come espressione di quel contenuto e non di un altro” (19). Non a caso, rifiutando radicalmente ogni idea di film a tesi, Jancsó afferma che la figura più ricorrente del suo cinema, il piano sequenza, gli permette di mettere in scena la “continuità di un’idea in movimento” (20), garantendogli di sottolineare le difficoltà di lettura della Storia, la sua stessa intrinseca ambiguità e complessità (e qui riecheggiano, evidentemente, le parole di André Bazin sull’ontologica ambiguità della realtà che a suo parere solo lo stilema del piano sequenza garantirebbe di rappresentare). Insomma, per dirla con le parole di Sartre, in Jancsó ogni tecnica rinvia ad una metafisica. E infatti, nei film successivi a L’armata a cavallo, il regista intensificherà l’uso di tale procedimento, come in Silenzio e grido, 1968, Venti lucenti, Fényes Szelek, 1968, e in Scirocco d’inverno, 1969, raggiungendo (dopo una trasferta italiana rappresentata da La pacifista e da La tecnica e il rito, entrambi del 1971) con Salmo rosso uno dei suoi vertici: “Alcuni amici dei Cahiers du cinéma sostennero una volta che bisognerebbe costruire appositamente uno chassis della durata di un’ora. Lo trovo giusto” (21), ricorda il regista.

    Fine Ottocento. In mezzo alla pianura numerosi braccianti agricoli sono in attesa di ottenere delle risposte in merito alle loro rivendicazioni. È la prima volta che osano protestare contro l’oppressore. Attendono con canti e balli, mentre i padroni tentano invano di farli ritornare nei ranghi, ricorrendo, infine, all’intervento dell’esercito. Un giovane militare riceve l’ordine di sparare, ma rifiuta. Immediatamente giustiziato, risusciterà grazie al bacio di una contadina. Al che i braccianti invitano i militari a prendere posizione in loro favore. E quando il padrone delle terre invita tutti all’unità nazionale, i contadini gli leggono una lettera di Engels destinata ai rurali magiari: l’uomo muore di colpo. Nemmeno l’intervento del prete serve a ripristinare l’ordine: una volta fatto fuggire, viene incendiata la chiesa locale. Gli ufficiali danno una sorta di ultimatum agli insorti: recedano dalle loro pretese una volta per tutte o altrimenti sarà un massacro. I contadini rifiutano e sono circondati dai militari che, dopo un macabro balletto, li eliminano a colpi di fucile. Ma nel finale c’è ancora un ritorno in vita, quello di una ragazza che, presa una pistola, colpisce ad uno ad uno i soldati, uccidendoli.

Jancsó ritorna in Ungheria riavvicinandosi a temi cari, a partire da quello della Rivoluzione. Quasi a compensare alla mancanza di dialoghi e musiche dei film ungheresi immediatamente precedenti, in Salmo rosso il regista dà sfogo a danze e canti folkloristici contadini, nonché al colore, che diventa emblema poetico-politico.
La pellicola (che al pari di Venti lucenti ha avuto anche una versione teatrale) è girata in un unico luogo, mediante il ricorso a soli ventisette piani sequenza e all’ausilio – per la prima volta nel cinema jancsiano – della gru. Le azioni rappresentate non rispondono ad alcuna necessità narrativa specifica: sembra quasi che sia il solo movimento delle masse contadine e della macchina da presa ad assolvere alla funzione espressiva del film. Una dimensione corale che, come è stato più volte notato, presenta dirette ascendenze ejzenštenjane. È proprio il coro a contenere l’evento storico che, “depurato da prevalenze soggettivistiche e riportato al tessuto umano indifferenziato, all’avventura di popolo” (22), si eleva a simbolo universale.
È stato scritto che Salmo rosso è, in fondo, un “film musicale sui generis” (23), su come rappresenti “la rivoluzione inscritta e inserita nell’armonia e nell’intelligenza di un grande spettacolo. È Ejzenštejn più Busby Berkeley” (24).
Si accennava in precedenza al particolare uso del colore: nel film, ad un tratto, il sangue dei contadini si tramuta nel fiore rosso che adorna la pistola della ragazza rediviva. Afferma Jancsó: “non è simbolismo, ma ancora una volta un gioco. La cosa naturalmente è irreale e sorprende. Ma tutti sanno o devono sapere che nessuno ha sparato alla mano dell’attrice. È cinema: tutti sanno che è colore, pittura, sugo di pomodoro. Tutti gli spettatori ne sono coscienti. È un gioco, dunque, si deve giocare fino in fondo: allora, niente impedisce che la macchia rossa diventi un fiore, che poi non è neanche un vero fiore, ma un fiore ritagliato da una carta rossa” (25).
Il regista, quindi, aggiunge un ulteriore elemento alla complessità della sua opera, ovvero la necessità – specifica delle più autentiche espressioni del cinema della modernità – di compiere una riflessione meta-cinematografica, svelando i meccanismi stessi della realizzazione e della messa in scena. In fondo, Jancsó sin dai suoi esordi persegue un obiettivo del genere. Si pensi al citato uso di una recitazione del tutto alternativa a quella convenzionale, che pone lo spettatore di fronte ad una finzione e ad un linguaggio su cui è spinto ad interrogarsi. Il che, per tornare al tema “principe” dell’arte jancsiana, è strumento per interrogarsi anche sulla Storia presentata nei singoli film. Certamente tale impostazione lo avvicina ai procedimenti sperimentati da Brecht (nonostante abbia dichiarato con nettezza: “Non amo particolarmente Brecht” (26) ), consistenti nell’allontanare lo spettatore da una percezione passiva per attivarne una attiva e critica. Parafrasando il pensiero di Jacques Derrida su Marx, potremmo affermare che Jancsó “mira alla testa”.

Miklós Jancsó, un regista che più che interessarsi alla Storia, ha fatto della “filosofia della storia” (27) l’argomento principale dei suoi film, capaci, al di là di ogni polemica sorta alla loro uscita in Occidente, di gettare luce sull’ombra del potere e delle sue manifestazioni. Un regista che accetta di andare incontro a grandi incomprensioni anche a proposito del proprio stile, consapevole del fatto che, come afferma Lukács nel suo Storia e coscienza di classe, ogni scelta rivoluzionaria è irreversibile e se non è irreversibile non è rivoluzionaria. L’ambizione più profonda di Jancsó è infatti realizzare “film in uno stato di rivoluzione permanente” (28), assumendosi il rischio di commettere degli errori. Anche perché come sostiene Rosa Luxemburg, tutti gli errori “sono mille volte più utili e fertili che le più sagge risoluzioni delle autorità infallibili”.

NOTE

(1) Giulio Marlia, Lo schermo liberato. Il cinema di Miklós Jancsó, Firenze, Liberoscambio Editrice, 1982, p. 11.
(2) Intervista a Jancsó, in Giovanni Buttafava, Miklós Jancsó, Firenze, La Nuova Italia, coll. Il Castoro Cinema, 1975, p. 5. Si vedano anche le dichiarazioni contenute nel volume, a cura di Paolo Vecchi, Sciogliere e legare. Il cinema ungherese degli anni sessanta, Torino, Festival Internazionale Cinema Giovani-Lindau, 1996.
(3) Paolo Bertetto, Il cinema dell’utopia, Salerno, Rumma, 1970, p. 92.
(4) Secondo il regista una sequenza del film sarebbe stata tagliata, ma non ha mai fatto cenno a che cosa rappresentasse.
(5) Giovanni Buttafava, Miklós Jancsó, cit., p. 33.
(6) Penelope Huston, The Horizontal Man, “Sight & Sound”, estate 1969. In questo caso, come nelle successive citazioni da scritti in inglese e francese, le traduzioni sono nostre.
(7) Judit Pintér, “Intervista a Miklós Jancsó”, in Paolo Vecchi, a cura di, Sciogliere e legare. Il cinema ungherese degli anni sessanta, cit., p. 148.
(8) György Lukács, in Yvette Birò e Szilard Ujhelyi, Intervista a György Lukács in “Filmkultura”, 3, 1968, trad. it. parziale in “Rinascita”, 42, ottobre 1968.
(9) András Kovács, “Il cinema ungherese contemporaneo e la storia”, in AA.VV, Cinema magiaro. L’uomo e la storia, Venezia, Marsilio, 1982, p. 107.
(10) Gyula Hernadi e Miklós Jancsó, Sur Silence et cri, “Positif”, 105, maggio 1969.
(11) Sul perché sia stato concesso il privilegio della proiezione a Cannes, Jancsó, non avendo una risposta precisa, afferma genericamente che anche tra le autorità, “c’erano moltissime persone dalla doppia anima” (Dichiarazione tratta da Judit Pintér, Intervista a Miklós Jancsó, in Paolo Vecchi, a cura di, Sciogliere e legare. Il cinema ungherese degli anni sessanta, cit., p. 150
(12) Ivi.
(13) Un’annotazione. Nelle pellicole di Jancsó sono spesso le donne ad essere costantemente mosse dal desiderio di libertà (individuale e collettiva), ma finiscono costantemente per essere ridotte a semplice oggetto: di qui la ricorrente nudità dei corpi, soprattutto femminili.
(14) Vittorio Giacci, La tecnica del potere, il rito della rivoluzione, in AA.VV., Miklós Jancsó, Il rito della rivoluzione, Milano, Aiace, 1973.
(15) Jean-Louis Comolli, Michel Delahaye, Entretien avec Miklós Jancsó, “Cahiers du cinéma”, 212, maggio 1969.
(16) Ivi.
(17) Secondo Michel Estève i film che vanno da L’armata a cavallo a Salmo rosso rappresentano una sorta di “texte plurifilmique unique” (Michel Estève, L’espace, le mouvement et la figure du cercle (de Les Sans-Espoir à Psaume Rouge) in Id., a cura di, Miklós Jancsó, Paris, Minard, 1975, p. 74).
(18) Carlo Di Carlo, Il film come scrittura viva, in Id., a cura di, La pacifista di Miklós Jancsó, Bologna, Cappelli Editore, 1971, p. 12.
(19) Ibidem, p. 14.
(20) Citato in Giovanni Buttafava, Miklós Jancsó, cit., p. 10.
(21) Colloquio con  Jancsó, in Carlo Di Carlo, a cura di, La pacifista di Miklós Jancsó, cit., p. 26.
(22) Paolo Bertetto, Il cinema dell’utopia, cit., p. 93.
(23)  Giovanni Buttafava, Miklós Jancsó, cit., p. 102.
(24) Claude Beylie, Les maelstroms de la liberté, “Ecran”, 10, dicembre 1972.
(25) Giovanni Buttafava, Miklós Jancsó, cit., p. 103.
(26) Jean-Louis Comolli, Michel Delahaye, Entretien avec Miklós Jancsó, “Cahiers du cinéma”, 212, maggio 1969.
(27) Come sottolinea Vittorio Giacci nel suo La tecnica del potere, il rito della rivoluzione, in AA.VV., Miklós Jancsó, Il rito della rivoluzione, cit.
(28) Yvette Biró, Esquisse pour un portrait, in Michel Estève, a cura di, Miklós Jancsó, cit.

MIKLÓS JANCSÓ COLLECTION (Second Run)
IL MIO CAMMINO (Igy Jöttem), regia di Miklós Jancsó, Ungheria 1964, 108′
I DISPERATI DI SÁNDOR (Szegénylegények), regia di Miklós Jancsó, Ungheria 1964, 87′
L’ARMATA A CAVALLO (Csillagosok, katonák), regia di Miklós Jancsó, Ungheria/URSS 1967, 90′