Una donna che ride felice, il rumore di un motoscafo, l’odore dell’oceano. Dissolvenza. Una voce maschile fuori campo. Una stanza d’ospedale. In Paradiso amaro Alexander Payne entra subito in medias res, inquadrando Matt (George Clooney) mentre sbriga pigramente alcuni affari al capezzale della moglie in coma. Presto scopre che la donna con cui era sposato da vent’anni aveva un altro uomo, che la sua famiglia viveva in un cumulo di menzogne e sotterfugi, di abitudini ormai consunte, di segreti mal custoditi. Il film segue il protagonista – un avvocato che gestisce una sterminata fetta di foresta vergine, un’eredità familiare che è obbligato a vendere – in un percorso autoanalitico verso la consapevolezza. Matt si mette in viaggio per ritrovare un’abitudine al movimento, per digerire la morte inevitabile della persona amata, per imparare a gestire le due figlie in un periodo complicato di crescita, per confrontarsi con i cugini che dall’affare della terra vogliono guadagnare soldi e speranze di futuro. Fino a quel momento Matt ha vissuto di riflesso, nascondendosi in un rapporto di coppia che non lo responsabilizzava, ignorando le insofferenze e i dubbi della sua compagna, delegando la crescita delle due bambine, annegando nella gestione del fondo di famiglia l’assenza di ambizione, di gratificazione, di passione. Un uomo senza qualità, rispettato ma mai amato dalle persone che ha intorno.

Seguendo regole (e trucchi) da manuale di sceneggiatura, Payne delinea un percorso lineare quanto prevedibile per il suo protagonista: la scoperta dell’infedeltà coniugale e la nascita di una tenerezza solidale tra Matt e le figlie segue un filo logico studiato. Le ragazze (l’adolescente scontrosa ma emotiva e la piccola ribelle vestita da maschiaccio, puntuali e semanticamente ovvie in ogni battuta che pronunciano e in ogni abito che indossano) sono tratteggiate badando esclusivamente alla funzionalità del ruolo che devono ricoprire, specchi deformanti (o accomodanti) del cammino psicologico del padre. La costruzione di tutti i personaggi secondari mostra del resto una programmaticità narrativa talmente studiata da schivare ogni problematica. I cugini di Matt – un multiforme branco di cinquantenni ostentatamente appagati, con camicie hawaiiane e sorrisi da barbecue – sono in realtà insoddisfatti e disillusi. L’amico adolescente della figlia è un ragazzino strafottente in grado di smussare gli eccessi di melassa dei momenti più lacrimevoli. I suoceri sono una coppia anziana formata da un burbero manesco ma incline a una maschia commozione e una malata di Alzheimer che simboleggia la solitudine del dolore e la rimozione del lutto. La moglie dell’amante è una donna divisa tra rabbia e sensi di colpa, alla ricerca di una complicità irrazionale. Il viaggio di Matt verso la coscienza della propria situazione e l’accettazione della perdita è una via crucis costruita dosando momenti “necessariamente” commoventi e calibrati sprazzi di commedia (la corsa sgraziata in ciabatte che sdrammatizza la scoperta dell’adulterio, il pugno arrabbiato del vecchio dolente al giovanotto sguaiato) per mantenere un equilibrio tanto consapevole quanto smaccato e poco sincero. Non affiora mai il dubbio nella costruzione dei caratteri, la prevedibilità (e la “tipicità”) delle azioni svela un’attenzione più per la struttura geometrica del racconto (controllata anche negli sbalzi apparentemente svagati) che per i dilemmi dei personaggi, ostenta furbizia più che compassione o comprensione.

Esemplare in questo senso è l’utilizzo della location hawaiiana, unica variante originale allo scheletro da dramma borghese che il film ricalca. Lo sfondo esotico è a lungo ignorato, quasi nascosto. I personaggi lo attraversano distratti fino al momento in cui, con la moglie in condizioni sempre più disperate e l’equilibrio psichico sul procinto di frantumarsi, Matt sembra rivolgersi al paesaggio come a un deus ex machina. Sullo sfondo la foresta vergine sembra parlare ai protagonisti addolcendone lo spirito e mutandone all’improvviso gli umori. Al buonismo estensivo del film si aggiunge anche il messaggio pseudoecologista che invita a rispettare il proprio ambiente (naturale e umano) e a perpetuarne il valore simbolico, il legame inscindibile tra passato e futuro, tra i propri avi e i propri eredi (i “discendenti” del titolo originale). Via col vento in infradito. Il problema di Paradiso amaro è che vuol dire troppe cose senza mai abbandonarsi alla storia, usando il mestiere più che la sincerità. Costruisce a tavolino lo scheletro di un racconto in cui ingabbiare i suoi personaggi. Vuole ragionare di rapporti, di crescite e di legami per raccontare la rinnovata serenità con cui affrontare la morte e riconquistare la vita, ma lo fa con un lirismo dolciastro e vagamente posticcio. Vorrebbe essere umanista ma, proprio per l’impeccabile e scaltra professionalità della messa in scena, non si solleva mai da un compiaciuto narcisismo di scrittura.

Paradiso amaro (The Descendants), regia di Alexander Payne, USA 2011, 115′