Premessa

La narrazione nei film di Sono Sion non è mai lineare. Spesso ha una struttura a imbuto nel cui collo confluiscono le storie dei vari personaggi, giocata sul frequente alternarsi di piani temporali diversi. Ci sono nodi, intersezioni attorno ai quali la narrazione si muove, avanti e indietro. In Love Exposure, ad esempio, dopo un’ora si arriva a un crocevia – per usare una metafora stradale come quelle care a Sono Sion –: il racconto abbandona il protagonista per seguire un nuovo personaggio, con una digressione che ne racconta la storia, fino a ritornare al punto in cui si era rimasti. In Hazard, la narrazione raccontata da un bambino procede prima a ritroso, come in Memento o in 5×2, e poi abbandona lo schema a favore di un continuo andirivieni temporale.
Questa struttura narrativa contorta, circonvoluta, impone di adottare un analogo criterio nella trattazione del cinema di Sono Sion, evitando il comodo approccio dell’excursus cronologico, comunque artificioso. La filmografia del regista è suddivisa in due fasi, nettamente distinte. La prima, che parte dai lavori giovanili in super 8 di metà anni Ottanta, è quella sperimentale, underground, mentre la seconda, che inizia con Suicide Club nel 2002, è rappresentata dalle opere più mainstream, ad alto budget, realizzate all’interno del sistema degli Studios giapponesi. Si tratta di un percorso molto frequente nel campo dell’arte: il passaggio da un momento giovanile, arrabbiato e di rottura, a una fase più manierista, secondo lo schema delineato nel Gabbiano di Čechov, il cui protagonista, un autore teatrale, passa dalla ricerca di nuove forme espressive (“Sono necessarie nuove forme. Nuove forme sono necessarie e, se non ce ne sono, è meglio che nulla sia necessario”) all’approdo della maturità artistica (“Sì, mi vado sempre più convincendo che non si tratta di forme vecchie e nuove, ma del fatto che l’uomo scrive, senza pensare alle forme, scrive perché gli fluisce liberamente dall’anima”). Ci sono fautori della superiorità di ciascuno dei due periodi artistici di Sono Sion sull’altro. Ma anche nel suo cinema commerciale il regista non rinuncia alla ricerca di nuove forme e, a ben guardare le tematiche, le immagini e le metafore enunciate nella prima fase tornano puntualmente nella seconda, che a volte sembra voler comprendere e inglobare la prima. A volte si tratta di semplice autocitazionismo, come nella scena in cui i personaggi di Love Exposure si ritrovano davanti alla statua del cane Hachikō, che era stato oggetto già di Utsushimi (2000). Per questo la nostra analisi verterà su un analogo andirivieni tra il primo e il secondo periodo.

Filmare la poesia

La carriera artistica di Sono Sion è iniziata in veste di poeta che, pur raggiungendo una certa notorietà, rifiutava di pubblicare le sue poesie, per evitare l’omologazione dei caratteri stampa. Si è messo così a scrivere poesie in forma di graffiti sui muri, e a fotografarle, e quando ha sentito la necessità di conferire loro anche una dimensione di movimento, temporale, ha iniziato a filmarle in 8mm. Da questo passaggio multiplo – trasformare il pensiero in parola scritta e conferire il movimento all’immagine di questa – nasce il cinema di Sono Sion. L’evoluzione successiva è stata poi quella di voltare la cinepresa su di sé e parlare, modo in cui è originato il suo primo lavoro, I Am Sono Sion! (1985).
Si tratta di una compresenza/sovrapposizione/contaminazione di forme d’arte diverse che è alla base della storia dell’arte giapponese, dove i confini tra le diverse discipline sono sempre stati labili: basta pensare alla narrativa dipinta sugli antichi rotoli o alle tre scritture che Roland Barthes individuava nel teatro Bunraku. La poliedricità artistica di Sono Sion, regista, scrittore, poeta e anche musicista, non può non ricordare la figura di Terayama Shuji, a cui Sono si è evidentemente ispirato nella sua prima fase “arthouse”.

Nei suoi film sperimentali l’atto primordiale della sua personale genesi artistica è ripercorso in Bicycle Sighs (1990), dove uno dei protagonisti è un ragazzo che porta avanti il progetto di un film in super 8 e riprende scritte di gesso su un muro. Anche nel suo folle pinku Seigi no tatsujin: Nyotai tsubo saguri (2000), ambientato in un laboratorio di vasellame, i titoli di testa e di coda sono ripresi incisi su vasi o manufatti di terracotta. Più volte Sono arriva anche a includere la cinepresa nell’inquadratura, come in Utsushimi, o mostrandosi allo specchio, in una superficie riflettente, esibendo così la propria presenza di uomo con la macchina da presa, come in Decisive Match! Girls Dorm Against Boys Dorm (1988).
Questo concetto di scrittura visualizzata rappresenta la cifra stilistica di tutto il cinema di Sono Sion. I suoi film sono tutti, con l’eccezione di Himizu (2011), tratto da un manga, sceneggiati da lui stesso, che peraltro adotta la pratica, diffusa nel cinema nipponico, della “novelization”, che consiste nel pubblicare la sceneggiatura di un film, prima o dopo la sua uscita in sala, in forma di romanzo (e molti suoi film, come Noriko’s Dinner Table [2005], sono costruiti su un flusso verbale incessante in voce off). Sono riesce comunque a realizzare la negazione del proprio io stilistico con Dankon: The Man (1998), un delirante porno soft gay che racconta, tra un amplesso e l’altro tra membri della yakuza, una gangster story senza alcun dialogo, con tanto di colpo di scena finale. In alcuni film del regista è presente tra i personaggi la figura di uno scrittore. In Strange Circus (2005) ciò combacia con un espediente metalinguistico, caro allo scrittore Edogawa Ranpo e al genere ero-guro cui il film si ispira: includere tra i personaggi un autore che scrive storie, narrazioni nella narrazione. In Guilty of Romance (2011), a oggi penultimo film del regista, si infittiscono i rapporti con la letteratura che, insieme al cinema, si intreccia di continuo con la realtà. Il personaggio dello scrittore legge le sue opere in pubblico, mentre la sua amante è una docente di letteratura che, a lezione declama poesie proiettate sullo schermo: a distanza di venticinque anni Sono Sion rappresenta così la scena primaria della sua arte. “Le lezioni sono solo parole, dopotutto” afferma a un certo punto il personaggio, “le parole reali hanno sostanza, ciascuna di esse. Hanno un corpo”. Frequenti nel cinema di Sono anche le citazioni letterarie: da Casa di bambola di Ibsen e Il castello di Kafka (in Guilty of Romance), a Controcorrente di Huysmans (una frase all’inizio di Strange Circus), alla lettura di Walt Whitman in Hazard (2005): «la vita è poesia». Into a Dream (2005), poi è un film che, come Paul s’en va di Alain Tanner, segue il lavoro di una compagnia teatrale intenta a mettere in scena Un tram che si chiama desiderio.

«Konnichiwa. Sono Sion desu»

“Buongiorno. Sono Sono Sion”: con questa frase pronunciata dall’allora ventiduenne regista, in primo piano, a spalle nude, rivolto allo spettatore, inizia il suo primo film, I Am Sono Sion!. È segno di quella conturbante sincerità che caratterizza tutta la sua fase sperimentale. Sono Sion si espone nella sua nudità, non solo metaforica, mettendosi in scena in momenti estremamente privati, come quando si masturba sotto la doccia in The Love (1986), o defeca su una roccia in A Man’s Hanamichi (1986). In questo stesso film corre nudo nel suo campus universitario e analoghe scene di corsa ricorrono nel suo cinema sperimentale: sfreccia indossando una giacca rossa in Bycycle Sighs (1990); truffattiane corse sulla spiaggia si vedono in Decisive Match! Girls Dorm Against Boys Dorm, e in Utsushimi una studentessa in divisa corre in numerose scene del film, con una freschezza dal sapore Nouvelle Vague, che può far venire in mente anche Bande à part. Sono un segnale della sua grande energia e vitalità, e al tempo stesso uno schiaffo a quella società giapponese rigida e ordinata. Frequenti, sempre in questa prima fase artistica, le immagini di segnaletica stradale, come in The Room (1992), o di strisce e linee sull’asfalto: ancora la scrittura su luoghi pubblici, ma questa volta quella ufficiale, fatta di linee dritte, simbolo di un mondo dove tutto è rigorosamente incanalato, direzionato e fatto entrare nei ranghi. Dirompenti sono quindi quei momenti, come il finale di A Man’s Hanamichi, dove Sono corre per strada disegnando delle proprie linee sull’asfalto con un tracciatore di vernice preso in un campo sportivo, o come la linea bianca, tracciata con il gesso, che straborda in Bycycle Sighs: atti anarchici, rotture degli schemi costituiti. Parimenti, anche il sistema famigliare è raccontato come un’istituzione opprimente – aspetto peraltro autobiografico del regista –, da cui non si può che fuggire, come fa il protagonista di A Man’s Hanamichi. Tutto il cinema della prima fase, infine, ritrae un mondo marginale ed è ambientato in luoghi dismessi e degradati, come discariche o il fiume pieno di detriti in The Love e la grande stanza vuota di un fatiscente edificio abbandonato di Love Song (1985).

Tutte queste tematiche tornano puntuali nella seconda fase artistica del regista, quella commerciale. A cambiare è il punto di vista, terzo, della narrazione, non più in, anche interposta, prima persona. Bene o male, tutti i film della seconda fase sono romanzi di formazione e hanno come protagonisti giovani o adolescenti, alter ego del regista del primo periodo, alle prese con le esperienze spesso traumatiche della vita. I personaggi di Hazard sono ragazzi nippo-americani che con le loro scorribande newyorkesi non fanno che rivivere il percorso del Sono Sion artista sperimentale: le corse, i momenti di stasi narrativa in un ambiente degradato, come una discarica di rottami sulle rive dell’Hudson, le insegne luminose, la segnaletica metaforica del cartello “One Way”, le scritte sui muri, fino ad arrivare al tracciato stradale sull’asfalto, segno dell’approdo a una direzione obbligata. Corre sull’asfalto anche il protagonista di Into a Dream così come quello del bellissimo Be Sure to Share (2009), opera apparentemente anomala nella filmografia di Sono, dedicata al padre – intimista e dirompente come Una storia vera nel cinema di Lynch –, che racconta la storia del rapporto conflittuale di un ragazzo con il genitore, entrambi colpiti da un male incurabile.
Le famiglie repressive, disfunzionali sono la norma nei suoi ultimi film e ancora la fuga da queste si impone, come in Noriko’s Dinner Table. Con uno stile sicuramente parossistico, virato al grottesco, e uno sguardo impietoso, Sono racconta una società malata in fase terminale, dominata dall’afasia, dall’alienazione, dall’incomunicabilità. Anche questo era già anticipato nelle lunghe e logoranti scene di silenzio dei due personaggi di The Room, una intermediatrice immobiliare che conduce un cliente da una stanza all’altra.

Nel mondo di Sono Sion imperano le sette segrete, le congreghe di varia natura e un posto di rilievo spetta alla religione cristiana cattolica, portatrice di un senso di colpa e del peccato originale propri della cultura occidentale ma estranei a quella originale nipponica. Una fede ipocrita, che si nutre dei peccati che essa stessa mette all’indice e che per questo alimenta. È uno dei temi del capolavoro del regista Love Exposure che torna anche, con un carico di simbolismi religiosi, in Cold Fish (2010) e che rientra in un sentimento espresso anche da altri cineasti giapponesi contemporanei, come Ōmori Tatsushi nella sua opera estrema The Whispering of the Gods (2005). L’iconografia religiosa, in Love Exposure, viene privata di ogni minima carica di sacralità, Gesù Cristo è equiparato a Kurt Cobain e la Vergine Maria all’ideale femminile di un adolescente, il racconto della cui pubertà potrebbe essere uscito dalla penna dello scrittore Ōe Kenzaburō, tra erezioni caricaturali da manga, simboli fallici, castrazioni. E questa storia, che dura quasi quattro ore, è raccontata utilizzando parodie grottesche di generi cinematografici. Dal cinema di arti marziali, in cui le mosse di grande abilità e agilità servono non per combattere ma per carpire furtivamente, quasi alla Pickpocket, foto di mutandine femminili; alle storie di supereroi, di cui riprende il topos narrativo, virandolo in chiave “transgender”, della donna invaghita di un paladino in costume, che però disprezza la persona rappresentata dalla propria identità segreta.
Anche nella sua seconda fase artistica, Sono Sion conserva un forte senso della verità, nonostante la forte impronta letteraria. Parecchi film, come Strange Circus e Love Exposure, prendono il via da storie vere, da fatti di cronaca, da atti di violenza domestica e abusi, storie infelici. Per il suo ultimo lavoro, Himizu, Sono si è precipitato a filmare i luoghi devastati dal sisma che ha colpito il Giappone nel 2011, inserendolo nella storia, mentre il suo prossimo film parlerà dell’incidente nucleare di Fukushima.
Ancora un eterno ritorno del suo cinema arriva nella sua penultima opera, Guilty of Romance, dove la protagonista, al termine del suo tormentato Bildungsroman si mette a orinare davanti a dei bambini che la guardano: ancora un mettersi a nudo, nelle proprie funzioni corporali intime, proprio come faceva il giovane Sono Sion.