Idealmente, un grande film dovrebbe provocare uno dei seguenti tre effetti: dovrebbe farti venire voglia di 1) correre fuori, afferrare una macchina da presa e sperimentare la regia in prima persona, oppure 2) correre fuori a far cose stupide e dissennate, o infine: 3) correre fuori e innamorarti perdutamente, in ogni modo a qualunque costo. Ci sono pochissime pellicole che riescono ad ottenere tutti e tre gli effetti contemporaneamente, grazie alla rara capacità di coniugare grande arte cinematica, talento originale per uno spensierato non-senso pratico e un profondo amore per la vita.
I Magnifici Idioti (Hallelujah the Hills,1963) di Adolfas Mekas è uno di questi capolavori, se non l’unico esemplare. Se un giorno la maggioranza della gente di questo pianeta dovesse vederlo e decidesse poi di salutarsi per la strada non più con un semplice “ciao” ma con “Alleluia” in omaggio al film di Adolfas, la cosa non sarebbe poi una grande sorpresa: il film è bello fino a tal punto! Sfortunatamente però, Adolfas Mekas non è diventato la personalità acclamata che meritava di essere e, persino dopo la sua morte nel Maggio 2011, il suo lavoro non ha ancora incontrato l’attenzione di un pubblico più vasto.

Tra i motivi di questo ritardo va annoverato il fatto che Adolfas, in qualche modo, è sempre vissuto all’ombra del suo fratello più noto, Jonas, nonostante siano cresciuti insieme e abbiano vissuto le prime avventure cinematografiche come veri compagni d’arme. Hanno collaborato in molti film, specialmente i primi, per i quali i due hanno sostanzialmente lavorato in simbiosi. Adolfas sarà il protagonista del primo lungometraggio di Jonas, I fucili degli alberi (Guns of the Trees, 1961), e Jonas aiuterà a sua volta il fratello un anno dopo ne I Magnifici Idioti. Nonostante la loro stretta collaborazione, Jonas ha ottenuto una notorietà maggiore con i suoi film, anche grazie alla sua febbrile attività di critico e attivista, cosa che lo ha portato ha fondare istituzioni conosciute in tutto il mondo per la proiezione, distribuzione e conservazione del cinema di avanguardia.

È un vero peccato  che l’interesse per suo fratello Adolfas sia scemato con l’aumentare del prestigio di Jonas, considerando che meriterebbe un posto di uguale rilievo nel pantheon dei registi immortali, dato che i suoi film sono senza dubbio il frutto di una mente genuinamente geniale. La sua abilità nel coniugare commedia e parodia ad uno spirito d’avanguardia (1) fortemente creativo fa di lui una figura irripetibile nel panorama del Cinema Americano, artefice di un lavoro dotato del potenziale per attrarre pubblici ben più ampi del circuito che si interessa al cinema sperimentale. Si tratta di un corpus autoriale che non solo può sussistere in perfetta autonomia, ma che è per certi versi incredibilmente congeniale e complementare ai film di Jonas. Entrambi condividono in effetti una sensibilità peculiare per gli istanti di paradiso, ma, a differenza di suo fratello, Adolfas era molto più a suo agio con la commedia e con il “sublime al contrario”, permettendo all’estasi di coglierci attraverso lo humor e la follia comica: “la divina idiozia”, com’era solito chiamarla. Per questi motivi, senza voler sminuire l’enorme contributo al cinema di Jonas, sarebbe stato più appropriato se l’oggetto giunto agli onori della fama non fosse stato “Jonas Mekas”, ricordato pressoché da solo, quanto piuttosto “i Fratelli Mekas”.

1. Racconto di due fratelli

“La faccio scorrere lentamente, così potete scorgere l’estasi nei nostri occhi mentre facciamo gli idioti di fronte alla nostra prima Bolex”  dice Jonas mentre vediamo la primissima scena mai girata dai due fratelli (2). Il filmato ce li mostra, in piedi uno accanto all’altro, in effetti e eccitati e gioiosi: Adolfas ha addirittura le braccia alzate, come stesse festeggiando la loro scoperta del cinema e tutti i film dei Mekas che ne conseguiranno. Col senno di poi, si tratta di immagini davvero emozionanti, specialmente se si pensa a tutto quello che i fratelli avevano passato fino a quel momento.

Adolfas e Jonas sono nati e cresciuti a Smeneiskiai, un tranquillo villaggio contadino in Lithuania, Jonas mostrerà un talento precoce per la poesia, pubblicando la sua prima raccolta poetica a 14 anni. Adolfas, da par suo, era più interessato al teatro (4). Quando l’Esercito Tedesco invase la nazione, cominciarono a collaborare con un giornale della resistenza anti-nazista. In ogni caso, quando la macchina da scrivere clandestina di Jonas venne rubata, capirono che il tempo stringeva e che i Nazisti sarebbero presto arrivati a loro se non fossero fuggiti. Così, grazie a dei documenti falsi, i fratelli lasciarono la Lituania su un treno per Vienna, dove pensavano di iscriversi all’università. Il treno fu però fermato e congiunto ad un secondo treno che trasportava prigionieri russi e polacchi, diretti ad un campo di lavoro ad Elmshorn, nei pressi di Amburgo, in Germania.
Provarono a scappare in Danimarca finendo in una fattoria vicino a Flensburg, dove si nascosero fino alla fine della guerra. Da quel momento  vissero in diversi campi profughi, tra cui Wiesbaden, Kassel e Magonza, dove i fratelli frequentarono finalmente l’università. Jonas proseguì nella sua attività letteraria, impaginando il giornale del campo e pubblicando un libro di poesie, Idilli di Semeniskiai, un’opera importante nella poesia lituana contemporanea, che più avanti sarà egregiamente tradotta in inglese da Adolfas (5). Un anno più tardi si trasferirono in un altro campo profughi, a Schwäbisch Gmünd, prima di partire finalmente per l’America (6). I fratelli arrivarono quindi a Williamsburg, Brooklyn, nell’Ottobre del 1949. Adolfas aveva 24 anni e suo fratello 27.

Soli in una città sconosciuta e faccia a faccia con l’amara consapevolezza che non sarebbero riusciti a tornare in Lituania, i fratelli mostrano comunque fin dall’inizio una considerevole ‘fame’ di cinema: a tre giorni dal loro arrivo avevano già assistito ad una proiezione de Il gabinetto del Dottor Caligari (1919) e de La caduta della casa Usher (1928). Una settimana dopo chiesero del denaro in prestito e acquistarono la loro prima cinepresa. Mentre sopravvivevano lavorando in fabbrica (8), leggevano avidamente di cinema e scrivevano le proprie sceneggiature, che proposero Hollywood e a stimati filmmaker indipendenti come Flaherty – purtroppo senza successo. In quel periodo si misero inoltre in contatto con Hans Richter, che all’epoca insegnava presso il City College, il quale diventò presto uno dei loro eroi personali e attraverso il quale impararono ad apprezzare il Dadaismo, il libero pensiero e il piacere di filmare tutto ciò che gli andasse.

Alla luce di ciò che sarà, è interessante chiedersi: cosa nel cinema attraeva Adolfas e Jonas con tanta forza?
“Bè, il nostro background di provenienza era la letteratura. E io, aldilà della letteratura, avevo esperienza nel teatro come attore e regista. Così quando siamo arrivati negli States, abbiamo capito che la letteratura sarebbe entrata in letargo, che il teatro doveva essere messo in letargo, e quindi l’evoluzione naturale era il cinema, che non ha bisogno dell’inglese. Questo, direi, è il mio punto di vista su come siamo arrivati al cinema. E ovviamente ne eravamo affascinati. (10)” (Adolfas Mekas)
Questo interesse era già stato sollevato durante la loro permanenza in Germania:
“Dopo i campi di lavoro, tra il 1944 e il 1945 improvvisamente, dopo tre o quattro anni di deprivazione da ciò che succedeva nel mondo ci ritrovammo esposti a del cinema meraviglioso, principalmente francese  dato che eravamo nel settore di Germania occupato dai francesi. E così accadde, tutto si spalanco all’improvviso. Quando si guardava La bella e la bestia di Cocteau, quello era il linguaggio del futuro. Penso che il primo cinema del dopoguerra ci abbia attirato e sedotto verso il cinema. (11)
Comunque, non molto più tardi del loro arrivo a Brooklyn, in un tetro e ironico gioco del destino, ad Adolfas fu richiesto di arruolarsi, nonostante fosse in America da meno di un anno, senza residenza e a malapena a conoscenza dell’inglese. Jonas, dal canto suo, non dovette arruolarsi perché aveva più di 25 anni, ma racconterà questo triste e assurdo episodio nel suo Reminiscences from a Journey to Lithuania (1972):

“Mio fratello disse di essere un pacifista e di odiare la guerra. Così lo costrinsero ad arruolarsi. E lo rimandarono in Europa, verso vecchi ricordi di guerra. Quindi iniziò a mangiare le foglie degli alberi e loro pensarono che fosse pazzo. Così finirono per rimandarlo negli States”.

Di nuovo a New York, i fratelli sarebbero presto diventati parte integrante della comunità cinematografica locale. Jonas comincio subito ad organizzare le proprie rassegne di cinema d’avanguardia nel 1953 e nel 1954. Quindi l’anno seguente i fratelli fondarono Film Culture, una rivista di critica cinematografica  che propugnava la presuntuosa convinzione che il cinema fosse una forma d’arte seria, ben prima che lo studio del cinema venisse considerato rispettabile dal mondo accademico.  Nelle loro mani Film Culture diventerà presto un importante punto di riferimento per il cinema d’avanguardia, con collaboratore come Andrew Sarris, Stan Brakhage, Richard Leacock, Rudolf Arnheim, Arlene Croce e Peter Bogdanovich.

“Quei due ragazzi!” ha detto Pola Chapelle, moglie di Adolfas. “Ho sempre detto a mio figlio: ‘sono arrivati in questo paese con 10$ in tasca. Non parlavano la lingua e hanno fondato la prima vera rivista di cinema in inglese. Niente male. (12)”
Trovandosi al centro di una florida cultura cinematografica, i Mekas diventarono membri di un gruppo di cineasti che, sotto la guida di Jonas, costituivano il nucleo essenziale del movimento d’avanguardia conosciuto come “New American Cinema Group”, che includeva Robert Frank, Alfred Leslie, Shirley Clarke e Gregory Markopoulos. Questo ‘gruppo di auto-aiuto’ per la distribuzione e l’esibizione avrebbe posto le basi per la creazione della New York Filmmakers Cooperative nel 1962, la prima casa di distribuzione per il cinema indipendente gestita dagli artisti stessi, di cui Adolfas fu cofondatore e che portò rapidamente alla nascita di gruppi analoghi basati sul modello cooperativo, tra le altre la Canyon Cinema a San Francisco e The London Co-op a Londra. Collaborando con il movimento neo-dadaista Fluxus, Adolfas prese inoltre parte (insieme a Yoko Ono) alla prima performance del movimento nel 1961 (13).

In ogni caso, fin da quelle prime immagini riprese con la loro prima Bolex, i due fratelli stavano sperimentando col cinema personalmente, ed era solo questione di tempo perché completassero il loro primo film insieme.

2. I fucili degli alberi

La prima tappa importante della loro avventura nel cinema è Stato I fucili degli alberi, un’oscura meditazione esistenzialista in bianco e nero, firmata da Jonas. Il contributo di Adolfas risultò sostanziale: “Ho aiutato mio fratello lungo tutto il processo di produzione, scrittura e montaggio. Inoltre ho recitato in uno dei ruoli principali del film. (14)” Grazie alla sua esperienza teatrale, non sorprende affatto che Adolfas sia capitato di fronte alla cinepresa per il primo lungometraggio di Jonas. Incentrato sulla vita di due coppie, una bianca e una di colore, il film ritrae l’anima della beat generation com’era davvero, in tono per certi versi sommesso e malinconico. Adolfas interpreta il giovane Gregory che incontra Frances, una ragazza bella ma depressa, con tendenze suicide e alla disperata ricerca di un senso nella propria esistenza. Con la sua figura slanciata ed elegante e i suoi pregi da intellettuale, Adolfas riflette alla perfezione lo spirito profondamente onesto e impegnato del film, indubbiamente dettato dalla rabbia giovanile ma capace anche di brevi e intensi lampi di gioia e poesia. Senza negarne i difetti, I fucili degli alberi si è meritato il suo spazio accanto a manifesti del periodo come Pull My Daisy e Ombre, ed è davvero un peccato che sia scivolato negli abissi della nostra memoria collettiva sul New American Cinema degli anni ’60.

3. I magnifici idioti

Quando fu pronto per dirigere il suo primo lungo con l’aiuto di Jonas, Adolfas aveva già realizzato due cortometraggi, Grand Street e Silent Journey (15). Il film che è risultato da questa sua avventura, I magnifici idioti, è il suo capolavoro. Anche se i suoi successivi lavori riusciranno spesso meno convincenti del primo, risultano comunque interessanti proprio perché vi si possono scorgere occasionali lampi di quella “magnifica idiozia”.

Realizzato con l’esigua cifra di 65000 $ dall’idea alle copia finita, il film racconta la storia di Jack e Leo, due giovani sempliciotti del Vermont, che stanno corteggiando la stessa ragazza, Vera, in realtà molto diversa nell’opinione dei due, a seconda delle rispettive e fantasiose proiezioni mentali. Vagando per i boschi senza un obiettivo concreto, si troveranno presto di fronte al dissolversi dei propri sogni: Vera ha sposato l’orrido Gideon! Incapaci di fare alcunchè davanti al rifiuto, si trovano a rievocare i sette anni spesi nel corteggiamento in una sorprendente serie di giochi e di flashback.
Adolfas ha bisogno davvero di pochi elementi narrativi per creare una poesia slapstick unica, che seduce rapidamente lo spettatore in un continuo susseguirsi di idee, trovate comiche e disavventure. Una bella somma di potenziale comico è inoltre già intrinseca negli stessi personaggi di Jack e Leo. È chiaro che la scelta di una coppia di fratelli o amici molto stretti ha di per sé molto appeal (il cosiddetto ‘fattore buddy movie’), ma il fatto che siano in realtà un paio di cretini che si cacciano costantemente nei guai – il fatto che siano stupidi di natura li inserisce lungo la tradizione di coppie comiche come Stanlio e Ollio o di gruppi più numerosi quali i Fratelli Marx. Con queste premesse e un certo ritmo scanzonato, I Magnifici Idioti si dimostra – nonostante un po’ di lirismo malinconico – un vero “feel-good-movie”.

Ricco di citazioni da e battute su altri film classici, questa commedia in bianco e nero è inoltre intrisa di un profondo amore per la storia del cinema. Ecco come, in effetti, Aldolfas descrive il film: “si tratta del mio tributo, il mio inchino, a tutti i registi che sono venuti prima di me e che mi hanno insegnato ad amare il cinema. Non uso la parola ‘film’, uso la parola ‘cinema’. Questa cosa che non smette mai di eccitarci e sorprenderci. (17)”

E di certo non smette di farlo nel cinema di Adolfas. Perché anche se ‘gioca’ con altri film citandoli, il cinema nelle mani di Adolfas è sempre ‘vivo’ e continua a sorprenderci. Questa celebrazione del cinema funziona così bene probabilmente perché è connessa o sovrapposta nel film ad un’altra celebrazione: chiamatela pure celebrazione dell’amicizia, della giovinezza, della vita, del qui e ora. Questo spirito celebrativo risulta tanto più potente e prezioso, quanto più contrasta con un tono di malinconia in sottofondo. Ed è la tensione tra le due cose che è alla base dell’originale poesia e del suo intatto fascino.

Ma prima di proseguire ulteriormente, avviciniamo il nostro sguardo a come gli elementi della trama sono conessi uno all’altro e a cosa sappiamo o non sappiamo sui nostri due antieroi.

3.1. Anarchia narrativa

In generale, si tratta di una struttura narrativa non-lineare e decisamente frammentaria, dalla cronologia degli eventi estremamente indeterminata. Nonostante questo, è possibile distinguere ti due rami di un struttura principale che si muove tra il presente, nella foresta, e i flashback del passato, anche se l’ordine di questi eventi precedenti rimane misterioso. Jack e Leo, una coppia di giovani e abbastanza infantili buontemponi (meravigliosamente interpretati da Peter Beard and Martu Greenbaum), passano molto tempo tra i boschi. Anche se a volte si comportano come e fossero in un spedizione militare o degli scout, non sappiamo nulla della loro effettiva occupazione o professione, sempre che ce l’abbiano. Nella prima scena dopo i titoli di testa, vanno a casa di Vera solo per scoprie da suo padre che è già sposata con Gideon, un tizio orrendo da loro odiato (interpretato da Emsh, ovvero Ed Emshwiller (18), il cameraman). Sconvolti dalla scoperta, i due finiscono la sera stessa in un negozio d’alcoolici e cercano di liberarsi del cane che doveva essere regalato a Vera. Più avanti, durante il giorno, mentre sta portando con sé della legna da ardere, Jack riflette: “questo è il settimo inverno, domani è Natale”. Nella scena seguente, jack arriva a casa di Vera con il legname, leggermente alticcio. Ma già a questo non possiamo dire con chiarezza se si tratta della prosecuzione del ‘settimo inverno’ o se si tratta piuttosto di un flashback.
Nella scena successiva, siamo di nuovo nella foresta, nel bel mezzo dei giochi e degli equivoci dei due ragazzi: stanno sparando ad un miraggio di Gideon vestito da pirata, quando Leo si avvicina alla camera dicendo “mi ricordo” e dà sfogo ai suoi ricordi su Vera. Il film sembra così configurarsi lungo una struttura di alternanza tra il passato e il presente dei rapporti con Vera, dove i flashback del corteggiamento di Jack si svolgono in inverno mentre quelli di Leo in estate.

Entrambi i contendenti sono protagonisti inoltre di una scena in cui si propongono a Vera e gli viene risposto di aspettare fino al Giorno del Ringraziamento. E anche se in genere i racconti di Jack e Leo nei flashback non si incontrano, il Giorno del ringraziamento fa eccezione. Questo perché i due si incontrano casualmente a casa di Vera per la cena e per una gara nel dopocena tra i due contendenti che viene vinta da Jack. I ricordi del corteggiamento invernale di Jack proseguono immediatamente dopo, culminando in una visione di Vera che si mostra a lui mentre corre nuda nella neve alta fino al ginocchio.
Nel frattempo, le scene nella foresta proseguono con i due ragazzi che si rifugiano in un capanno da caccia per la notte.
Più avanti, dopo un lungo capitolo dedicato al corteggiamento di Leo, un nuovo flashback ci mostra Jack che balla la quadriglia con Vera al ritmo dell’orchestrina di una festa di paese. Questa meraviglia sequenza ha una forte componente documentaria. Dà l’impressione di cogliere l’atmosfera di un autentico evento caratteristico della zona del Vermont in cui è stata girata (19).

L’alternanza tra passato e presente prosegue, e tra le scene in flashback si alterna una sequenza per ognuno, nelle quali il passaggio dei sette anni è scandito da un montaggio di inquadrature molto brevi, generalmente tutte identiche per campo e disposizione, alternate con cartelli che recitano: ‘Prima estate’, ‘Seconda estate’, ‘Terza estate’ ecc. o ‘Primo Inverno’, ‘Secondo Inverno’ ecc. In ognuna di queste sequenze sono jack o Leo a tirarsi indietro, non Vera, come si potrebbe pensare, arrivando addirittura ad accampare scuse per andarsene, anche per lunghi periodi di tempo o per motivi piuttosto assurdi: “Devo andare a disseppellire ossa in Mozambico”, dice ad esempio Jack.

Mentre è appoggiato ad un albero nel bosco, Leo afferma “Sono dieci giorni che non vedo un film”, frase che dà il via ad un paio di sequenze oniriche, non più dei flashback quanto dei film-nel-film. Prima i due guardano “Il Film di Leo” riguardo ai suoi sogni con Vera, poi tocca alla versione di Jack. Mentre il film del primo presenta sostanzialmente una passeggiata amorosa con Vera tra i campi, memore di La notte, Jack prova a baciarla in una scena in interni, ma viene interrotto e cacciato via da Gideon, al quale Vera in seguito si concede con entusiasmo perlomeno uguale.

Poco dopo, i due hanno una visione di una folla di ragazze belle e disponibili, sedute su una albero o intente a ballare su una roccia. Provano a raggiungerle ma non ci riescono. Nonostante questo, sembrano finalmente capaci di lasciarsi alle spalle Vera, e si preparano a lasciare il bosco sulla loro jeep. Mentre si allontanano, però, il film stacca su due carcerati in fuga, interpretati da Jerome Hill (20) e Taylor Mead (21), che vagano lungo una strada si imbattono incidentalmente in una scatola contenente due pistole. Quando sono pronti ad esibirsi in un duello vecchio stile lungo la strada, la jeep di Jack e Leo passa in mezzo ai due nel momento esatto in cui vengono esplosi i colpi. The End.

L’anarchia della struttura narrativa si dimostra di frequente un gioco fine a se stesso , ma in certi casi risulta utile ad uno scopo. Consideriamo ad esempio la disposizione caotica del flashback estivi ed invernali. Questi ricordi si costituiscono essenzialmente di una serie di momenti passati insieme nel tempo libero dalle varie coppie. È difficile riscontrare una qualsiasi evoluzione o cronologia tra queste scene, così che nel complesso un’estate o un inverno non sembrano diversi dagli altri, come fossero intercambiabili. Ma questa mancanza di consecuzione, che si traduce in una sensazione di caos o anarchia, ha in effetti uno scopo: “il punto sta precisamente nel fatto che non si possa distinguere un cronologia progressiva nel presunto arco dei sette anni: questo passato è di per sé una sorta di acronico presente in continuo svolgimento che né si rivolge al futuro, né ha intenzione di guardarsi indietro. È lo specchio del sentimento del tempo per i bambini, a sua volta comicamente imitato dal corteggiamento di Jack e Leo.” (22)

E’ vero, però, che ognuno dei ragazzi ha un personale montaggio di scene che riuniscono gli anni del corteggiamento in una breve serie di inquadrature (nel caso di Leo, è ambientato in una drogheria). Questi intermezzi possono dare l’idea di sottostare ad una struttura cronologica compiuta. Ma persino in questo caso l’incedere del tempo è illusorio e l’anarchia finisce per trionfare: poiché i personaggi si ritrovano continuamente nella medesima posizione, rendendo lampante che queste scene sono tutte state riprese lo stesso giorno e che il tempo, in realtà, ristagna. È un modo brillante di farsi beffe del comune modo di rappresentare il passaggio del tempo al cinema e, allo stesso tempo, di sottolineare come l’”uniformità”  del passato dei protagonisti resiste ad ogni struttura cronologica.

In secondo luogo, si è discusso sul fatto che l’anarchia narrativa e la mancanza di azione lineare e nessi causali tra gli eventi possa aumentare di fatto il potenziale comico del film. Eventi rappresentati che possano essere visti come causa o sviluppo di altri seguenti sono in effetti molto rari. John Pruitt ha in effetti salutato la capacità del film di “voltare lo sguardo della macchina da presa di fronte all’azione”  e abbandonarsi all’improvvisazione come un catalizzatore di comicità. “Che si tratti di Keaton, dei fratelli Marx, o persino di interpreti più recenti come Eddie Murphy o Bill Murray, più un film è sceneggiato … nel suo farsi, minore è l’opportunità che ne emerga una genuina ricchezza comica.” (23)

3.2. Paradiso perduto

È difficile non pensare al comportamento di Jack e Leo come ispirato dalle esperienze e dalle mascalzonate di Adolfas e Jonas insieme (24). Con tutta probabilità I magnifici idioti rappresenta anche un tributo autobiografico agli stessi fratelli Mekas.

Come affermato da Adolfas:

“Abbiamo vissuto insieme fino a due giorni prima del mio matrimonio… abbiamo fatto tutto insieme, siamo stati negli stessi posti insieme. (Ride) E ci sono stati diversi momenti in cui siamo stati innamorati della stessa ragazza. (Ride)”.

Un altro elemento autobiografico è probabilmente costituito dall’ambientazione quasi totalmente in esterni del film. Adolfas e Jonas sono cresciuti in una fattoria in campagna, vicini alle colline e ad una foresta, e proprio per come i due hanno vissuto in stretto contatto con l’ambiente circostante , il film conserva un intimo legame con la natura e la sua bellezza.

Il biancore della neve, la luce del sole e i suoi riflessi, le ombre tremanti degli alberi nella neve, sono tutte espressioni di un sincero romanticismo nei confronti dell’ambiente. Adolfas ha definito il film una ‘storia d’amore’ (nei titoli di testa) e non è altro che questo, non solo per quel che concerne il loro amore per Vera, ma anche per i luoghi che li circondano (25).

L’esperienza dell’amore non corrisposto dev’essere stata traumatica per i fratelli Mekas tanto quella di Leo e jack. Ciononostante, nel film la cosa non sembra minarne la gioia di vivere e stare insieme, mentre passano da una disavventura all’altra. “l’abbiamo fatto ancora” è il ritornello dell’amicizia fraterna che unisce il nostro duo comico e che i due ripetono ad ogni gaffe. È quasi una maledizione ma può essere intrepretata come un segno di celata soddisfazione e divertimento.

Ma si può anche obiettare che sia proprio l’incessante passione fanciullesca per il divertimento dissennato ad aver spinto Vera a sposare qualcun altro, principalmente perché ha realizzato che i due ragazzi non hanno intenzione di crescere e diventare persone responsabili, poiché questo significherebbe lasciarsi alle spalle il paradiso senza tempo di spasso e goliardia che si sono creati.

In ogni modo, il loro attaccamento al presente e la spensieratezza che dimostrano, persino dopo il rifiuto di Vera, ha probabilmente delle cause più profonde e nasce un più profondo senso di perdita.

Tra gli indizi papabili di un trauma pregresso ci sono i numerosi rimandi alla guerra nei loro giochetti infantili. Dalla prima scena,  quando si immobilizzano dopo un rumore simile ad uno sparo, in avanti la guerra è diventa una presenza continua: più di una volta i ragazzi interrompono quello che stanno facendo per scambiarsi un saluto militaresco, si sfidano in esercizi militari come le flessioni dentro il capanno, si allenano a sparare a distanza (pur usando una torta come bersaglio) e vengono attaccati durante un immaginario raid aereo nel cimitero. Persino quando attraversano il fiume per raggiungere l’albero pieno di ragazze, reggono le proprie armi in tipico stile militare.

Aldilà del loro valore satirico, perché tali allusioni alla guerre non potrebbero nascondere uno scenario più oscuro?

Un’altra scena che viene alla mente è quella in cui i due ridono sul pavimento della cabina mentre in colonna sonora risuona una malinconica filastrocca per bambini che parla di due bambini che si sono persi nel bosco e sono morti (27).

Questa scena in particolare può suggerire che l’attaccamento di Jack e Leo al loro paradiso è così forte perché in qualche modo, da qualche parte i due devono essere già stati sottratti prematuramente ad esso in passato, esperienza che farebbe il paio con l’effettiva storia di vita di Adolfas e Jonas, che li ha visti violentemente strappati dalla guerra al paradiso della loro infanzia e adolescenza in Lithuania. La spensierata leggerezza del film e il comportamento dei due protagonisti è una reminiscenza delle giorni felici dei fratelli, ma anche il velo che nasconde sentimenti più profondi legati al trauma della loro cacciata dal paradiso.

John Pruitt ha fatto notare come questi sentimenti repressi e inconsci sarebbero emersi in successive opere di Jonas, in particolare in Lost, Lost, Lost (1976), nel quale riflette più direttamente sul suo esilio e su quello di suo fratello, oltre che sulla loro condizione di outsider ed emarginati.
“Non è poi così azzardato vedere I magnifici idioti come un sorprendente presagio dei temi estremamente commoventi che emergeranno nei film seguenti, vedere, in altre parole, le scorribande di Jack e Leo  in Vermont come una sorta di tentativo fallito di ritornare ad un sogno lituano perduto; sono emarginati in esilio che cercano di mettere radici inseguendo disperatamente una sfuggente ragazza americana al 100%, la cui ‘verità’ è ironicamente molto simile alla fasulla ma innegabile bellezza di, ad esempio, un western di John Ford. (28)”

3.3. Amorevole omaggio e pura invenzione

Durante i loro anni in esilio, i fratelli hanno trovato grazie al cinema una nuova comunità di appartenenza, e a questo è probabilmente dovuta la celebrazione del cinema che troviamo nel film: non solo omaggio alla storia del cinema (attraverso svariate citazioni sia amorevoli che satiriche), ma anche del piacere di guardare film insieme (come nella scena in cui Jack e Leo sono spettatori delle proprie cinematografiche fantasie con Vera), e inoltre c’è senza dubbio una celebrazione del puro godimento dell’atto di fare cinema. Questo si avverte non solo dalle numerose citazioni ricolme della gioia del rimettere in scena. C’è anche una lampante ludicità formale e una notevole varietà di tecniche sfoggiate che in molti casi si dimostra un tributo diretto alle pellicole del passato: l’uso frequente degli iris e delle didascalie rievoca ad esempio l’epoca del cinema muto.

Ovviamente Adolfas non è stato l’unico regista degli anni ’60 i cui lavori riecheggiavano della storia del cinema. Come sapeva benissimo per la sua stessa attività di critico cinematografico, I magnifici idioti è solo parte di un ampio contesto di film, tra cui moltissime pellicole della Nouvelle Vague, che non si tirano affatto indietro di fronte all’allusione letterale, in quella che è una sorta di posa da dandy postmoderno. Proprio come quei film, I magnifici idioti è ricolmo di citazioni: da Grifffith, Renoir, Welles, Kurosawa e Antonio, fino a Truffaut, Godard (Fino all’ultimo respiro) e molti altri, senza contare la tradizione di coppie comiche (come Stanlio e Ollio) e di generi cinematografici (film di guerra, western e film di samurai.) (29)

In una scena Adolfas riporta nel film addirittura un intero estratto di Agonia sui ghiacci di Griffith (1920). È la bellissima sequenza tratta dal climax del film, nella quale un uomo interpretato da Richard Barhelmess trae in salvo il personaggio di Lilian Gish, che giace svenuto su una dei molti lastroni di ghiaccio di un fiume, trasportati dalla corrente verso una cascata. La fragilità dei movimenti con cui salta disperatamente tra una lastra e l’altra, giungendo accanto alla dona giusto in tempo per riportarla a riva tra le sue braccia, è di notevole bellezza. Sia le azioni che l’ambientazione spettacolare sono espressione di un’esuberanza melodrammatica che entra in relazione in maniera interessante con il romanticismo di I magnifici idioti.

Va inoltre ricordato che l’interpretazione di Peter Beard, in particolare, si rifà alla tradizione attoriale di Keaton e Chaplin, ricca di grandi virtuosismi nella fisicità e nell’improvvisazione, che vengono portati da Beard in un nuovo territori. La sua maestria e lo sprezzo del pericolo lo portano a cimentarsi in una serie di numeri esilaranti quanto stupefacenti. Che si stia arrampicando sul tetto di un capanno per poi lasciarsi scivolare giù fino a cadere a terra, o stia correndo nudo nella neve alta, precipitando attraverso il ghiaccio o ergendosi tra i rami degli alberi, l’unico possibile pensiero di fronte a queste scene può essere solo la speranza che le Olimpiadi riconoscano una disciplina speciale per rendere onore ai suoi sforzi ne I magnifici idioti.

Una menzione speciale se la merita la bizzarra destrezza con cui mima la sua lotta con un Orso Nandi (ndt) durante una cena del Ringraziamento, piegando le ginocchia e saltellando su e giù nella più curiosa della maniere, facendo senza dubbio rientrare la scena nel novero delle più divertenti del film (30).
In ogni caso, uno dei pregi principali di I magnifici idioti è la sua creatività, che già allora fece grande impressione su Godard:

“Accanto ai due pezzi grossi della Scuola di New York, Clarke e Cassavetes, era visto come un parente povero, specialmente per il fatto che in molti lo confondevano col fratello. I Magnifici Idioti fu la chiarissima prova che Adolfas è una personalità con cui bisogna fare i conti. È un maestro nel campo della pura inventiva, lo si deve riconoscere, nel lavoro pericoloso – ‘senza rete’. Il suo film, realizzato in maniera fedele al vecchio principio “un’idea  per ogni inquadratura” ha una piacevole fragranza di ingenuità e di abile dolcezza. Comicità fisica e gag intellettuale sono accostate palesemente. Ogni piccola cosa ti emoziona e ti fa ridere – un cespuglio tagliato male, una banana incastrata in un tasca, una majorette in mezzo alla neve. Adolfas mostra la vita come viene definita da Ramuz: ‘come in una danza, è un gran piacere cominciare, uno stantuffo, un clarinetto, è un gran dolore aver finito, la testa gira e la notte è già arrivata.’” (31)

“Un’idea per ogni inquadratura” è probabilmente riduttivo. In molti momenti non vi è dubbio che ce ne sia più di una alla volta. Il film scoppietta di originalità e utilizzi interessanti dell’iris in entrata e in uscita, fermo-immagine e ritorni all’azione, slow motion e movimenti velocizzati, jump cut e sequenze d’azione volontariamente tremolanti, oltre all’uso abilmente caotico di sottili linee bianche a incorniciare un segmento dell’immagine, che a volte viene utilizzato come cornice per un’ulteriore immagine, per un sobrio effetto comico. Appena Leo finisce di dire “non ho mai visto un orso in vita mia” un orso fa capolino nella piccola cornice alla sua sinistra. Alcune inquadrature presentano senza uno scopo preciso pittogrammi in giapponese o testi in cirillico (ai quali non viene abbinato alcun sottotitolo o traduzione), per il puro piacere della loro bellezza (32).

Per non parlare poi dell’utilizzo di due interpreti per Vera (Sheila Finn e Peggy Steffans), al fine di sottolineare il modo in cui ognuno dei due corteggiatori proietta i propri desideri su di lei, una scelta registica meravigliosamente giocosa e acuta, di quattordici anni precedente all’uso assimilabile che ne fa Buñuel in Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977).
Comunque, uno dei momenti più belli e poetici del film è quello in cui i due ragazzi entrano nel capanno, trasportando entrambi una proboscide di elefante. Una dolce voce maschile comincia a cantare una canzone folk (33), coprendo tutti gli altri suoni, mentre i due inciampano all’interno della casupola e cadono a terra ridendo istericamente. È un breve momento di estasi comica per loro, in chiaro contrasto con la tenera, malinconica canzone in colonna sonora:

My dear, do you know how a long time ago
Two poor little children whose names I don’t know
They were stolen away on a bright summer day
And lost in the woods, I heard people say.

While they wandered all night so sad was their plight,
The sun went down and the moon gave no light,
Well, they wept and they cried , they bitterly sighed,
Then the poor little things, they laid down and died.

Mentre i due ridono e la canzone scorre in sottofondo, l’immagine si sposta sullo spazio di fronte alla casa, dove tre bambini piccoli stanno facendo un girotondo tenendosi le mani. Ma un nuovo improvviso taglio di montaggio li fa scomparire lasciandoci di fronte ad uno spazio vuoto per il resto della canzone. Sono momenti come questo che, attraverso un uso complesso e inventivo del sonoro e del montaggio, combinando risate e lirismo, fanno di I magnifici idioti un’opera di eccezionale poesia.

È innegabile, tuttavia, che il film perde forza nella sua seconda metà. Il difetto più grande, comunque, è probabilmente la musica. Nonostante il talento musicale che pervade la colonna sonora di Meyer Kupferman, alcune parti per flauto e clavicembalo possono risultare eccessivamente eccentriche e animate all’orecchio. È più che altro la strumentazione, piuttosto che le composizioni in sé, che diventa particolarmente noiosa dopo un po’.

Adolfas, in ogni caso, non stava inseguendo la perfezione. Per lui l’energia del film era più importante ed è tuttora lì: I magnifici idioti è indubbiamente un film eccezionalmente divertente, originale e genuinamente emozionante, capace di ispirare futuri pionieri del cinema che riconoscono il valore di saper creare il territorio tra ‘le colline’ (riferimento al titolo originale del film, Hallelujah the Hills, ndt).

L’idea che Jack e Leo possano addirittura rappresentare l’ideale di un nuovo cinema è stata sollevata con grande convinzione da Frédérique Devaux:
“Questi due viaggiatori, in bilico tra pigro dandismo campagnolo e idealismo da cogli l’attimo, possono rappresentare, a modo loro, la metafora di un nuovo cinema, intriso della tradizione di grandi artisti, in cerca delle proprie tracce e, rifiutando di seguire sentieri già battuti, impegnato a creare con ciò che trova lungo la strada, anche a costo di cadere preda a volte del proprio rifiuto di ciò ceh è conforme o precedentemente sperimentato. (34)”

Lungo questa linea di pensiero, il film può essere considerato un modello per il progresso dell’arte in generale e per come dobbiamo fare i conti con i maestri del passato:

“Il film suggerisce che un lavoro assemblato giorno dopo giorno con due soldi è preferibile ad uno che specula sull’aura di qualcosa che appartiene alla nostra memoria collettiva, quei capolavori inarrivabili che non possono più essere utili come standard con cui misurarsi, ma piuttosto come punti di partenza dai quali ognuno, a seconda delle proprie idee e sensibilità, può costruire il proprio percorso. Il film esorta ognuno a creare il proprio territorio, lontano dal cemento dell’America dei grattacieli e dei sogni di potere, all’interno di foreste ancora non toccate dall’onnipotente (34).”

Questa teoria conferirebbe inoltre alle ‘Colline’ del titolo originale un nuovo significato, rendendole un riferimento a quel territorio personale non ancora scalfito da strutture di potere e produzione preesistenti. I magnifici idioti, o meglio Hallelujah the Hills, è quindi, tra le altre cose, una celebrazione del cinema a venire.

4. Un inferno attuale

In una sorprendente svolta stilistica, il successivo progetto dei due fratelli sarebbe stato un regia in coppia basata su una performance del Living Theatre di una pièce di Kenneth Brown. The Brig (1964) è una claustrofobica, infernale rappresentazione di una Prigione del Corpo dei Marine riprodotta su un palco dove tre secondini d’acciaio costringono dieci reclusi a praticare rituali di umiliazione e degradazione. Lungo il corso di una sola giornata, a partire dalla sveglia, lo spettatore in pratica non lascia mai il carcere ed è testimone della progressiva disumanizzazione penale minuto per minuto, fino a che non si spengono le luci. Adolfas si trovava a Chicago per un lavoro di montaggio (35), quando Jonas vide l’ultimo spettacolo in cartellone del dramma di Brown. Jonas ne fu colpito immediatamente e la sua reazione fu l’impulso di trasformare quell’esperienza in un film:

“Sono andato a vedere The Brig a teatro il giorno di chiusura. Ai Beck (Julian e la moglie Judith Malina, fondatore del Living Theatre, ndt) era stato detto di chiudere lo spettacolo e andarsene. La performance, a quel punto, era messa in scena con tanta precisione che si svolgeva con l’inevitabiltà lla vita stessa. Mentre la guardavo ho pensato: supponiamo che questo sia un vero carcere; supponiamo che i sia il reporter di un quotidiano; supponiamo che io abbia ottenuto dagli Stati Uniti il permesso di entrare in una delle loro prigioni  e di filmare quel che vi accade; che incredibile documento sarebbe da portare agli occhi dell’umanità! Il modo in cui The Brig veniva messo in scena, ne faceva un carcere reale, per quanto mi riguardasse. Quest’idea prese possesso della mia mente e dei miei sensi così a fondo che sono dovuto uscire con lo spettacolo ancora in corso. Non volevo sapere nient’altro di quel che succedeva nella pièce; volevo vederlo con la mia macchina da presa. Dovevo farne un film (36).

Non si poteva più avere accesso alla performance, però, perché il fisco chiuse il piccolo auditorium al secondo piano in un palazzo del Greewinch Village dove veniva messo in scena The Brig. La regista Judith Malina e gli attori dovettero così irrompere nottetempo nel loro stesso teatro per poter mostrare a Mekas un’ultima performance del dramma.
Il risultato conserva una rara, cruda ed elettrica intensità: Jonas segue lo spettacolo con la sua camera a mano, proprio a ridosso degli attori, poiché la scelta della posizione della macchina da presa e delle inquadrature era estremamente spontanea e intuiva. Dato che Jonas non conosceva in partenza l’evoluzione della trama, il film acquista una fortissima immediatezza e leggerezza (37).

Quando le riprese furono finite, Jonas consegnò il materiale ad Adolfas dicendo: “Prendi questo materiale e trattalo con disprezzo e crudeltà. Taglia tutto quello che non vale la pena di essere visto; dimenticati dell’esistenza di una pièce teatrale (d’altra parte le odiamo entrambi, le pièce teatrali); fai a me quello ceh io ho fatto a Brown e ai Beck. (38)” E così fece. Il montaggio di Adolfas fu massiccio,  tagliando svariate scende, a volte per il malfunzionamento di due delle tre camere durante le riprese (39), o anche velocizzando fino a 30 fotogrammi al secondo, in alcuni casi a 20. Montando il film, i fratelli si accorsero inoltre che in molte circostanze i frammenti di sonoro distorto erano più efficaci di quelli ‘migliori’.
Quando il film completo fu mostrato all’estero, venne spesso scambiato per un documentario. Molto è stato scritto sul curioso effetto cinema vérité di The Brig. La messa in pratica delle tecniche del “direct cinema” su una pièce-performance, che già di per sé mostrava una forte connotazione documentaria, permise al film di sfatare alcuni miti che circondavano il cinema verità.  In questo senso, The Brig va visto anche come “un saggio di critica cinematografica” (40). In ogni caso, quando il film uscì, la critica fu sia sorpresa che allarmata dalla svolta dei Mekas nello stile e negli argomenti: “i fratelli Mekas non sono più quei poeti gentili che pensavamo fossero: sono due indiani selvaggi intenti a collezionare scalpi. (41)”

5. Twain Junior

The Double Barreled Detective Story (1965) è, tecnicamente, il terzo lungometraggio di Adolfas. Tratto da un romanzo breve di Mark Twain, il film ha come protagonista Hurd Hatfield, nordista che sposa la figlia di una grande proprietario terreno degli Stati del Sud. Maltratta la moglie per vendicarsi sul suocero, arrivando a legarla ad un albero e lasciare che dei cani da caccia le strappino di dosso i vestiti. Il padre muore per lo shock e l’imbarazzo. In seguito, la donna dà alla luce ad un bambino che crescendo diventerà Jeff Siggins, in viaggio per il West per vendicare la madre. Alla fine, in un colpo di scena che vanifica la sete di vendetta, Hatfield viene ucciso da qualcun altro.
Come il testo originale di Mark Twain era una parodia di un romanzo giallo, il film di Adolfas gioca con i codici di genere tipici delle storie di vendetta e in generale sprizza di quella comicità rustica tipica di Twain.

Questo adattamento è solo l’espressione più evidente di una più ampia affinità con Twain, tra gli autori più ammirati da Adolfas. Da lettore famelico di un grande numero di opere di Twain (42), Adolfas probabilmente si rispecchiava non solo nel senso dell’umorismo dello scrittore, ma anche in un suo certo gusto per l’anarchia. È stato affermato (43), ad esempio che Adolfas adorava l’ ‘avviso’ all’inizio di Huckleberry Finn:

AVVISO
Chi cercasse di trovare un senso nella vicenda narrata sarà indagato dalla legge; chi cercasse di trovarvi una morale sarà bandito; chi cercasse di trovarvi una trama sarà fucilato.

PER ORDINE DELL’AUTORE
Via G. G., Capo della Sicurezza

Conoscere il grande amore di Adolfas per Twain rende la difficoltosa storia dell’uscita del film ancora più triste. P. Adams Sitney  sostiene che “lo scellerato rifiuto dello sponsor di fare uscire il film nel 1965 comportò un serio danno alla carriera del regista”, un cineasta che sarebbe stato altresì  “un figlio adottivo di Mark Twain” (44).

Nonostante il fiasco, Adolfas continuò a portare avanti le proprie idee. Ma, dato che trovare finanziamenti per i propri lavori si dimostrava sempre più difficile e laborioso, accettò nel frattempo svariati impieghi come montatore su progetti altrui.

6. Adolfas, il montatore

Goldstein (1964) che fu montato da Adolfas, è un gioiello dimenticato del primo cinema indipendente Americano e il debutto nel lungometraggio di Philip Kaufman (45) (che in seguito scriverà la sceneggiatura de I predatori dell’arca perduta e dirigerà pellicole acclamate come L’invasione degli ultracorpi, Uomini veri, L’insostenibile leggerezza dell’essere e Henry and June). Salutato da Jean Renoir come “il miglior film Americano che abbia visto da vent’anni a questa parte”, questa favola urbana è imperniata attorno ad un vecchio che suscita comportamenti bizzarri in tutti quelli che incontra – una premessa che ha senza dubbio qualcosa di ‘Adolfasiano’.

Forte delle grandi prove attoriali di Ben Carruthers e dell’esperto caratterista Lou Gilbert nei panni del profetico anziano protagonista, Goldstein è allo stesso tempo un esperimento affascinante e un documento culturale, in particolare per il modo in cui utilizza location inusuali di Chicago – una città che all’epoca era sostanzialmente al di fuori della mappa del cinema in quel periodo. Gli ingredienti principali del film, una black comedy molto critica e vagamente ispirata da materiale religioso – la storia del profeta Elia – deve aver convinto subito Adolfas, tanto che qualcuno ha sostenuto che “la sua impronta […] si trova su tutta l’opera. Nonostante l’ambientazione urbana sia opposta a quella del Vermont de I magnifici idioti, l’incedere di quel film riecheggia evidente in questo, facendo scaturire una visione a tratti critica e a tratti imprevedibile dei sognatori e dei cospiratori che compongono una metropoli moderna. (46)”

Pur con lo pseudonimo di George Binkey, Adolfas è stato inoltre accreditato come montatore per svariati b-movies di (s)exploitation di Joe Sarno (come The Love Merchant e Step Out of Your Mind nel 1966) e Allen Savage (Weekend with Strangers, 1971). Anche se queste pellicole offrono poco più di un’attenzione costante ad un “intenso approfondimento psico-sessuale dei personaggi”, a quanto apre Adolfas ha sempre parlato molto bene del suo periodo con Joe Sarno. Addirittura, più avanti, George Binkey sarebbe stato addirittura al centro dell’impegnativo sforzo di portare  termine una monumentale finta autobiografia, intitolota George the Man (47).

Su un registro molto più serio, Compañeras y Compañeros (1970) è un documentario sulla Rivoluzione Cubana e l’unico film diretto da David e Barbara Stone, in collaborazione con Adolfas che si è anche occupato del montaggio. Frutto di un soggiorno di cinque mesi a Cuba, il film documenta le esperienze e le opinioni dei giovani cubani, mentre discutono del loro presente e del loro futuro alla luce della rivoluzione.

7. L’uomo in bianco

Nel 1967 il movimento anti-Vietnam stava per raggiungere il suo apice. In un periodo in cui le atrocità di Guerra e l’ipocrisia ideologica abbondano, era difficile immaginare come la satira potesse fare giustizia all’assurdità politica e ai lampanti interessi economici dietro il massacro in Vietnam. An Interview with the Ambassador from Lapland (1967) riesce, comunque, ad andarci molto vicino: mettendo in luce l’allucinante corsa agli affari e alla produttività celata dietro la macchina da guerra americana con un tono al tempo stesso brillantemente ironico e rivelatorio.

Diretto da Jonas e prodotto da Pola (Chapelle, moglie di Adolfas, ndt), questo corto ci mostra una prova memorabile di Adolfas nei panni di un ambasciatore del Nord Europa, che parla in un’inquadratura fissa di  fronte a una selva di microfoni della ‘grande inefficienza del dipartimento militare statunitense’, suggerendo che dovrebbe essere riorganizzato sul modello dell’impresa privata. Impeccabilmente vestito di bianco, con una sigaretta tra le dita, questo alto, imponente uomo di mezza età sarebbe perfettamente elegante, se non avesse un ché di eccessivamente ‘levigato’, proprio come la sua arringa, che dipinge uno scenario, bè, troppo efficiente per funzionare. Dominique Noguez ha giustamente interpretato questo personaggio di Adolfas come una reincarnazione contemporanea dello Swift di Una modesta proposta, che suggeriva che gli irlandesi allo stremo avrebbero potuto trovare sollievo dai loro problemi economici vendendo i loro come cibo per i ricchi. Il risultato è ben più che divertente: “ Si dovrebbe davvero ammettere che Mekas ha reso gli USA un poco meno odiosi (48).” (Dominique Noguez)

8. Una fuga elegiaca

Windflowers (1968) è una prosecuzione della riflessione di Adolfas contro la guerra. Questa “elegia di un renitente alla leva”, come lui stesso l’ha definita, racconta la storia di un giovane disertore in fuga da sei anni dall’FBI e che vive sotto pseudonimo in una curiosa cittadina. Mentre i Federali si avvicinano sempre di più, prova a fuggire ancora una volta ma viene ucciso dalla polizia, che confonde un ramo che aveva raccolto per una pistola e gli spara. La struttura circolare del film ripete nel finale la sequenza iniziale, col suo volo e la sua tragica fine. Dominique Noguez ha lodato Windflowers per la sua profonda musicalità, paragonandolo ad “una di quelle ballate inglesi del XVIII secolo che ti fanno commuovere.”
Adolfas alterna la scena del volo con altri momenti lirici di felicità passata, immagini lievemente rallentate, che si ripetono come un ritornello. “All’origine di questo riunire tutto e dargli una sfumatura di grigio, c’è la colonna sonora di Mekas, estremamente semplice. In definitiva, Windflowers è un’elegia senza il lamento finale dei violini zingari, senza il secondo movimento del Concerto d’Aranjuez, e nonostante questo significativa. L’altra faccia della Guerra del Vietnam. La testardaggine di un giovane che non dice una parola. Che sta scappando. Che vuole semplicemente vivere. (49)”

9. Il ritorno a casa

Nel 1971, dopo ventisette anni di assenza dal loro paese di origine, Adolfas e Jonas decisero di tornare al proprio suolo natale in Lituania. La dovettero lasciare da giovani, contro la loro volontà. Al tempo del loro ritorno, di nuovo tra le braccia della madre, sono fratelli e amici, che ripercorrono ricordi di infanzia, difficoltà del passato e celebrano questa riunione con banchetti, canzoni e passeggiate lungo i campi dorati delle giornate estive del Nord. L’arco narrativo nascosto di questa odisseica ritorno a casa, in un contesto rurale quasi pre-moderno, per cercare di ritrovare un contatto perduto, era ovviamente l’occasione ideale per un documento filmato e materiale eccezionale per testimoniare come la vita e la famiglia possono a volte essere forti abbastanza da sopravvivere ai peggiori imprevisti. Going Home è il diario filmato di Adolfas su questa esperienza, girato parallelamente a Reminescences of Journey to Lithuania di Jonas e a Journey to Lithuania di Pola Chapelle. Pola, la moglie di Adolfas, si unì ai fratelli in questa avventura e registrò del materiale sonoro con un piccolo registratore a nastro Uher mentre i due fratelli stavano girando. Questi tre film insieme, che spesso trattano gli stessi istanti da differenti punti di vista, costituiscono un corpo d’opera estremamente rivelatorio sia del processo di ripresa di un diario sia del carattere e della sensibilità di ognuno dei registi.

Il film di Adolfas è stato in qualche modo messo in ombra dalle giustamente celebrante Reminiescences del fratello: un intimo e ritmato affresco di ricordi ed impressioni colmo di un lirismo fortemente poetico e di una speciale sensibilità alle frontiere che hanno fino a quel momento separato il mondo moderno da quello antico di cui Jonas è innegabilmente figlio.
Eppure, Going Home non è un’opera cinematografica di minore rilevanza. In qualche modo più umile e diretto nel montaggio e nella composizione, il film di Adolfas è inoltre più legato ad una dinamica di coppia, ricco com’è di scherzi e gag interpretato da e con Pola Chapelle.

Aldilà dei commenti in voice over di Adolfas e Pola, la narrazione di Going Home si basa sui diari che Adolfas teneva da bambino nel villaggio di Semeniskiai e più tardi nel campo di lavoro in Germania. È leggendo questi diari che la sofferenza e le difficoltà emergono in quello che altrimenti sarebbe un film molto leggero e divertente.

“23 Luglio 1944, Elmshorn, Germania. Le immagini corrono, corrono come cavalli. C’è il vento della mia terra, e le canzoni e i campi fioriti. Sì, Luglio! Sono tutti in fiore, i prati. Mi manca il mio paese, la mia Lituania. Se potessi, tornerei a Semeniskiai a piedi. Sono seduto ad una finestra delle baracche. È così deprimente. Vuoto. Nostalgia. Solitudine grande quanto una montagna. Sette libbre di mattoni sul mio petto. I miei occhi sono così pesanti, come erba sotto la rugiada del mattino.”

Uno dei momenti più toccanti è rappresentato da Adolfas che ricorda il suo primo amore, una ragazzina di dodici anni, che venne arrestata insieme alla sua famiglia ebrea, fu portata nei boschi e venne costretta a scavare la propria tomba prima di essere fucilata dagli occupanti. Adolfas non si ricorda il suo nome, ma dedica un muto fermo immagine ad una rosa per lei, un modo semplicissimo ma potente di ricordarne la tragedia. “Ecco una rosa per te, mia piccola bambina senza nome.”

In generale però, Adolfas sembra più a suo agio nel ricordare le difficoltà del passato, mentre il film di Jonas presenta fin dall’inizio una visione del mondo più cupa, specie nella prima parte: “Ti amavano mondo, ma tu ci hai fatto delle cose ignobili!” Quando i fratelli vanno a visitare il luogo dove sorgeva il campo di lavoro di Elmshorn, vicino ad Amburgo, dove hanno vissuto per un anno, Adolfas dei due sembra essere il più estroverso e di buon umore, mentre cammina verso il loro capomastro e cerca le macchine sulle quali lavorava. Jonas, al contrario, ricorda “la panchina dove sono stato picchiato per aver lavorato troppo lentamente e per aver risposto ai richiami”, e in seguito, fuori dalla fabbrica, mentre incespica tra un gruppo di bambini che corrono in giro,  viene riportato indietro ad uno dei momenti più scuri e significativi della loro storia. “Correte, bambini, Correte! Anch’io una volta sono corso via di qui. Ma correva per la mia vita. Spero che non dobbiate mai correre per la vostra vita.”

Anche i finali dei tre film sono molto rivelatori: in Reminiscences Jonas si concentra sulle fiamme che nell’Agosto 1971 hanno distrutto il mercato della frutta di Vienna, il più bello della città secondo Kubelka, che si dice sia stato fatto bruciare dalla città per poterne costruire uno nuovo. Come spiega Jonas nelle sue parole finali, piene di tristezza e di rancore: “Adesso voglio uno mercato moderno!”

Per contrasto, alla fine di Going Home, ritroviamo Adolfas a New York, che sceglie di mostrarci ancora una volta le sue abilità di ballerino nel suo giardino di casa: “Ballerò, ballerò per tutti voi. Ballerò e ballerò al ritmo di una canzone che è stata un successo prima che fosse nata mia madre!”

Going Home pone sotto una luce rivelatoria anche I magnifici idioti, riportandoci alla campagna, ai campi e alla foresta dove Adolfas e Jonas folleggiavano insieme da ragazzi. Torniamo così a visitare i luoghi originali delle esperienze che hanno ispirato gli scherzi e le ragazzate di Jack e Leo in Vermont.

Eppure, nonostante la felicità di essere tornato a casa per riconnettersi con i ricordi del passato, i pranzi, gli amici e la famiglia, sia il film di Adolfas che quello di Jonas conservano un aspetto tragico e silenzioso. Come ricorda Pola Chapelle:
“Una mattina i cinque fratelli Mekas si sono disposti in linea e hanno alsciato che i famigliari misurassero la loro altezza. Mentre osservava la cosa, Mamma Mekas parlò in maniera molto solenne. Adolfas ha tradotto le sue parole per me. Disse: ‘Io e mio marito abbiamo piantato cinque alberi di Betulla. Due erano belli e dritti (Paul e Peter), uno è cresciuto storto (Costas con un moncherino, un regalo della guerra, disse ‘quello sono io’) e due sono caduti’. Quelli caduti erano Jonas e Adolfas. Li considerava persi. Tutto il tempo ceh siamo stati con lei, non ha mai mostrato emozioni. Solo quando ci ha accompagnato all’aeroporto di Vilnius, ho visto delle lacrime nei suoi occchi, mentre Jonas e Adolfas l’abbracciavano. Li amava e li avrebbe persi una seconda volta.”

10. Quando i soldi sono finiti

Going Home, nel senso stretto della parola, è l’ultimo film di Adolfas, fatto che non può che far sorgere la domanda: perché non ha fatto altri film, finendo per essere molto meno prolifico di suo fratello? La risposta è tanto triste quanto semplice: purtroppo non ci è riuscito, o meglio: non gli hanno permesso di farlo. Voglioso di continuare a girare lungometraggi, Adolfas ha scritto numerose sceneggiature, che ha cercato di trasformare in pellicole. Sfortunatamente, l’industria del cinema e il costo generale della produzione stava cambiando in quel periodo: per prodotti anche leggermente più costosi, le strade indipendenti del ‘New American Cinema’ non erano più aperte. Come Adolfas ha detto:

“Tra la la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, i soldi per le produzioni indipendenti erano finiti. Ho cercato di spingere le mie sceneggiature, quelle per i lunghi, ho mosso svariate contatti, agenti, avvocati, e alcune sceneggiature, due in particolare, sono state prese in considerazione dalla Warner Bros. per cinque anni, prima di essere accantonate. Il costo di un lungometraggio all’epoca stava uscendo dalle mie possibilità al tempo. E a me interessava girare lunghi.”

Per nostra fortuna, Adolfas ha deciso di pubblicare i suoi scritti più tardi, inventando in occasione di ognuno una nuova biografia per sé stesso: intrecciatore di vimini del North Dakota, collezionista di funghi o cercatore di opali in Australia (51).
Il fallimento nell’ottenere finanziamenti per i suoi altri, più ambiziosi progetti è stato comunque un colpo molto duro. Comunque, in fin dei conti questo ha avuto l’ottima conseguenza di aver fatto inciampare Adolfas in una carriera completamente differente, per la quale ha rivelato un talento sconosciuto.

11. Gli anni del Bard

È stato P. Adams Sitney a proporre Adolfas per un posto da insegnante al Bard College, e Adolfas accettò, pensando che potesse essere un’occupazione solo temporanea. “Ho detto che sarei stato lì per un semestre, e alla fine ci sono rimasto trentadue anni.” Il Dipartimento di Cinema, appena nato e ancora in prova, tra le sue mani divenne rapidamente “il Dipartimento di Cinema del Popolo”, oltreché un’istituzione “irascibile, anarchica e Dadaista” come lo stesso Adolfas, che dimostro capacità inaspettate nell’insegnamento.

Come ha fatto notare P. Adams Sitney. “la sua personale formazione frammentaria e il suo completo disprezzo per il decoro accademico facevano di lui il professore ideale.” La sua passione per ciò che insegnava rappresentava una forza creativa d’ispirazione per un grande numero di studenti. Registi come Jeff Scher (54) e Andy Galler sono stati particolarmente ispirati da Adolfas nel corso del conseguimento della loro laurea in cinema (55).

Il suo periodo alla Bard, però, è stato anche ricco di conflitti, e Adolfas aveva tanti sostenitori quanti oppositori (56). Il cinema infatti poco si addiceva alla concezione fortemente conservatrice degli studi umanistici del Bard – il cinema era ancora considerato una tecnica, non un’arte – e ci furono di conseguenza diversi tentativi di chiudere il dipartimento, a quanto si disse per i suoi costi eccessivi. Molti anni più tardi, un comitato di valutazione del college arrivò a votare contro il mantenimento della cattedra di Adolfas. Ma l’amministrazione del Bard, con una decisione inusuale, chiese una seconda valutazione, che fu supportata da membri della facoltà più giovani e da un gruppo leale di studenti, col risultato che la cattedra di Adolfas alla fine fu confermata.

Uno degli aspetti più memorabili della sua carriera universitaria fu probabilmente il modo in cui portava un po’ di vita durante i periodi noiosi dell’anno accademico: “Quando il semestre primaverile stava per concludersi, e sul campus del Bard College si abbatteva la pausa tra esami finali  e lauree, Adolfas sfoderava il suo costume da coniglio peloso e gironzolava per il campus vestito da coniglio gigante. Capi Dipartimento, Rettori, Presidenti del college e altri stimati membri dell’ateneo facevano immediatamente finta di non sapere chi fosse, spostando velocemente lo sguardo altrove all’avvicinarsi di quella pelosa apparizione. (57)”

La decisione di ritirarsi nel 2004, a 79 anni, fu molto rivelatorio sul modo in cui la cultura cinematografica e il suo insegnamento stavano cambiando. Incapace di sopportare oltre le giovani matricole dell’alta società, Adolfas Mekas rassegnò le dimissioni, probabilmente perché gli alunni, in molti casi, mancavano di un genuino interesse per la storia del cinema in generale:

“tutte le matricole arrivavano con sei o sette film sotto il braccio, tutti girati in video ovviamente. Ma nessuno di loro aveva mai sentito parlare di Orson Welles, nessuno aveva visto un film più vecchio di cinque anni. Quindi non avevo nulla da insegnarli. Allora ho deciso di ritirarmi.”

“Non hanno idea di cosa sia il cinema. E il Bard College è un’università per ragazzi ricchi, ognuno di loro aveva parenti, cugini, amici, zii nell’industria del cinema. Perlopiù agenti. ‘Oh sì, mio zio fa l’agente. Posso vendergli qualunque sceneggiatura io voglia’. Non hanno la minima idea di quello di cui stanno parlando (58).”

12. Cagate su Brakhage!

La voglia di tornare ad essere un regista tornò ad Adolfas negli ultimi anni, quando accarezzò l’idea di girare un nuovo film in Italia con Giuseppe Zavola e David Avallone (59). Il film doveva essere su Giordano Bruno, l’astronomo italiano dichiarato eretico per le sue teorie è bruciato sul rogo. Adolfas lo definì ‘il primo beatnik’ e chiamò il progetto Burn, Bruno, Burn!
Lucido fino al momento della sua morte, Adolfas nei suoi ultimi anni rimase anche un appassionato osservatore e critico, rivelandosi fortemente critico sulla sterile adorazione a cui erano soggetti alcuni filmmakers della sua generazione. Per lo scimmiottamento non proprio originale che i film di Brakhage suscitavano in molti giovani ammiratori, aveva una sola risposta, fondamentalmente corretta (per come la intendeva lui): “Avanti, cagate su Brakhage!” Preoccupato che l’adorazione potesse produrre solo imitazione (“Basso-Brakhage”) ai registi, giovani o vecchi che fossero, Adolfas chiedeva solo “andate là fuori e siate originali!” Nient’altro. È naturale che la pensasse così considerato il modo in cui aveva gestito la propria ammirazione per i maestri in un film come I Magnifici Idioti. Aveva mostrato un modo in cui citare o addirittura rubare un’intera scena da un altro film riuscendo comunque a fare qualcosa di profondamente personale!

Dopo tutto, l’originalità non è solo una virtù di per sé. Può anche rivelarsi molto utile in circostanze inaspettate. Pip Chodorov ricorda che Adolfas diceva che è importante fare dei buoni film perché l’inferno è una stanza in cui sei costretto a guardare i tuoi film in loop per tutta l’eternità. Per questo è meglio farne di buoni. Se fosse davvero così, Adolfas avrebbe sicuramente da divertirsi laggiù: Alleluja allora! Alleluja l’Inferno!

Si ringraziano in maniera particolare Francesca Betteni-Barnes, Pip Chodorov, Dario Marchiori e Maximilian Le Cain.

NOTE

(1) “Ma era davvero un regista d’avanguardia, com’è stato definito nel necrologio del New York Times” si chiede Ken Jacobs. Bella domanda. La risposta è “Sì”, anche se Adolfas  lo avrebbe negato, com’era naturale per la sua umoristica, modesta eleganza. Nonostante questo, data la notevole creatività formale deI Magnifici Idioti, ad esempio, non c’è dubbio che fosse un regista d’avanguardia. http://www.brooklynrail.org/2011/07/film/adolfas-mekas-1925-2011
(2) Estratto dal film Célébrationts di Dominique Dubosc, 2002.
(3) Per questo e per I seguenti: David E. JAMES, To Free the Cinema: Jonas Mekas & the New York Underground, Princeton University Press, 1992, pp 4-6
(4) In particolare due momenti del suo film Going Home documentano l’amore di Adolfas per il teatro e per la recitazione, in cui legge passi del suo vecchio diario mentre è in vista al suo ex insegnante di teatro: “1 Aprile, 1944. Due attori del nostro teatro sono stati arruolati nell’esercito, compreso il primattore. Ora ho preso il suo posto. Sono il primattore. Mi piace”. “15 Agosto, 1947. Kassel, Germania. Ho preso la mia desione definitiva. Lascio il teatro. Non sono un attore. Non lo sarò mai. Posso solo essere un pessimo attore.”
(5) “Scrivendo gli Idilli di Semeniskiai, Jonas ha usato una combinazione di  Lituano comune, dialetto regionale, alcune parole utilizzate solamente nel villaggio di Semeniskiai, e parole conosciute solamente dai membri della famiglia Mekas. L’uso di molte parole degli Idilli non è più riscontrato nella Lituania di oggi. Negli Idilli di Semeniskiai Jonas si è inventato parole lituane per descrivere il suono della pioggao, del vento, della neve, ecc.   – le nuove parole erano onomatopee dettato dal suono di ogni evento atmosferico. La cosa ha causato diversi problemi di traduzione. Nella traduzione ho mantenuto la struttura peculiar delle frasi, la punteggiatura inusuale, le frasi non concluse, gli improvvisi mutamenti eni tempi verbali o nella prospettiva, e le transizione ingiustificate. Essendo cresciuti insieme, ho condiviso con mio fratello la vita nella fattoria.  Nella mia mente posso rivedere le immagini che Jonas descrive negli Idilli. La fibra azzurra trasformata in lino bianco. La neve e il fiume ghiacciato. Lo squittio delle carrucole del pozzo. Pescare gamberi sul fondo di una notte estiva o starsene sdraiati e insonni nel granaio – ascoltando il grido affilato delle quaglie e dei grillitalpa nei fossi umidi. Cogliere bacche selvatiche nei boschi o sudare arando i roventi campi di grano in estate o raccogliendo patate nella pioggia ghiacciata d’autunno.  O aiutare nostro padre ad uccidere un maiale e poi guardare nostra madre lavorarlo per farne prosciutto, pancetta, salsicce o bollirne le ossa e la cartilagine per farne sapone.”
Dalla prefazione di Adolfas a: Jonas MEKAS, Idylls of Semeniskia, HALLELUJAH EDITIONS, 2007.
(6) Apparentemente, il primo pensiero fu quello di scappare in Israele. “Non erano ebrei” ricorda Pola Chapelle,(futuae moglie di Adolfas, ndt) “ma combattere per una nuova nazione gli sembrava una cosa romantica”.
http://theendstore.blogspot.com/2011/06/adolfas-mekas-1926-2011.html
(7) John PRUITT, A Method to the Madness: An Appreciation of Adolfas Mekas’ Hallelujah the Hills.
(8) “Io e Jonas abbiamo lavorato nel reparto acciaio fabbricando letti pieghevoli, poi mi hanno promosso al dipartimento materassi dove fabbricavo materassi, e  mi hanno fatto caporeraparto. Avevo cinque ragazzi tedeschi sotto di me. Non parlavo tedesco né inglese; non so proprio perché hanno scelto me per fare il caporeparto. Un giorno mi hanno detto una cosa sul sabato seguente, mi hanno suggerito di saltarlo. Ho chiesto ai miei ragazzi di venire il Sabato, perché, bè, se lavori il Sabato ti pagano gli straordinari. Così il capo viene da me e mi dice: ‘non ti avevo detto di saltare Sabato?’ Ma non avevo idea di cosa significasse ‘saltare’! I tedeschi mi adoravano – gli ho fatto pagare gli straordinari!” (citazione da una conversazione con Pip Chodorov)
(9) Stefan GRISSEMAN, Avant to Die, Kolik-Film, 16, 2011
http://www.kinoreal.at/www.kolikfilm.at//sonderheft.php?edition=201116&content=texte&text=1
(10) DANTE A. CIAMPAGLIA, dagli archivi: intervista ad Adolfas Mekas, archiviata 03 Giugno 2011
http://www.crazedheat.com/?p=624
(11) Idem
(12) Bruce WEBER, “Adolfas Mekas, Avant-Garde Filmmaker and Teacher, Is Dead at 85”, NY Times, 2 Giugno, 2011
(13) Leon BOLSTEIN, “Adolfas Mekas (1925-2011)”, Bard Annandale Online, 1 Giugno, 2011
http://annandaleonline.org/s/990/public.aspx?sid=990&gid=1&pgid=828
(14) Anthology Film Archives Film Program, Volume 41 No. 4, Ottobre-Dicembre, 2011
(15) Robert BENAYOUN, Dupont-Jonas et Dupond-Adolfas, l’Avant-Scène Hallelujah les Collines, n°64, p. 7
(16) Frédérique DEVAUX, Hallelujah the Hills – a small essay on a Playful Improvisation, Re:Voir, p.16 (Libretto pubblicato con l’edizione dvd di I magnifici idioti).
(17) Da un’intervista televisiva a CAMERA THREE riguardo al primo New York Film Festival. Disponibile nella sezione extra dell’ HTH-DVD pubblicato da Re:Voir
(18) Emshwiller è stato un fumettista di strisce fantascientifiche conosciuto negli anni ’50 come “Emsh”, prima di diventare lui stesso un cameraman e filmmmaker professionista (Dance Chromatic, 1959, Thanatopsis, 1960 -62). Secondo Jonas è stato “l’artigiano e lo scienziato del cinema d’avanguardia”, ossessionato dai movimenti di macchina a tal punto da voler “diventare una macchina da presa lui stesso”. The Walden Book, Re:Voir / Paris Experimental, p. 60. Pubblicato insieme a Walden da Jonas Mekas.
(19) A causa del soffitto basso della location, delle numerose colonne e delle molte inquadrature dall’alto, la scena ricorda vagamente la sequenza della danza in Quarto Potere. L’Avant-Scène Hallelujah les Collines, no°64, p. 22
(20) Un cugino di Peter Beard in realtà, regista (Peacock Feathers) e fondatore dell’ Anthology Film Archiv .  Inoltre è stato il soggetto di Notes for Jerome, film-elegia del 1978 di Jonas.
(21) Tuttora una delle figure più eclettiche della scena Undergorund di New York, “ una specie di Stanlio dell’underground” (Frederique Devaux). Andy Warhol ha notoriamente filmato il suo fondoschiena in Taylor Mead’s Ass (1964) ma Mead è presente in molti altri film di Warhol e di altri registi indipendenti come Ron Rice (The Queen of Sheba Meets the Atom Man) e Gregory markopoulos (The Illiac Passion). Comunque, Mead ha anche girato un proprio film personal, Eurpean Diaries (1964), un film proiettato raramente ma di grande influenza. “ Dopo aver visto i diari di Taylor Mead non posso più guardarmi intorno. Ci sono troppe robe da vedere! Così adesso mi siedo con la natura alle spalle, come Gertrude Stein.” (Julian Beck, the Living Thatre, Paris).
(22) John PRUITT, op.cit.
(23) idem
(24) Frederique DEVAUX, op.cit.
(25) Questo amore per la natura era condiviso ovviamente da Jonas ma anche da PeterBeard, famoso per il suo lavoro di fotografo in Africa e per il quale Walden era un libro essenziale. In effetti, fu proprio Peter Beard a dare a Jonas una copia di Walden sul set di I magnifici Idioti. Scott MacDonald, A critical cinema, University of California Press, Berkeley, 1992, p. 105.
(26) L’Avant-Scene, n°64, HALLELUJAH LES COLLINES, p. 10.
(27) Una canzone tradizionale conosciuta come “Bambini nel bosco” o “Persi nel bosco”.
(28) John PRUITT, op.cit.
(29) In una delle scene nella foresta, Jack e Leo si sfidano in una sorta di finta lotta in stile samurai, urlandosi addosso parole in giapponese che non sono altro che nomi di grandi registi, film e attori giapponesi. “Yojimbo!…Kurosawa!….Ozu!….Ohio!….Mizoguchi!…Toshiro Mifune!….Tokio…”
(30) E’ anche quell ache mostra in maniera più lampante come il personaggio di Beard sia basato in maniera ironica proprio sulle sue avventure come fotografo in Africa. In altre scene appare improvvisamente con in mano una proboscide di elefante oppure dice a Vera: “devo disseppellire ossa in Mozambico”!
(31) Jean-Luc Godard in  Jean-Luc Godard, volume 1, Cahiers du Cinéma, 1998, p. 251
« A cote des deux grands de l’école de New York, la Clarke et le Cassavetes, il faisait un peu figure de parent pauvre, d’autant plus qu’on ne savait pas si c’était lui ou son frère. Hallelujah démontre aujourd’hui par y + z qu’il faut compter avec le mec Adolphe, car c’est un as dans le domaine de l’invention pure, c’est-a-dire dans le travail sans filet. Tournées suivant le bon vieux principe d’une idée par plan, ses Collines embaument de fraîche ingénuité et de gentillesse rusée. L’effort physique y côtoie hardiment le gag intellectuel. On s’émeut et rit d’un rien : un buisson mal cadré, une banane dans la poche, une majorette dans la neige. »
(32) “Non sembra ci sia ulteriore giustificazione, digetica, artistica o di altro genere, per aver abbellito determinate inquadrature e non altre con i pittogrammi giapponesi o i caratteri cirillici. Non che paia che l’autore abbia pensato alla cosa in precedenza, ma questi vezzi compaiono senza imporsi, manifestazione sottile di un artista risvegliato che decentra o concentra l’attenzione dello spettatore come preferisce, per il puro piacere di evidenziare. Ci invita discreamente a condividere il piacere di questo ingegnoso effetto senza che questo sia immediatamente preda di un motivo per essere lì.” DEVAUX, op.cit, p. 19
(33) La gia menzionata “Bambini nel bosco” .
(34) DEVAUX, op.cit., p. 8
(35) Goldstein di Philip Kaufman e Benjamin Manaster.
(36) Jonas MEKAS, Movie Journal, MacMillan; 1st Collier Bks. Ed., edizione 1972
(37) Quest’effetto dev’essere stato difficile da ottenere, tenuto conto che Jonas doveva portare in giro la macchina da presa, il microfono e le batterie, quaranta chili totali, perchè il palco non concedeva spazio sufficiente per un’altra persona della troupe.
(38) Idem.
(39) Jonas utilizzò tre camere Auricon 16mm per girare  (con un sistema che premise di registrare il suono direttamente su pellicola) e dovette cambiare macchina ogni 10 minuti perché questo era la durata della batterie. Cf. Jonas Mekas op. cit.
(40) Jonas Mekas, op.cit.
(41) Cahiers du Cinéma
(42) “C’è qualche indizio su quanto fosse profonda la lettura di Mekas quando si considera che questo suo secondo lungometraggio …   è stata adattato … da un racconto … così poco conosciuto che l’antologia da mille pagine su Twain posseduta dalla Library of America non lo include.” John PRUITT, op.cit.
(43) idem
(44) http://www.brooklynrail.org/2011/07/film/adolfas-mekas-1925-2011
(45) Goldstein fu co-scritto e co-diretto da Benjamin Manaster.
(46) Daniel GUZMAN, Thoughts on the Adolfas Mekas Retrospective, Cinespect, 22 Ottobre, 2011
(47) Frances SANDIFORD, Adolfas Mekas, People’s Film Dept.
http://www.abouttown.us/dutchess/articles/fall09/adolfasmekas.shtml
(48) Dominique NOGUEZ, Cahiers du Cinéma.
(49) Cahiers du Cinéma.
(50) Dante A. CIAMPAGLIA, op.cit.
(51) I Titoli sono: “The Father, the Son and the Holy Cow”, “Nailing the Coffin”. “And When the Turtles collapse”, tutti pubblicati da HALLELUJAH EDITIONS.
(52) Dante A. CIAMPAGLIA, op.cit.
(53 )http://www.brooklynrail.org/2011/07/film/adolfas-mekas-1925-2011
(54) ‘A far l’amore col Rotoscopio, Jeff Scher è il migliore al mondo, mamma.’ Adolfas Mekas          
http://www.cosmicbaseball.com/amekas05.html
(55) idem
(56) Frances SANDIFORD, Adolfas Mekas, People’s Film Dept.
http://www.abouttown.us/dutchess/articles/fall09/adolfasmekas.shtml
(57) Joel SCHLEMOWITZ
http://www.brooklynrail.org/2011/07/film/adolfas-mekas-1925-2011
(58) Dante A. CIAMPAGLIA, From the Archives: Adolfas Mekas Interview,03 Giugno 2011
http://www.crazedheat.com/?p=624
(59) ‘Accarezzare l’idea’ però, potrebbe essere diminutivo. Secondo Pip Chodorov, Adolfas ha in effetti scritto e riscritto una sceneggiatura complete, trovato metà dei finanziamenti e visionato alcune location in Italia.

Pubblicato originariamente in Experimental Conversations
(Traduzione di Alfonso Mastrantonio)

HALLELUJA THE HILLS, regia di Adolfas Mekas, USA 1963, 82′ (Re:voir)