Un bambino viene sottoposto a una risonanza magnetica mentre la madre gli resta accanto in pensosa attesa. Il realismo della sequenza ospedaliera è messo in crisi dal dettaglio dell’occhio della donna, che vaga oltre le pareti bianche, e dal confondersi dei suoni feroci del macchinario con le note di un pezzo punk rock. Cosa c’è stato prima?
Una festa, un ragazzo, una ragazza e una musica eversiva a infiammare il desiderio dei due. «Io sono Roméo» dice lui sorridendo; lei pensa subito a uno scherzo, perchè il suo nome è Juliette. Prima che il destino terribile già inscritto nei due nomi si compia, la vita concede alla coppia di amarsi per un tempo indefinito come in un film di François Truffaut. Sempre di corsa, colti in travelling, Roméo e Juliette si inseguono e ridono della vita in un parco, per strada, al luna park, accompagnati dalle note festose di Georges Delerue. Il loro movimento è diretto verso un nuovo evento straordinario – il secondo dopo il colpo di fulmine, presentato attraverso alcuni fotogrammi di un film scientifico di Jean Painlevé sulla cristallizzazione dello zucchero -, la nascita di un figlio, preceduta non dalla rappresentazione dell’atto sessuale, ma da un’inquadratura su L’origine du monde di Gustave Courbet. Al bambino viene dato il nome di Adam, come il primo tra gli uomini, essere prezioso di cui non solo la coppia ma anche lo spettatore è chiamato a prendersi cura.

La musicalità iniziale lascia il posto a notti in bianco e alle urla del piccolo, fino all’irrompere nella pace familiare di un attacco esterno  inaspettato quanto inevitabile: un tumore al cervello ha colpito Adam. Le diagnosi si susseguono incomprensibili e Roméo e Juliette si fissano delle regole di condotta per resistere senza soccombere al nemico che ancora non ha nome. Quello che segue non è la cronaca di una guarigione nè un classico feel-good movie, nonostante l’ottimismo di fondo. Valérie Donzelli costruisce invece un racconto semplice quanto spiazzante, soprattutto per la scelta di spostare nettamente il baricentro della sua opera dal figlio malato alla coppia e dalle figure monodimensionali di due genitori a quelle di due personaggi a tutto tondo, con una loro storia e una necessità egoistica ma incredibilmente onesta di continuare a vivere nonostante il senso di impotenza. Roméo e Juliette decidono di entrare in guerra per non ridursi a vittime passive di una contingenza, trasformando la disgrazia in una forma di elezione, come se il loro incontro fosse stato destinato al superamento di questa prova.

Se la corsa è uno dei motivi ricorrenti del film, La guerra è dichiarata dà l’impressione di un’opera in continuo movimento, partecipe della fuga dei personaggi dalla paralisi del dolore. Come anticipato dalla locandina che ritrae i protagonisti a bordo di una giostra, il film intraprende percorsi altalenanti, ponendo a capo dello sviluppo narrativo il principio di rottura: la regista osa senza sosta attraverso tagli netti e fratture, momenti di saturazione visiva e sonora, sconvolgimenti della sintassi filmica. La macchina da presa non si posa mai dove ci aspetteremmo, così come gli spunti comici sembrano generarsi dai contesti meno opportuni. Sdraiati nella camera d’ospedale alla vigilia dell’operazione di Adam, Juliette e Roméo immaginano il peggio; per esorcizzarlo, si confidano le loro paure più segrete. Temono che Adam possa diventare nell’ordine: sordo, muto, cieco, nero, gay e, per finire, sostenitore del Fronte Nazionale. L’umorismo può germogliare anche da dettagli come il titolo di un giornale, un brano della cantante yé-yé Jacqueline Taïeb o il telefono giocattolo che la pediatra scambia per vero. La leggerezza non è tuttavia una posa e la profondità del racconto, così come la sua dimensione tragica, non viene mai negata. L’inventiva irrefrenabile della messa in scena diventa semmai un’arma ulteriore per contrastare la malattia.

La libertà formale a cui la Donzelli tende con questo suo secondo lungometraggio (il primo, La reine des pommes, era stato presentato al Festival Internazionale del Film Locarno nel 2009) è anche una maniera di ricongiungersi alla Nouvelle Vague francese, omaggiata in un intreccio di citazioni mai pedisseque, ma adattate creativamente alle esigenze narrative. Da Jacques Demy, la Donzelli mutua l’utilizzo della canzone come forma di dialogo tra personaggi e il gusto per il meraviglioso (ad esempio nella scena in cui i bicchieri e la bottiglia di champagne appaiono magicamente al battere delle mani dei protagonisti). Da Jean-Luc Godard trae ispirazione per la dimensione ludica del film, con i giochi di parole e i riferimenti a Shakespeare e a Courbet. A Truffaut la regista “ruba” invece il ricorso all’iris e la voce off letteraria, che come in Jules et Jim scandisce le fasi della storia d’amore.

La scelta di effettuare le riprese con un’apparecchiatura ultraleggera (una fotocamera digitale Canon 5D), una troupe ridotta e luce naturale, se da un lato è un ulteriore rimando alla pratica cinematografica dei maestri della Nouvelle Vague, dall’altro ha risposto all’esigenza di girare in un vero ospedale senza arrecare disturbo a degenti e personale. L’ancoraggio documentaristico, visivo e sonoro, allo spazio ospedaliero marca la volontà di restituire l’autenticità di un’esperienza che Valérie Donzelli ha realmente vissuto insieme al coprotagonista e sceneggiatore Jérémie Elkaïm. L’autobiografismo, esplicitato in realtà solo nella dedica finale “… Ai medici, agli infermieri e all’ospedale pubblico”, per lo spettatore rappresenta un potente incentivo a empatizzare con i due protagonisti e a legittimare le scelte della regista. Va però riconosciuto che Valérie Donzelli, pur raccontando un aspetto doloroso della sua esistenza, non utilizza la dimensione personale per rivelare la propria intimità, ma per trascenderla in uno sguardo e quindi in cinema, in una forma poetica che risulta universale, così come universali sono i nomi di Roméo, Juliette e Adam e le esperienze di un colpo di fulmine o di una nascita. Affrancandosi dai confini di genere e dal puro autobiografismo, la regista arriva a rappresentare la vita liberata nello stato in cui questa può contemplare le più crudeli abiezioni accanto alla più vibrante bellezza. La guerra è dichiarata si rivela così un tourbillon de la vie caotico, discontinuo, fitto di riferimenti popolari e intellettuali, che guarda al passato senza precludersi la possibilità di creare il nuovo: un piccolo pezzo di cinema che ha del miracoloso, come la stessa guarigione del nostro Adam.

La guerra è dichiarata (La guerre est déclarée) regia di Valérie Donzelli, Francia 2011, 100′.