Un grande racconto fotografico: la staticità delle Alpi è continuamente rimodellata, ripensata, ri-progettata, ricostruita. Ciò che non cambia mai è l’immaginario, sempre il medesimo nel corso nel tempo. Ad occuparsene in un progetto, durato diversi anni, è il fotografo Armin Linke: Alps è stato presentato al FilmForum di Gorizia (20-29 marzo) dove l’artista ha partecipato a diversi incontri pubblici dedicati al “post-cinema”.

Quando hai iniziato a pensare a realizzare un progetto cinematografico sulle Alpi?

È stata una sfida con Piero Zanini, che poi ha collaborato al progetto iniziale: ci interessava capire come riuscire a rappresentare il paesaggio alpino in modo contemporaneo. Stavo lavorando in varie parti del mondo come fotografo, cercando di capire come inquadrare i grandi cambiamenti infrastrutturali del paesaggio. Piero mi ha fatto notare che infondo prendevo l’aereo per cogliere questo cambiamento in giro per il mondo, ma le stesse trasformazioni ci sono anche qui, a 60 km da Milano, dove io abitavo all’epoca. Perciò ci sembrava una bella sfida rappresentarle in modo nuovo, in modo contemporaneo. Le riprese si sono svolte dalla Francia alla Slovenia, 8 nazioni. L’idea era trasformare la camera in google earth (anche se ai tempi in cui ho iniziato non esisteva ancora) che naviga senza però dirti dove sei, l’idea era connettere questi luoghi assieme. Forse è questo il punto interessante del film: è molto fisico ma parla già di queste trasformazioni della percezione. Il montaggio è stato un momento difficile: non mi era chiaro con quale formula mettere insieme le mie immagini. Perciò è stato utile lavorare con Giuseppe Ielasi, che è un musicista: in qualche modo il montaggio è stato fatto sul suono e non sulle immagini. Appena il pubblico intuisce le nostre intenzioni, capisce di cosa si tratta, volevamo spiazzarlo e portarlo in un altro posto senza però dirgli che era in un altro posto. L’idea era che il pubblico dovesse continuamente interrogarsi e ri-programmarsi su quale sia la rappresentazione che gli viene offerta e se quella rappresentazione corrisponda al proprio immaginario.

La pellicola è una scelta eccentrica e rara nel documentario contemporaneo. Era una scelta a priori?

Avendo iniziato sette anni fa, quando non c’era ancora l’Hd video, detto oggi sembra una cosa assurda… Ripensandoci, fare un progetto così in pellicola è una follia, ma volevo lavorare in pellicola perché tutta la rappresentazione alpina è legata alla staticità, mentre io volevo riuscire a raccontare il movimento, la non staticità. Per togliere un po’ di pesantezza. Nel corso del tempo ho utilizzato la pellicola Vision 500 della Kodak di prima, seconda e terza categoria, quindi anche l’analogico cambia molto nel corso di soli sette anni. Tutto il film è stato girato con lo stesso obiettivo, 50 mm. Nel film non c’è mai una visione paesaggistica delle Alpi, tutto è sempre molto claustrofobico, senza orizzonti. Nel film ho scelto di riprendere rappresentazioni di altri paesaggi fittizi (plastici, modellini eccetera): questo crea un’idea barocca, come se ci fossero delle quinte una dietro l’altra, una sorta di compressione dell’immagine.

Quali sono i fotografi che ti hanno influenzato?

Luigi Ghirri è molto presente nelle mie scelte e poi sono molto affascinato dalla scuola tedesca di Bernd e Hilla Becher. Essendo io italo-tedesco sono un mix di queste influenze.

Nel film c’è un attraversamento di diverse nazionalità: come ti sei confrontato con l’idea di frontiera?

Non è un film legato all’Italia e i suoi confini. Non ci interessava raccontare le Alpi in senso nazionalistico: l’inizio del film, è volutamente il tentativo di cambiare il punto prospettico, di de-localizzare l’entrata e da lì iniziare un viaggio senza semplici punti di riferimento.

La prima immagine che si associa alle Alpi è ovviamente un’immagine bucolica, di purezza e di natura.

Il film cerca di mostrare la contraddizione di questi stereotipi. Poi il pastore che si vede nel film, dimostra quanto il futuro sia necessario. Per me è importante che ci sia il pastore perché definisce il film, come un film anti-ecologista. Lui dice: “Io ho settant’anni, sono rimasto qua con le pecore perché  dovevo curare mia madre. Mio fratello è andato in Francia a lavorare nell’industria e io sono rimasto fregato, sono qua da solo in mezzo alla natura ed è terribile,  tragico”.

Vedendo il film si percepisce un senso di obsolescenza della modernità.

Molti luoghi sono legati a un’idea di futuro che è già sorpassata. Il bunker della Seconda guerra mondiale che poi viene risistemato per la Guerra fredda, che poi essendo troppo grande (troppo costoso per i militari) viene subaffittato alla polizia che costruisce una finta città, poi lo subaffitta alla polizia canadese ecc. Questo, come tanti altri, sono segnali che i luoghi non funzionano più per come erano stati pensati. Devono essere riadattati. A un certo punto mostro la copertura con un telo di un ghiacciaio: non è un operazione ecologica per salvare il ghiacciaio, è finanziato dall’industria turistica in modo che quando si scende dalla funivia si può sciare e non si scivola per due metri sul ghiaccio rischiando di cadere in possibili fratture. Inoltre la funivia è costruita nel permafrost e non si deve rischiare che si sposti, incastrata come è nel ghiacciaio. Se il ghiacciaio si scioglie, cadrà la funivia provocando un disastro. Il film cerca di mostrare queste infrastrutture, che sono state pensate in un determinato periodo e sono già state superate.

Al centro di un progetto che ha implicazioni geografiche, politiche, sociali, sembra che il tuo filo conduttore sia stato però la funzione dell’immaginario nella nostra percezione di un luogo.

Il cuore del progetto sono le Alpi, ma potrebbe essere qualunque luogo del mondo che ha dietro di sé una forte costruzione culturale, o che è comunque legata a un sistema di immagini già date che servono da come immaginario al quale ognuno è immediatamente rimandato. Mi interessava mettere insieme Segantini e Ski Dubai. Il quadro di Segantini, che vediamo nel film, è in realtà parte di un trittico: un progetto che l’artista stava preparando per l’expo di Parigi del 1896, una specie di panottico, di protocinema, nel quale voleva avere i suoni, l’erba vera, gli odori, l’acqua… Tutto il progetto doveva essere sponsorizzato dall’industria alberghiera, poi il Comune di Pontresina si è tirato indietro, tutto il finanziamento è crollato.  Infondo è la stessa operazione di Ski Dubai: serve per attirare i clienti dell’albergo, e ricrea in un ambiente artificiale e chiuso, le piste da sci, il cielo, la neve, il paesaggio. Sono dei meccanismi che si ripetono a distanza di un secolo. Non c’è molta differenza.

Secondo me sì.

(risate) Le Alpi sono un luogo così geograficamente estremo che costringe continuamente ad inventare nuove strategie, l’immaginario di base è però sempre lo stesso. Ci sono però dei cortocircuiti tra le immagini di base e le nuove strategie infrastrutturali. Però anche portare tremila pecore sopra un ghiacciaio (e si fa dal 1600) è comunque un’azione fortemente artificiale, pur facendo parte di una tradizione, nel nostro immaginario bucolico. Potremmo dire che il centro del mio progetto è l’antropizzazione, l’uso che l’uomo fa delle Alpi, è sempre esistita. Ciò su qui dovremmo interrogarci è il modo in cui vogliamo farlo. Bisogna però imparare a guardare le cose fuori dagli schemi. Con un altro filtro, e credo che di fondo sia questa l’intenzione del film.