Un uomo, una donna, un bambino, un pianeta con i suoi sassi, le piante, l'acqua, il lontano Sole, i piccoli resti di una civiltà ormai scomparsa. Sono queste le componenti di Archeo, terzo film del regista sloveno Jan Cvitkovič, che dopo aver vinto il leone del futuro a Venezia con Kruh in mleko (Pane e latte), ha fatto incetta di premi anche con il suo film successivo, Odgrobadogroba (Datombaintomba). Mentre il primo seguiva la storia lenta e tragica di un piccolo nucleo familiare a Tolmin, città natale del regista, nel successivo Cvitkovič affronta le piccole relazioni che si intessono in un silente paesino del Carso, a ridosso dell'indipendenza slovena. I toni sono in perenne bilico tra tragedia e commedia, anche se è quest'ultima a far da padrona, in un atmosfera decisamente balcan, ma più intima, lontana dagli eccessi barocchi di Kusturica. Nel finale però, il film acquista un ritmo, un tono completamente diverso: i dialoghi spariscono e le piccole incrinature del tranquillo villaggio, si tingono di rosso, non si scherza più, il gioco è finito lasciando il proscenio alla tragedia. Anche se distanti da un'estetica comune, i due film procedono secondo una struttura classica; tutt'altra cosa succede in Archeo
 
Dopo un lungo silenzio, durante il quale il regista ha fatto anche ipnoterapia, Cvitkovič, ritorna ai suoi temi cari, la famiglia, il dolore, una certa necessità per urgenze verticali, il tutto immerso in un Carso lussureggiante. Questa volta però abbandona qualsiasi cinismo, qualsiasi volontà critica nei confronti della realtà esistente e mette le basi per un suo mondo, completamente autonomo e autosufficiente.  La trama è quasi inesistente: tre presone dopo alterne vicende si congiungono fino a diventare famiglia. Un uomo rozzo, una donna fredda e bellissima e un bambino speciale. Tutti alternativamente forti e deboli. Il bambino, seppur prendendo le sembianze di un mago immaginario, ha bisogno della protezione degli adulti, la donna indica la vera strada, l'uomo si redime. Di fatto è quasi difficile parlare di film. Non c'è più una ricerca nell'archeologia del sapere, ma solo in quella del sentire. Si procede per azioni, gesti semplici e concreti. Nel film non c'è musica, solo rumori che oltrepassano la loro materialità: non si cerca di spiegare il mondo ma di re-imparare ad emettere un suono, crearlo. I personaggi sono spesso intenti a vedere l'effetto che fa la loro stessa voce, il battere una pietra, lasciarsi trasportare dalla corrente dell'acqua, abbandonare la volontà, quella della logica, e lasciarsi fluire tra le cose.
 
In tutto ciò non c'è però nulla di new age, nulla che cerchi di vedere una realtà altra, idilliaca. Il film (se così si può chiamare), cerca invece nella maniera più seria possibile di investigare un percorso alternativo, altro, rispetto a quello che stiamo vivendo. Perciò anche la necessità di un ambiente assolutamente chiuso, un laboratorio di poesia dove si sperimenta sugli esseri che cercano nuovamente di trovare un terreno comune, di sentire la necessità dell'altro, di reinventare un linguaggio muto che faccia loro intendere oltrepassando le pastoie di una parola che è ormai il regno della menzogna, del virtuale. 
In questo percorso il ruolo determinante lo intrattiene la natura, non solo come scrigno di bellezza, ma intesa anche o soprattutto come cassaforte concreta di un passato così profondo che esce dalla storia è diventa ancestrale. Una natura nella quale si annida anche il male, che non si cerca di eludere, sconfiggere, ma semplicemente di affrontare, superando le paure. Un costante avvicinarsi e ferirsi. 
 
Per vedere l'opera, o meglio per poterne essere trasportati, bisogna necessariamente spegnere l'interruttore della ragione. Il film è lontano dall'attualità della crisi, dai problemi politici e sociali di oggi. Mentre però tutti millantano un bisogno di un nuovo inizio, rimanendo attaccati all'attualità come alla gonnella della mamma, il film di Cvitkovič osa guardare oltre. Dopo più di un secolo in cui l'arte, come anche la filosofia, non hanno fatto altro che decostruire, parcellizzare le cose, forse c'è una necessità di riscoprire ciò che unisce le cose. Siamo però lontani da un film come A Tree of Life, che il regista comunque dice di non aver visto (Cvitkovič non è un cinefilo, prima di fare film ha fatto per dieci anni l'archeologo): l'ascesa qui non proviene dall'alto, da un altro mondo, ma dalla polvere stessa, dalla carne, dal suono e dalle azioni. Il mondo non è manicheamente diviso tra apparizioni di grazia e malefici ostacoli, ma visto nella sua concretezza, come un quarto attore con il quale i tre personaggi devono saper intessere un rapporto, saper interagire e ascoltare. Si ritrova così il primato della poetica sulla politica. In un'epoca iperconnessa, forse bisognerebbe ridefinire il concetto stesso di socialità, di comunità e riscoprire in certa asocialità la nuce dal quale poter intessere rapporti nuovi.
 
Archeo, regia di Jan Cvitkovič, Slovenia/Italia/Ungheria 2011, 72'.