Fulmini e saette sui cieli del Texas. Come scaraventati in medias res, ci si immerge nella notte elettrica che sovrasta praterie e sobborghi polverosi pronti alla pioggia rancida della tempesta. Uno scenario shakespeariano che anticipa cupezze d’animo e cifre stilistiche noir. 

L’incipit di Killer Joe di William Friedkin funziona come una specie di presagio: la meteorologia è il primo indizio della tragedia, mentre il blu profondo reso traslucido dal digitale è la più metallica sfumatura del nero. Nei dintorni di Dallas, in contesto puramente white trash (sottocultura del proletariato bianco), Emile Hirsch coinvolge il padre Thomas Haden Church nel piano per ammazzare la madre, così da far intascare alla figlia e sorella minore Juno Temple il premio dell’assicurazione. Per l’omicidio viene assoldato uno sbirro, il killer Joe del titolo interpretato da Matthew McConaughey, che per arrotondare uccide su commissione. Non potendo essere pagato in anticipo, l’uomo accetta dietro cauzione. La cauzione è la fanciullina, ancora vergine, sacrificata sull’altare del dinero. La matrigna Gina Gershon non sta alla finestra, e il piano va come di solito vanno queste cose, quando troppo alta è la fiamma del peccato.
 
Killer Joe è in origine un testo teatrale di Tracy Letts, come già Bug, il precedente film di Friedkin. Drammaturgo e regista si sono conosciuti a Chicago grazie all’attore Michael Shannon, con il quale Letts aveva fondato una compagnia teatrale, e hanno poi cominciato una collaborazione che dura nel tempo. Nella versione per palcoscenico del testo, Shannon interpretava il ruolo che qui è di Hirsch, mentre Scott Glenn era il truce killer Joe. Dove siamo? Di che tipo di film parliamo? Quale la matrice di un filone, quello appunto considerato white trash, che ha autori (cinematografici, letterali, musicali) di riferimento ed è piuttosto ignorato dalle nostre parti? Tralasciando Jim Thompson, che è anche e soprattutto altro, lo scrittore più rappresentativo del WT si chiama Harry Crews, è stato anche tradotto in Italia da Meridiano Zero senza ottenere alcun successo. Peccato: il suo primo romanzo, La fiera dei serpenti, è strepitoso. Anche in quel caso, al centro della scena, padri e figli devastati e/o alcolizzati, lunghi caravan utilizzati come abitazioni, pick up al posto delle antiche diligenze. Junk food e birra per riempire lo stomaco, junk tv come unica finestra sul mondo, mentre la violenza è il linguaggio con il quale si spera di “risolvere” la realtà. Forse ricorderete Crews all’inizio di Lupo solitario di Sean Penn: è il vecchio che canta e minaccia Dave Morse alla stazione di polizia. Modello letterario numero due il texano Joe R. Lansdale, il quale mescola white trash, noir e pulp per creare una combinazione non estranea al testo di Letts e alla trasposizione di Friedkin. Rispetto alla tragicità senza scampo di Crews, infatti, Lansdale introduce un registro grottesco, tipicamente pulp appunto, che a volte sottrae rigore all’affresco.
 
Non è il caso di Killer Joe, dove si va sopra le righe per esasperare i meccanismi narrativi e far saltare in aria, facendo più rumore, i parametri canonici delle istituzioni sociali. Quella poliziesca: il miglior detective è un sicario. Quella criminale: il gangster più feroce ha modi affabili. Quella familiare: si sogna di uccidere la madre, si odia la matrigna, si tiene fermo il figlio mentre gli spaccano la testa, si offre la sorella in pasto all’orco. Certi critici, per l’irritazione che si scatena al solo sentire la parola pulp, hanno storto il naso di fronte alla fiera di crudeltà e alla apparente misoginia (va detto però che il personaggio coccolato da Friedkin è la ragazzina, figura certamente fiabesca, mentre gli altri, uomini e donne, sono al centro del carnage con equanimità di trattamento). Denotano tutti una scarsa familiarità con il filone (il pulp, come spiegato, non è un genere bensì un tono). Il white trash è elaborazione antropologica, sguardo apocalittico sulla dimensione postumana, dove si equivalgono diverse tipologie di carne (Lucidi corpi è il titolo del secondo libro di Crews tradotto in Italia), senza soluzione di continuità tra quella organica di uomo o donna e il pollo fritto. La scena della fellatio del kentucky fried chicken, filmata da Friedkin con furore contagioso, è allegoria del fetido legame tra corpi senz’anima, dominati dagli appetiti più feroci e primitivi, o appetitosi essi stessi. Killer Joe si pone nei confronti del WT come riflessione più estrema, diremmo definitiva, perché appunto non si salva nessuno (a partire dalla coscia di pollo).
 
Killer Joe, regia di William Friedkin, Usa 2012, 102'.