La fille de nulle part. Un titolo, un enunciazione. Nel suo senso letterale: annuncia quel che il film racconta e la sua significazione. E nel suo senso allegorico: mistico-religioso, o più genericamente metafisico. Ma senza alcuna magniloquenza, con estrema semplicità. Un gioco artigianale, come una cena o una seduta spiritica tra amici. Ma proprio per questa semplicità, per questo pudore gentile, capace di trasmettere tutta la serietà, la gravità, a tratti perfino la solennità di epoche ormai perdute. 
 
Un ragazza – una fanciulla, si sarebbe detto un tempo – giunta da nessun luogo. E da ogni luogo. Sarebbe potuta appartenere a (quasi) ogni tempo, tranne a quello (post)moderno. Una fanciulla che compare, irrompe all'improvviso nella vita di un anziano professore di matematica. Siamo infatti nell'epicentro della mentalità cartesiana: la Francia, Parigi. E la fanciulla perduta, proveniente da tutti i luoghi e da ogni tempo, è l'Angelo Sterminatore, o l'Angelo Nero, dolce e grazioso ma implacabile, di questa mentalità, di questa certezza granitica, che in Francia ha talvolta la pesantezza di un monolite. A operare il delizioso, quanto inquietante, scontro-incontro, su un registro fatto di toni minimali che ne accrescono l'intensità invece di attenuarla, è un regista di sessantotto anni, ex professore di letteratura francese, Jean-Claude Brisseau. 
 
Brisseau. Un cognome la cui sonorità evoca le parole brise, brezza, e ruisseau, ruscello. Una brezza leggera di (auto)ironia fa leggermente increspare la superficie del ruscello e il dolce scorrere dei sussurri, dei bisbigli. Superficie che, per tratti brevi ma alquanto significativi, produce improvvisi movimenti violenti nel flusso: sono i momenti gravi, i momenti dell'inquietudine. E i momenti delle apparizioni, elementi così tipici del cinema di Brisseau. Forse anche apparizioni di alcuni vecchi incubi femminei dal vissuto professionale del regista.
 
 
Ma questo bonario, veemente e corpulento gaulois alla Obelix dotato però dell'intelligenza fine di Asterix e della sapienza e del carisma del druido Panoramix – il delicato e sottile umorismo ironico che pervade appunto il film –,  interpretato dallo stesso Brisseau, non si spaventa di fronte a nessuno degli avvenimenti dapprima inquietanti, via via sconvolgenti, che si profilano nella sua abitazione, da quando una fanciulla, bella, bionda e dall'aria pura, interpretata dalla graziosa, ipnotica quanto enigmatica Virginie Legeay, ha fatto la sua apparizione. Picchiata da qualcuno, soccorsa e poi ospitata dal professore nel suo domicilio. Lui sta scrivendo un saggio-trattato, quasi segreto, sul ruolo delle illusioni nella vita singola come in quella collettiva. Pian piano la giovane donna diventa consigliera e confidente dell'anziano professore rinchiuso in una solitudine dolorosa – affiora il ricordo dell'adorata moglie scomparsa diversi anni prima – la cui implacabile dialettica cartesiana pare un muro difensivo. La fanciulla si perde una volta, e finisce nell'appartamento del professore, poi si perde di nuovo, e poi ricompare. Fino a perdere il suo amato. “Tutti coloro che amo scompaiono”, dice lei (citiamo a memoria). Visto il contesto, non siamo lontani dalle narrazioni di letterati ebrei come il Nobel Isaac Singer, romanziere di lingua yiddish: viene in mente in particolare una sua novella, Perduta, storia di una giovane donna migrante nell'America d'inizio Novecento, che perdendo ogni cosa, perfino la sua bambina, si perderà a sua volta. Sperduta in un mondo ostile di demoni e folletti, di cui forse essa stessa è, almeno in parte, emanazione, lascerà solo e inconsolabile, il marito. Perduto. 
 
Ed è un po' quello che accade anche alla Fille de nulle part, sebbene il finale sia qui inverso rispetto a quello di Singer, una reincarnazione narrativa alla rovescia. Un finale nel quale ritroviamo un po' di quella crudeltà della vita raccontata con grande dolcezza, elemento tipico delle narrazioni di Singer. Prima, però, assistiamo ad una serie di avvenimenti soprannaturali, alcuni frutto di una grande sapienza di messa in scena. Poiché il film è anche questo: un piccolo ma istruttivo saggio artigianale sulla messa in scena, immesso in un contesto intimo, l'abitazione di Brisseau. Un dramma da camera tra amici intimi con fantasmi o giochi di prestigio da vecchio teatro dimenticato. Perduto. 
 
 
 
Ma questa leggerezza nella regia, Brisseau l'ha raggiunta utilizzando per la prima volta le tecniche digitali e la leggerezza che appunto veicolano. Al fine di meglio restituire il reale nella sua verità, e inserendovi qualche “magia” grazie proprio al digitale. Animazioni quasi surreali, totalmente in stridore con la prosaicità del quotidiano e con gli stilemi prossimi al documentario è del resto tipico di registi asiatici di prim'ordine come il cinese Jia Zhang-ke (si pensa in particolare a Still Life) e il tailandese Apichatpong Weerasethakul (in particolare Tropical Malady e Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti). Quest'ultimo era presidente della giuria al Festival di Locarno, dove il film di Brisseau è stato presentato in Concorso e ha vinto, nella sorpresa generale e dello stesso Brisseau, il Pardo d'Oro. Se molti si aspettavano la premiazione del magnifico e sperimentale Leviathan, non ci si può stupire troppo che Weerasethakul abbia amato e e voluto far premiare questo lungometraggio, all'apparenza meno sperimentale. Per i motivi di cui sopra, ma anche perché è realmente una storia di incontro-scontro tra una modernità aggressiva e una “reverie” di fantasmi e superstizioni. In questo contesto, paradossalmente, quasi portatori di sapienza.
 
E' quindi un dolce ruisseau delle dicotomie. La prosaicità scientifica dei Lumière: vale a dire la quotidianità. E giochi di prestigio – gli effetti speciali del cinema delle origini – alla George Meliès: vale a dire il soprannaturale. E le contigue “superstizioni” religiose. Due opposizioni, che si scontrano e incontrano. Con una nonchalance pari a quella delle apparizioni/sparizioni della giovane. Chi è davvero costei? Un angelo dorato, il suo nome è infatti Dora, inseguito da demoni e folletti che vogliono inquinare la sua purezza e colpire coloro gli stanno vicino, o un demone dalle apparenze angeliche che porterà alla perdizione chi l'ha aiutata e voluto bene con sincerità? Quando l'apparizione aggredisce il professore siamo certi che egli non sia morto proprio in quel momento e di conseguenza tutto quanto avviene dopo sia soltanto il frutto del sogno-delirio di un morente? Oppure, come dice il professor Michel, anzi Brisseau, è la reincarnazione di una moglie – della donna – dalle mille sembianze? Oppure ancora ad incontrarsi sono due casi clinici? In un appartamento pieno di videocassette, dvd, libri, il regista ci fa scorgere quelli di Freud. Totem e tabù, se non erriamo. Dove s'indaga l'animismo in correlazione alle superstizioni, la magia. Ma Dora è anche un caso celebre d'isteria raccontato e analizzato dallo stesso Freud.
 
Certamente quelle del film sono tutte reincarnazioni delle mille finzioni romantiche del passato, letterarie o cinematografiche, ormai andate per sempre. A meno che non s'invochi lo spirito di Victor Hugo e della sua Leopoldine? Tutto è illusione?
 
 
Sia come sia. L'unica cosa certa, inesorabile, grave, implacabile, è l'assenza. E la certezza della presenza di un sentimento pervasivo verso chi è assente che attanaglierà per sempre chi resta, sentimento-fardello che però dà senso al tutto. Quando Lei guarderà Lui, morto nell'appartamento dopo esser stato accoltellato da uno sconosciuto chiaramente giunto da nessun luogo e da ogni tempo, e vedrà di nuovo Lui appoggiato alla finestra salutarla, sapremo che la storia tra un anziano professore razionalista e una dolce giovane foriera d'irrazionalità, è giunta a quel giusto e inevitabile compimento di cui il primo era consapevole: poiché questa commedia inquietante d'amour fou platonico e in punta di piedi (più o meno), di amori contrariati appartenenti a un altro mondo e altre epoche, è il simbolico incontro-scontro tra due personalità archetipo, graziosamente stereotipi, appartenenti al mondo di Cartesio e a quello spirituale. Vince il secondo. Ma provando dolore per la sconfitta dell'altro. Forse l'enunciazione di un'era nuova.