Sei un 20enne americano e frequenti un college. L'unico posto in cui vorresti essere durante la pausa accademica di primavera è la Florida. Spring break forever, bitches. Qualche giorno di vuoto narrativo obbligatorio nella vita di ogni studente che si rispetti; giornate in cui lo stato peninsulare diventa teatro di leggendarie feste in spiaggia a base di beer bong e promiscuità sessuale, preferibilmente sulle note lisergiche di una mixtape dubstep. Faith, Candy, Brit e Cotty, amiche d'infanzia e ora iscritte allo stesso college, non sono da meno rispetto ai loro coetanei. Anzi: una volta scoperto di essere a corto di contante per la tanto agognata vacanza, decidono che è il caso di procurarsi i soldi rapinando un fast food. È il là per un viaggio che si preannuncia movimentato. Che potrebbe prevedere una festa esagerata nella loro stanza d'albergo, seguita da un arresto e quindi dall'incontro con Alien, puro white trash, rapper/gangster/spacciatore dai denti di platino, Caronte ideale tra il limbo e l'inferno vero e proprio.
 
Harmony Korine ritorna, dopo Gummo (e Kids e Ken Park, da lui sceneggiati), ai suoi ragazzi (in)sani portatori di anomia. E chi scrive di Harmony Korine torna a ricordare, giocoforza e a scanso di equivoci, che l'autore originario di Nashville, l'enfant terrible che ha scosso il mondo del cinema dall'interno, non giudica, non incensa, non conciona. Il suo non è uno sguardo né morale (non nel senso che i benpensanti sanno dare alla parola) né tantomeno apologetico. È uno scrutare personale e a tratti oscuro. Prendere o lasciare. Nel caso di Spring Breakers, e a dare retta a Korine, siamo addirittura di fronte a un'operazione catartica. Una maniera, per il regista, di recuperare la vacanza di primavera perduta mentre, a New York, malediva la tavola da skateboard per un trick malriuscito inseguendo il fotografo Larry Clark, l'uomo che gli commissionerà la prima sceneggiatura (quella di Kids). 
 
Spring Breakers è un'opera che vive di strane convivenze e di spinte opposte ma equipollenti: pur essendo il lungometraggio di fiction dalla narrazione più compiuta e coerentemente strutturata all'interno della filmografia di Harmony Korine, è anche il film che porta agli estremi, senza sclerotizzare, alcune qualità del suo cinema. L'ironia borderline che si fa sedurre, senza opporre troppa resistenza, dal grottesco; l'andamento sincopato, spezzettato e innervato da una reiterazione martellante di suoni, dialoghi, immagini; e soprattutto la sistematica, compiaciuta, vitale distruzione/decostruzione/ricontestualizzazione di un immaginario pop imperante e imposto. In Gummo, con Like a Prayer e Roy Orbison, e in Mister Lonely, sostanzialmente con il film nella sua interezza, Harmony si serviva di riferimenti pop (ancor più riconoscibili perché ribaltati) per portare avanti un discorso complesso sulla percezione di una realtà, l'essere quasi adatti e l'accettazione di una norma esterna da sé. 
 
Spring Breakers si spinge ancora più in là, sornione e sorridente. Accumula sul riferimento diegetico (l'indimenticabile scena con James Franco al piano che canta, accompagnato dalle sue ninfette, “Everytime” di Britney Spears) la scelta mirata di un cast fatto di corpi pop (quelli di Selena Gomez e Vanessa Hudgens), sradicati dal pomeriggio di Disney Channel e trasportati nella sublime gomorra isterica e kitsch di St. Petersburg, Florida. Un colpo di genio adatto a festeggiare un film maturo, monumento a un'idea di cinema ipertrofica, sorprendente – come è sempre stato Korine – nell'unire, con fare promiscuo e lascivo eppure così coerente, uno sguardo esagerato e surreale a un lucidissimo approccio dissettivo da entomologo.
 
Spring Breakers, regia di Harmony Korine, Usa 2012, 92'.