L'intervallo, come praticamente tutti i tuoi documentari, è girato a Napoli. Ci spieghi le ragioni di questa scelta?

Tutti i miei film sono girati a Napoli, ma non per la sua particolarità o peggio per la tipicità un po' pittoresca che i visitatori occasionali le riconoscono. Al contrario, è l'universalità di Napoli che mi interessa. Napoli è un luogo dove le contraddizioni del contemporaneo sono più evidenti, anche se vanno ricercate con curiosità e attenzione. 
 
I protagonisti di L'intervallo sono due adolescenti. Un'altra scelta ricorrente…
 
L'adolescenza è un momento in cui la personalità è già parzialmente definita anche se tutto deve ancora succedere. Un passaggio fondamentale dove si forma il modo di pensare e si gettano le basi dell'identità e della vita che verrà. A seconda delle persone che incontri o anche delle casualità della vita puoi andare da una parte o da un'altra, tra i garantiti oppure in quella zona segnata in vario modo dall'illegalità. Parlare di questo a Napoli significa avere un punto di vista critico sulle due città e sui meccanismi che ne regolano la coesistenza e che ne limitano gli scambi. Su queste questioni è stato fondamentale  confrontarmi con Maurizio Braucci, che ha scritto il film con me e Mariangela Barbanente e soprattutto è l'animatore di Arrevuoto, il progetto teatrale che cerca di mettere insieme i ragazzi di Scampia con i figli della borghesia che frequentano il liceo Umberto I.
 
Bisogna dire che i tuoi lavori testimoniano una grande qualità della relazione, una “chimica” consolidata con i giovani protagonisti…
 
Non è una vocazione naturale. Mi sono avvicinato per la prima volta ai ragazzini dieci anni fa, lavorando al progetto che alla fine, dopo alcune peripezie, è diventato Cadenza d'inganno. Non avevo alcuna facilità a relazionarmi con loro; mi aiutarono Braucci, Pietro Marcello e Luca Rossomando, che lavoravano con i ragazzi al Damm, il centro sociale di Montesanto. Ho capito rapidamente che la loro mediazione poteva arrivare solo fino a un certo punto e che avrei dovuto assumermi interamente la responsabilità della relazione. Ho quindi stretto un patto con Antonio, il protagonista del film, che in realtà, tra alti e bassi, è durato addirittura dieci anni.
 
Alla fine Cadenza d'inganno è diventato un film che oltre a raccontare la storia di Antonio affronta un’impegnativa riflessione sulla narrazione… 
 
In realtà Cadenza d'inganno era un film che si interrogava sulla narrazione fin dalla messa a punto del progetto, oltre dieci anni fa. Per trovare il protagonista avevo fatto una specie di casting e Antonio era stato scelto non per la sua disponibilità, ma al contrario per la sua riluttanza a giocare con la macchina da presa. Volevo un personaggio che non intendesse compiacere chi lo filmava, che cercasse di sottrarsi al film. Qualcuno il cui percorso non era predefinito, nella sua vita come nel film, per costruire con lui la storia. Ogni giorno incontravo Antonio e gli chiedevo: oggi che facciamo? Era una scommessa, che si è rivelata molto rischiosa. Lasciare aperta la storia provoca un certo disagio, perché si rinuncia a un gioco tacito in cui il documentarista espone un progetto e, più o meno consapevolmente, il personaggio si adegua a quanto ci si aspetta da lui. La soluzione un po' avventuristica è stata quella di non scrivere niente e di improvvisare davvero tutto. È andata avanti così per un po' finché Antonio ha abbandonato il film. Evidentemente trovava coercitivo anche l'accordo lasco e aperto che avevamo e riteneva di aver bisogno di essere davvero libero in quel momento della sua vita. O forse, al contrario, era la libertà d'azione che lo inibiva.
 
 
L'intervallo è il tuo primo film di finzione. La vicenda di Antonio c’entra qualcosa con questa scelta?
 
Sì, ho deciso di lasciarmi alle spalle le ambiguità, anche feconde, del documentario e ho impostato un rapporto molto chiaro sia con i ragazzi protagonisti che con gli spettatori, non nascondendo che stavo girando una storia completamente inventata. È una risposta, opposta e complementare a quella di Cadenza d'inganno, alla domanda fondamentale di come raccontare la realtà. 
 
Quindi il film nasce da un travaglio teorico-cinematografico?
 
Non solo: il film nasce dall'incrocio di una riflessione sul cinema con una preoccupazione politico-civile. La prima stesura della sceneggiatura di Intervallo è contemporanea a quella di Gomorra di Roberto Saviano, quando a Napoli c'era una guerra di bande camorristiche, con un omicidio al giorno. Mi sono posto il problema di come raccontare questo momento terribile che viveva la città e, piuttosto che procedere frontalmente, ho scelto la via della sottrazione e della finzione, mettendo in scena un racconto dove invece dei fatti di cronaca clamorosi ho trattato degli effetti che il dominio malavitoso produce sulle persone che vivono nella città.
 
La tua strategia è l'opposto di quella di Saviano, dove la presenza del narratore è molto esibita. È uno che vede tutto e testimonia tutto.
 
Ed è proprio la figura dell'io narrante quello che meno mi convince in Gomorra. La sua presenza è figlia di un progetto teorico, che a volte sento eccessivo. Io sono stato attento ad avocare a me ogni responsabilità sulla storia e di procedere di conseguenza. Intervallo non è tratto da una storia vera: l'ho inventata totalmente e il punto di vista è rigorosamente il mio, con tutte le sue qualità e i suoi limiti.
 
Ce lo racconti?
 
Una ragazza viene prelevata da una banda di quartiere e rinchiusa in uno spazio abbandonato all'interno della città. A sorvegliarla viene chiamato un ragazzo che è all'oscuro di tutto. All'inizio c'erano dei dubbi: temevamo che la storia potesse risultare poco credibile nel contesto attuale. Braucci diceva che rapimenti come quello di Gelsomina Verde, uccisa e bruciata durante la faida del 2004, non si fanno più ora. In realtà si trattava di una preoccupazione eccessiva, perché la storia non trae la propria credibilità dal confronto con la realtà ma dal richiamo al mito. Il rapimento della donna è faccenda antichissima – il ratto delle Sabine, Elena di Troia… – e io contavo proprio sulla sua componente archetipica. Poi ovviamente accade che le cronache ti vengano in aiuto: poco prima delle riprese, nei pressi dell'ospedale Leonardo Bianchi dove è stato girato il film, un ragazzo è stato massacrato dagli amici della ragazza che stava con lui.
 
 
 
A chi e a cosa hai pensato per costruire i personaggi? 
 
Chi vive a Napoli subisce ogni giorno quei piccoli soprusi – dall'occupazione degli spazi comuni a cose più gravi – che derivano dal vivere in territori con una forte presenza camorristica. C'è tutta una gamma di reazioni possibili: ho la sensazione che in genere le donne tendono a ribellarsi, mentre i maschi preferiscono l'accomodamento, ma in realtà tutti noi siamo normalmente sballottati da una reazione e l'altra. Salvatore e Veronica rappresentano i poli degli atteggiamenti che la città tiene nei confronti della malavita. 
 
Collocare nel maschile e nel femminile questa polarità ha un fondamento sociologico o è una tua proiezione?
 
È più un convincimento personale. Mi piace questa contrapposizione di istanze ideali. Ho la sensazione che quando va male sono le donne le prime a rimboccarsi le maniche. Accade anche nei paesi in via di sviluppo dove ogni anno tengo corsi di documentario con gli Ateliers Varan. 
 
Lui è uno sguardo e lei un corpo…
 
Mi sono posto più volte la domanda: chi è il personaggio principale, senza venire a una soluzione definitiva. Lo sono tutti e due, in realtà. Salvatore lo conosco di più se non altro per comunanza di genere e l'ho misurato su di me. Veronica, che dire? È un personaggio che assomiglia alle protagoniste di due miei documentari, al sindaco di Prove di Stato e alla preside di A scuola; è una che reagisce, che si agita, che non accetta imposizioni. Nel film lei agisce e lui la guarda. Lui è il testimone. Nel suo unico momento di ribellione viene salvato da lei che ha capito che non è organico alla banda. 
 
La struttura narrativa del film è teatrale, con tre movimenti abbastanza ben definiti.
 
Nel primo movimento il sentimento prevalente è la diffidenza. Lei gliene vuole perché crede che lui sia al servizio del clan e lo accusa di viltà. “Sai prendertela solo con le donne…”. E quando lui cerca di spiegarsi è ancora peggio. Nel secondo movimento lei capisce che anche lui è una vittima e quindi avviene l'incontro. Da lì in poi il loro rapporto evolve rapidamente, si fanno tentare dall'idea della fuga, solidarizzano, diventano complici. E, finalmente, si riscoprono adolescenti e nonostante la cattività vivono la propria età trovando spazi vitali. Il film è anche una storia di formazione, dove i protagonisti affrontano l'emergenza dei desideri e vivono gli impulsi sessuali travestiti di paure. Salvatore teme Veronica, ma non perché lei arriva da chissà dove: prova lo stesso timore che tutti gli adolescenti hanno nei confronti delle donne.
 
E il camorrista di quartiere, personaggio di contorno ma molto importante, come l'hai disegnato?
 
L'ho voluto raffigurare al di fuori delle immagini classiche e tradizionali. Non è un contadino con la coppola, ma piuttosto sembra un universitario, il figlio di un commerciante di Posillipo. Salendo ad un certo livello il denaro non puzza più… Come scrive molto bene Saviano, oggi la malavita tende alla contiguità con il capitale finanziario: è normale che i capi si atteggino e, almeno apparentemente, abbiano la cultura degli uomini d'affari. 
 
Come sei arrivato a questo risultato? So che il film ha avuto una gestazione piuttosto lunga…
 
L'idea del film ha un'origine lontana, ma è nel 2007 che ho cominciato il lavoro che avrebbe portato alla stesura della sceneggiatura definitiva, quando ho fatto leggere a Carlo Cresto-Dina il progetto che temevo sarebbe rimasto nel cassetto. Ho ricominciato a lavorare con Maurizio Braucci cui si è aggiunta Mariangela Barbanente, che ha dato alla scrittura una forma tecnicamente appropriata. All'origine c'è un lavoro d'inchiesta. Abbiamo raccolto una mole di materiale che poi è entrata solo in minima parte nel film, ma che ci ha nutrito e ci ha avvicinato ai caratteri e all'atmosfera. Un punto fermo fin dall'inizio era il dialetto. Non ho mai pensato a personaggi che parlassero in italiano o in una lingua di compromesso e quindi ho affrontato la difficile strada dei sottotitoli.
 
La sceneggiatura però è scritta in italiano…
 
Sì, il passaggio dall’italiano al dialetto è il momento chiave in cui gli attori, che non sono dei professionisti, prendono possesso del testo e si incarnano nei personaggi. È un punto delicato: farlo coincidere con una trasformazione linguistica mi ha aiutato a compiere la trasformazione degli attori in personaggi. 
 
 
Ci racconti la preparazione?
 
Non appena abbiamo avuto le prime certezze sui finanziamenti – Rai e ZDF – abbiamo iniziato il casting. Dieci mesi prima dell'inizio delle riprese. Abbiamo setacciato scuole, associazioni, ritrovi e raccolto cento ragazzi, una decina dei quali sono stati scelti per un laboratorio – recitazione, espressione corporea e così via – che li avvicinasse gradualmente al film. 
Ho lavorato con Alessandra Cutolo e Antonio Calone di Arrevuoto in uno spazio del Mercadante, partendo dalle cose classiche – recitazione, espressione corporea e così via – per poi avvicinarci gradualmente al film. Non è stato semplice: la coppia che al termine del laboratorio sembrava migliore in realtà non mi convinceva fino in fondo. E così abbiamo riaperto la ricerca finché abbiamo trovato Alessio Gallo, un vero attore naturale, la cui partner ideale si è rivelata Francesca Riso, un po' misteriosa e lontana dall'immagine della tipica ragazza del Sud cui avevo pensato inizialmente.  A quel punto il lavoro di riscrittura della sceneggiatura si è intensificato e precisato. Raccontavamo loro la scena e raccoglievamo le loro idee; riscrivevamo e gli facevamo scegliere le battute, in un palleggio continuo. E così la relazione tra i due personaggi ha trovato la forma. 
 
Che spazio c’era per l’improvvisazione?
 
Era un processo libero fino a un certo punto: l'evoluzione dei personaggi era ben evidenziata dalla sceneggiatura e così è sostanzialmente rimasta, mentre rimaneva da definire tutto quello che nella sequenza non è azione. Nel lavorare con i ragazzi avevo l’accortezza di non chiedere mai che cosa avrebbero fatto: loro avrebbero bruciato le tappe e sarebbero finiti l'uno nelle braccia dell'altro in cinque minuti. E invece continuavo a porre loro vincoli molto stretti, chiedendogli di affrontare gli ostacoli che di volta in volta gli ponevamo. 
 
Avete ripreso in video queste prove?
 
Sì, certo, addirittura abbiamo girato una versione completa del film in teatro. Molto interessante: per me è stata la base del film.
 
Quanto è durato questo lavoro?
 
Dopo quasi 10 mesi di preparazione abbiamo girato in 5 settimane.
 
Dove avete girato?
 
La ricerca dei luoghi è iniziata prestissimo: Braucci voleva dei luoghi per ispirarsi. Abbiamo cercato delle scuole, ma poi abbiamo scelto l'ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi. Un posto carico di memoria e di storia che lo scenografo Luca Servino ha reso meno riconoscibile e meno oppressivo possibile. Ci abbiamo girato quattro settimane su cinque.
 
Quasi come lavorare in un teatro di posa…
 
È una scelta deliberata: avrei potuto girare la stessa storia in giro per la città, ma sarebbe stato del tutto diverso. Ho scelto al contrario un luogo dove tutto è sotto controllo e ho voluto sottolinearlo. Anche nella scelta dell'ambientazione non ho barato e mi sono assunto platealmente la responsabilità di inventare il racconto.
 
Un’enorme differenza rispetto al documentario…
 
Sì e non è stato facile: ricreare lo spazio, invece di adattarmici, mi ha posto qualche difficoltà. Da documentarista ero abituato a considerare lo spazio come dato e a badare alla coerenza della rappresentazione. Invece nella finzione è possibile combinare spazi diversi e distanti all'interno della stessa sequenza. A volte muovevo qualche obiezione alle scelte di Luca Bigazzi, l’operatore e direttore della fotografia: avevo preoccupazioni eccessive e mi ponevo problemi che nel cinema di finzione non hanno senso.
 
Quindi non sono pochi i problemi che un documentarista deve affrontare passando al cinema di finzione?
 
Io ho avuto problemi di atteggiamento. La reinvenzione di ogni cosa richiede un abito mentale del tutto diverso: nel documentario devi essere molto più aperto, poroso, di fronte a una materia di cui sai poco. E se ne sai troppo è un problema. Nella finzione è il contrario: devi ricostruire tutto, devi sapere tutto, devi prevedere tutto. Perché non succede nulla che tu non abbia cercato. Perché accada qualcosa di almeno parzialmente imprevisto devi progettare un dispositivo che lo consenta. Nel nostro caso per esempio abbiamo deciso di girare in luce naturale per lasciare agli attori libertà di movimento davanti alla macchina da presa.
 
Non hai avuto paura che provando molto saresti arrivato alle riprese con attori spompati e niente più da inventare? 
 
Sì, l'ho avuta, ma ho scommesso sul fatto che girare in ambienti veri e trasformare il testo passando in un altro idioma avrebbe prodotto un scarto, un salto di qualità. Oltre, ovviamente, alla presenza della troupe, alla concentrazione che ne deriva, ecc. 
 
 
Come hai lavorato con Luca Bigazzi?
 
Luca ha fatto un grande lavoro, tirando fuori immagini incredibili senza usare le luci. 
 
È stato sempre in macchina?
 
All'inizio mi sarebbe piaciuto stare in macchina almeno in alcuni frangenti, ma lui mi ha risposto: “Trovati un altro”. Ho accettato la sua posizione, ma non è stato semplice, anche se ovviamente lui filma molto meglio di me.
 
Come vi siete organizzati?
 
Non abbiamo preparato niente, cosa che mi ha gettato nell'angoscia più nera. Ma lui è abituato così: sa di dare il meglio trovando soluzioni direttamente sul set. Inventa continuamente e a una velocità impressionante. In questo modo ha introdotto nelle riprese un elemento di alea e ha imposto una modalità di lavorazione un po' strana: per ogni sequenza sceglieva la soluzione che preferiva e iniziava a girare. Durante la ripresa io, davanti al monitor, ragionavo e alla fine talvolta proponevo una soluzione alternativa. Spesso abbiamo girato due versioni della scena, a volte abbiamo montato la mia e altre la sua. 
 
Quindi avete girato molto?
 
Al contrario abbiamo usato poca pellicola, 17.000 metri, la metà di quella prevista. E pensare che inizialmente avevamo ipotizzato di usare una nuova camera 2k molto maneggevole, proprio per la paura di sforare con il consumo di pellicola. Invece la scelta del super16 è stata felicissima. Ci ha dato una libertà nei passaggi tra zone buie ed esterni in piena luce che il digitale ancora non consente. E poi una camera leggera come la super16 è l’ideale per lavorare a mano come piace fare a Luca.
 
Al montaggio hai ritrovato Carlotta Cristiani, con cui avevi già fatto tre documentari. È cambiato qualcosa nel lavoro?
 
No sono più le analogie che le differenze e mi sono trovato benissimo fin dall’inizio. Carlotta ha iniziato a montare già durante le riprese e io ho trovato il film a uno stadio avanzato: lei aveva da subito iniziato a sottrarre informazioni che in sceneggiatura sembravano fondamentali. Ho resistito un po’ anche se avevo molta fiducia nella sua sensibilità. Aveva ragione lei: la scelta di creare delle piccole fratture piuttosto che rimanere rigorosamente ancorati alla continuità temporale era giusta. La gestione di un tempo non sempre continuo è stata la sfida principale del montaggio.
 
So che qualche mese dopo la fine del lavoro siete tornati in montaggio per un giorno. Cosa è successo?
 
Avevamo un problema con l'inizio del film e l’abbiamo sistemato, rimuovendo una sequenza che rispondeva all'esigenza – ritenuta essenziale dai finanziatori – di offrire agli spettatori delle coordinate spazio-temporali di riferimento. Era una scena non prevista nell'originaria sceneggiatura. Risultava posticcia e soprattutto complicava la relazione che il film instaurava con lo spettatore.
 
I personaggi hanno l'età di tuo figlio. C'entra qualcosa?
 
È un po' un caso, visto che la genesi del film è molto remota. E il resto è materia da analisi…
 
Non è che hai pensato a lui come al tuo spettatore ideale?
 
No, ma lo è diventato. È stata la prima persona a vedere il film finito al di fuori della stretta cerchia dei realizzatori del film e il fatto che si sia identificato ed emozionato è per me molto importante. Mi piace pensare che il film parli prima di tutto ai ragazzi. 
 
Agosto 2012