Cloud Atlas è un film ambizioso, non c’è dubbio; tuttavia l’ambizione non conduce necessariamente a risultati che coincidono con le aspettative, o con i progetti intrapresi per il proprio (ambizioso) fine. Senza bisogno di fare nostre le considerazioni distruttive sulla brama eccessiva, avanzate da quella pellaccia stoica dell’imperatore Marco Aurelio e rimanendo ancorati alla materia cinematografica, resta da rilevare come l’ambizione possa portare a mete stilisticamente e filosoficamente degne di considerazione, oppure condurre al ridicolo. Nel caso del film dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer, ha semplicemente portato a un guazzabuglio, talvolta divertente e talaltra interessante, ma nel complesso noioso, predicatorio e, come esito diretto della troppa ambizione, vanaglorioso. Il film si articola in sei segmenti, ambientati su differenti piani temporali, abilmente alternati e intrecciati dai tre registi, i quali si “sfiorano” o si compenetrano grazie a piccoli gesti, o a mere casualità. In se, il gioco non è stupido: le diverse vicende sono caratterizzate da uno stile e da un genere che rendono a loro modo godibili i rimandi cinematografici sia interni, sia esterni. Il modello, come hanno segnalato in molti, è un caposaldo della storia del cinema come Intolerance (1916), ma, come ha affermato la statunitense Eleanor Ringel Cater, se l’opera di Griffith è un capolavoro, il film del terzetto, «ahimè, non lo è». Tutto in Cloud Atlas, pare troppo artificiale, il buon compito a casa per una scuola di scrittura creativa. Sembra oltretutto, di assistere ad una lezione di diritto amministrativo: questi sono gli enti, questi sono gli organi che li costituiscono, i quali possono avere rapporti intraorganici, ma anche interorganici, perché, ebbene sì, esiste perfino il resto del mondo. Come dire, "concentratevi sul testo, ma anche un po’ sul contesto", perché c’è pure la storia del cinema (o della letteratura, o di quello che volete).

 
Per cominciare, allora, focalizziamoci sul testo. Le vicende narrate, come abbiamo detto, sono marcate da particolari stilemi e generi, che però si segnalano per una convenzionalità a dir poco disarmante. Il segmento che si svolge nel secolo XIX è in bilico tra il positivismo e il melodramma, mentre l’episodio novecentesco è doverosamente bohémien, ma su di esso, si stagliano le ombre cupe dei totalitarismi e delle leggi razziali. C’è un episodio ambientato negli anni Settanta dove si respira la Guerra Fredda, Nixon, le minacce da dentro e gli echi delle rivolte studentesche filtrate attraverso i diritti civili e i libri mistici di Carlos Castaneda. L’episodio a noi contemporaneo si svolge in Gran Bretagna ed è debitore delle commedie indie, ha momenti di sano intrattenimento e osa addirittura una certa ironia verso la moda tutta odierna dei libri scritti dal bad guy di turno: il terrorista, l’ex militare (o mercenario), il carcerato, il fotografo estorsore e via di questo passo. I due brani fantascientifici, nei quali ritorna in forme diverse, la cosmogonia "alla Matrix" dei fratelli terribili, sono plasmati declinando paradigmi tradizionali. Il primo in ordine cronologico, si fonda sul canovaccio distopico che regge dai tempi di Huxley e Orwell; il secondo, il quale si svolge in un tempo distantissimo, posteriore a tutte le catastrofi, ripropone l’idea del futuro remoto di romanzi come The Chrysalids di John Wyndham e di film come Il pianeta delle scimmie, o Soylent Green. Non a caso, quest’ultimo viene citato sia verbalmente nella vicenda contemporanea, come epitome delle lotte per la libertà e delle "rivelazioni spaventose", sia narrativamente, nel finale dell’episodio distopico, non sorprendendo assolutamente nessuno il fatto che le povere servitrici "genomizzate" in serie, finiscano a comporre quel "sapone" che le nutre. Che si stesse guardando un Matrix cannibalesco era chiaro fin dalle prime inquadrature.
 
Ciò che realmente sconcerta di questo testo (o di questi testi) è il fatto che sia stato rielaborato, a partire dal romanzo omonimo di David Mitchell, oltre che dai fratelli Wachowski, anche da Tom Tikwer, regista di alcuni lavori se non proprio definibili come belli, sicuramente annoverabili come interessanti, quali Lola corre e Heaven. Tykwer è regista letteralmente ossessionato dalla figura e dal cinema di Krzysztof Kieślowski, al punto che a più riprese, nel corso dell’opera, si ha l’impressione che proprio il cineasta polacco abbia, a suo modo, voluto cimentarsi in una versione postmoderneggiante di qualche progetto risalente all’inizio degli anni Settanta, pensato per Franklin J. Schaffner. E il risultato, come facilmente intuibile, è spiacevolmente straniante, perché un proposito del genere sfugge di mano immediatamente. Resta divertente, anche se a tratti stanco, il gioco dei medesimi attori che interpretano personaggi diversi a seconda delle epoche; francamente, Hugo Weaving nei panni dell’infermiera grassa, autoritaria e semisadica nel segmento «commedia contemporanea» fa ridere per davvero, così come la trovata finale della scazzottata tra inglesi e scozzesi nel finale dello stesso episodio.
 
Venendo in ultima battuta al contesto, è evidente che le citazioni cinematografiche, storiche e letterarie a volte funzionano, a volte condiscono l’amalgama di ulteriore convenzionalità, come in un normale prodotto medio, da prima serata televisiva. Ciò che invece è affatto ridicolo e a tratti irritante è il fulcro stesso del film: esattamente come fu per Griffith, l’intolleranza; la quale però, viene coniugata al solo tempo presente, con l’attenzione ben rivolta ai moduli per le application, o al testo di una legge secondaria sull’uguaglianza formale: discriminazioni per razza, sesso, religione, età, altro. Tutte barrate. Il film è sufficientemente politically correct, è stato lavato col sapone e può passare, in serie, genomizzato.     
 
 
Cloud Atlas, regia di Lana e Andy Wachowski, Tom Tykwer, Germania 2012, 171'.