Per tutta la durata della sua carriera cinematografica, Fritz Lang è stato in grado di costruire una messa in scena affascinante nella sua struttura inflessibile, nel suo ordine rigoroso. Una conformazione linguistica ancora più visibile nel periodo tedesco della sua filmografia, in cui si decide di prediligere il dettaglio per legittimare uno stile in grado di porsi sul limine tra la tradizione pittorica e una nuova modalità di espressione visiva.

La sofisticata elaborazione compositiva del regista è osservabile a partire dalle scenografie di Die Nibelungen: la marca stilistica di Lang agisce attraverso più livelli, lo spazio visibile è organizzato secondo regole ben determinate. «È la rappresentazione di un mondo ordinato i cui motivi ornamentali giocano un ruolo significativo di qualificazione dello spirito del mondo delineato» (1); Die Nibelungen è la perfetta sintesi tra una simbologia ieratica e stilizzata con una mise en scene tesa a minimizzare ogni carattere eminentemente umano: si pensi, tra le altre, alla sequenza in cui l'avanzata dei re e dei dignitari burgundi assume le sembianze di un rituale, una liturgia pagana che si plasma con la forza della raffigurazione visiva dove ogni azione umana viene a scontrarsi con la forma, con la rigida architettura gelata nella sua staticità trasformando in rito ogni suo carattere propriamente volubile. Prediligendo l'organico per l'inorganico, l'arte formalizzata per la morte dell'umano, Lang inasprisce «il rifiuto della mediazione speculare della restituzione visiva della realtà e della prassi» (2) attraverso l'uso di deformazioni illusionistiche visibili a più livelli: distorcendo i codici della rappresentazione mimetica e verosimile della realtà, esalta il potere e la solidità della scenografia. Il corpo umano si trasforma così in elemento decorativo, impossibilitato a mostrare la propria natura: si vuole fare riferimento alla sequenza in cui il gruppo delle ancelle di Crimilde sono ormai solamente simulacri fantasmatici, figure prive di fisionomie riconoscibili destinate ad andare a formare, attraverso gli ornamenti geometrici dei loro vestiti, la dimensione elegantemente tornante delle volte di una chiesa. 
 
A tal punto, Fritz Lang può essere considerato come il maestro, il demiurgo di una visione alla seconda che, per forza di cose, non può più rinviare al dato reale; il mimetismo viene manipolato e riorganizzato secondo le regole di una dimensione metaforica che prevede innanzitutto una stilizzazione assoluta dell'ambiente: il regista allestisce il proprio universo non conformandosi a un mondo preesistente, bensì a un tipo di natura artificiale e allegorica in grado di rimandare all'esigenza di costruire un linguaggio cinematografico che faccia continuamente riferimento a sé stesso. Il paesaggio evocato durante il viaggio verso il castello di Crimilde – in cui l'orizzonte tenebroso  restituisce allo spettatore la cultura germanica e norrena dell'Edda – trova l'ispirazione nei quadri di Böcklin soprattutto per quanto riguarda l'illuminazione utilizzata secondo la dinamica del chiaroscuro, attraverso squarci di luce, gli stessi utilizzati dal pittore per irraggiare le rovine monumentali in Ruins by the Sea (1880).
 
Die Nibelungen raccoglie al suo interno diversi connotati del cinema espressionista tedesco, ma sarebbe corretto definirlo tale, un film “espressionista”? Sicuramente vi si può trovare l'applicazione di alcune regole, ad esempio l'allontanamento della realtà, la rottura con la linea dritta degli oggetti e la conseguente creazione di tratti spezzati e forme astratte. Le forme in Die Nibelungen vengono inquadrate in schemi lineari e necessari,  le componenti diverse all'interno dell'inquadratura sono orchestrate per dare vita a un compiuto progetto formale: si pensi ad esempio alla sequenza in cui Hagen spia l'arrivo di Crimilde seduto con la spada poggiata di traverso tra le ginocchia mentre – quasi come metonimia – alle spalle vi è Brunilde, figura oscura e obliqua, nascosta tra le rocce. Lang decide di non lasciare niente al caso, le diagonali trovano il proprio contrappunto in complessi formali ispirati da un principio pittorico meramente decorativo. Si cerca così di optare per una forma filmica dove viene massimizzato un nuovo tipo di percezione individuale che assimila diversamente i dati razionali, gli oggetti della realtà trasformandoli in specifici dell'emozione: «la distruzione sta sempre segretamente in agguato nell'inorganico» (3), è il vento «del malaugurio» (4) a nascondere il corteo funebre per la morte di Sigfrido, a far muovere la polvere sul viso sbiancato dell'eroe da epopea. 
 
 
L'elevata disumanizzazione e la stilizzazione formale avvicinano lo stile di Die Nibelungen al cinema astratto di Walter Ruttmann: le figurazioni bianconere del sogno di Crimilde sono facilmente assimilabili alle forme danzanti di Opus. Vengono così a moltiplicarsi da una parte il numero degli oggetti e dall'altra il numero delle entrate e dei passaggi: la scenografia mostra continuamente la tensione tra personaggio e un ambiente che non conosce. Una contrapposizione incessante che tende a dimostrare la ricerca spasmodica dell'essenza profonda delle cose e l'indagine di una realtà altra, quella dell'inconscio indecifrabile; è appunto nel tentativo di mostrare la porzione celata degli oggetti che si situa la rivelazione di spazi oscuri (i ponti, le zone coperte dalle rocce e dagli alberi), di territori relegati alla potenza del magico e del fantastico. L'autorità delle ombre lascia lo spazio agli stati di incubo e di allucinazione: il destino segnato nello spazio chiuso di un agire impossibile diventa il sintomo dell'analisi tra le pieghe dell'inconscio, nel margine lacerato tra il soggetto e un mondo che non comprende pienamente. Il dato reale si sottrae alla presenza, diventa spazialità estranea, luogo dell'altrove.
 
Anche se negli anni Venti il montaggio viene impiegato più che altro in modalità consequenziale e narrativa lontano dalle sperimentazioni connotative di Pudovkin e Ejzenštejn, Lang utilizza metodi linguistici più complessi: le inquadrature, non più monadi solitarie giustapposte solamente dall'artificialità del montaggio, vengono scandite dalla conflittualità delle relazioni strutturali e delle interconnessioni interne. La poetica di Die Nibelungen è concepita attraverso la messa in luce di relazioni vuote in cui viene negata la trasparenza, esibita l'alterità, messa in mostra la contraddizione. Una precarietà che prende avvio dalla struttura sociale presentata dove i re e i condottieri sono collocati ordinatamente al di sopra della massa indistinta e silente che, meccanicamente, risponde agli ordini. 
 
La rinuncia ad aderire a un ordinamento mimetico della realtà si traduce nel bisogno incessante di trovare nuove invenzioni formali per fare della macchina-cinema un congegno ludico e consapevole che accusa la finitezza delle cose – la grande armatura scenografica – e, parallelamente, anche il destino muto e segnato dell'uomo. Se già nel film precedente, Destino (Der Müde Tod, 1921), Kracauer segnala la presenza di sentimenti antisemiti soprattutto riconducibili alla potenza del tiranno, possessore indiscusso del fato, l'Hagen di Die Nibelungen non può che radicalizzare tali questioni impedendo il successo delle imprese con la sua ferale figura. Tuttavia, più che per l'intreccio narrativo, Hitler e Goebbels mostrarono interesse per il gigantismo scenografico e la magniloquenza dei decori, come dimostra il rigore estetico di Il trionfo della volontà (Der Triumph des Willens, 1933) in cui l'ampollosità dello stile segue l'ascesa del governo nazista; in effetti, seppur amando molto la prima parte dell'opera, il regime rifiutò completamente il sovvertimento narrativo de La Morte di Sigfrido e, soprattutto de La vendetta di Crimilde, mai mostrata in Germania durante gli anni della guerra. L'ultimo atto dell'opera capovolge integralmente la staticità della scenografia e l'immobilità dell'azione: con un'inquadratura frontale, Lang immortala l'uccisione di Hagen per mano di Crimilde in una stanza spoglia dove i connotati divini dell'antagonista soccombono insieme all'enfasi dei fregi. 
 
Piegando le forme monumentali in favore dell'umanesimo, Lang anticipa i caratteri delle sue pellicole successive, l'ossessione per «la solitudine morale, per l'uomo che conduce da solo una lotta contro un universo ostile e indifferente» (5), riscontrabile ancora nei film tedeschi – si pensi a Metropolis (1927) –  ma soprattutto nelle pellicole americane nelle quali il regista sostituisce ai «suoi supereroi tedeschi l'uomo comune americano» (6) su uno sfondo non più astratto e maestoso ma in uno scenario indagato nelle sue pieghe più ambigue e oscure. 
 
NOTE
 
(1) PAOLO BERTETTO, "La volontà di Stile e le sue forme" in PAOLO BERTETTO (a cura di), Fritz Lang, La messa in scena, Torino, Lindau, 1993, p. 84.
(2) PIER GIORGIO TONE, Strutture e forme del cinema tedesco degli anni Venti, Milano, Mursia, 1978, p. 27.
(3) LOTTE H. EISNER, Lo schermo demoniaco, Roma, Bianco & Nero, 1955, p. 70.
(4) Ibidem.
(5) «CAHIERS DU CINÉMA», La politica degli autori, seconda parte: i testi, Roma, Minimum Fax, 2003, p. 30.
(6) PETER BOGDANOVICH, Chi ha fatto quel film, Roma, Fandango Libri, 2010, p. 275.
 
 
I NIBELUNGHI (Die Nibelungen), regia di Fritz Lang, Germania, 1924, 281' (Eureka!)