Vincitrice del premio della critica FIPRESCI nella sezione Panorama della Berlinale 2012, L’âge atomique è una pellicola  enigmatica, profondamente dark e romanticamente disperata, un’opera che in poco più di un’ora riesce a condensare lo spleen adolescenziale e l’energia vitale che caratterizza l’età inquieta. Come accennato dalle suggestioni evocate dal titolo, il primo lungometraggio di Héléna Klotz trova la ragione del suo fascino nel rifuggire la vocazione realistica per addentrarsi in una dimensione fantastica e spettrale, nella quale le disillusioni di una piccola storia individuale si confondono con quelle della Storia ufficiale. Ciò che viene narrato è un voyage au bout de la nuit compiuto da due ventenni attraverso Parigi, filmata qui in maniera straniante e inedita, come una terra di nessuno lugubre e cangiante. Un simbolo abusato e ormai svuotato di senso dal marketing e dal turismo di massa come la Tour Eiffel, ad esempio, viene  riconfigurato, in alcune visioni panoramiche, come faro che veglia sull’oceano urbano o al contrario come centro di controllo di un Panopticon metropolitano, al cui sguardo non è possibile fuggire.

L’itinerario di L’âge atomique prende avvio su un treno diretto nel cuore della Ville Lumière dove Victor, giovane insolente e passionale, e il suo compagno di viaggio Rainer – di origine polacca, più distante dalle cose del mondo e con un volto a metà strada tra gli spigoli del Duca Bianco e il vampiresco – bevono Red Bull corretta con superalcolici e intavolano una conversazione dai toni bizzarri e a tratti affettata, alternando prosa, canzone e poesia. C’è spazio per alcune osservazioni sugli Stone Roses e il loro “Re scimmia”, per un accenno ironico a In the Ghetto di Elvis, ma anche per lo scambio di un foulard, che segnala la natura ambivalente del legame che unisce i due personaggi. Victor accoglie l’oggetto come un ulteriore accessorio al suo look hipster e neodecadentista, mentre per Rainer quel regalo sottende la volontà di un avvicinamento più profondo con l’amico. Il desiderio, emotivo e fisico, così come l’identità sessuale non sono tuttavia posti dalla regista come assunti indiscutibili, ma accennati come stati fluidi e ancora in cerca di una forma, pronti a sciogliersi e a ricomporsi lungo la nottata. Héléna Klotz ha scritto la sceneggiatura insieme alla madre Elisabeth Perceval (e il lascito di Low Life, in alcune atmosfere e nel soggetto, è piuttosto evidente) puntando a esplicitare attraverso i dialoghi e i monologhi dei personaggi quello che dovrebbe essere il sottotesto della narrazione cinematografica. Rainer, ad esempio, esprime il suo caos interiore tramite la parola poetica, senza per questo risultare stucchevole, perchè il suo atteggiamento riflette ed è perfettamente coerente con la rappresentazione tragica e rimbaudiana che i protagonisti vogliono dare di se stessi.
 
La prima tappa del loro tour è il noto club Showcase, dove qualcosa di realmente profondo e struggente irrompe nella vacuità e nella noia delle loro esistenze. Victor incontra una ragazza e fatica a distinguere la fantasia che lei lo stia aspettando dalla realtà che lo vede, invece, respinto. Rainer a sua volta si trova a scansare le insistenti avances di un ragazzo. La discoteca, disorientante e seducente, è dunque il luogo del manifestarsi del desiderio e del rifiuto, ma anche della crudele messa a nudo della solitudine dei personaggi, che entrano in relazione tra loro per lo più attraverso fulminei campi/controcampi, senza mai trovarsi a condividere la medesima inquadratura. Sempre in questo spazio il realismo viene definitivamente bandito, attraverso un lavoro sul sonoro che esalta per alcuni istanti rumori di fondo e dialoghi, lasciando in secondo piano le pulsazioni della musica proveniente dalla console. 
Le tentazioni della notte – per Victor le incantevoli donne-bambine sole sulle banchine del metrò, per Rainer l’amico stesso – rischiano più volte di dividere i due personaggi. A mantenerli uniti è una misteriosa forza di attrazione, che li conduce in un’area boscosa, un’improbabile isola selvaggia nel cuore della metropoli. Parigi che si fa foresta segna anche il climax dell’evoluzione verso il fantastico del film, tanto che in questo ambiente Victor appare a Rainer con l’evanescenza di un fantasma che si aggira tra le frasche. Lontani dalla crudeltà del mondo urbano, i protagonisti confessano il bisogno, di natura diversa, che l’uno nutre verso l’altro; ma l’essere più liberi di esprimere il rispettivo universo emotivo li rende anche  più indifesi di fronte all’infelicità, e forse per questo la Klotz sceglie di abbandonarli sul confine tra mondo reale e fantastico, in un campo lungo che li vede girovagare sperduti tra gli alberi come il Blake/Kurt Cobain di Gus Van Sant.
 
Accanto a questa storia intima, la regista si confronta con le ombre di fine Novecento attraverso l’inserzione di frammenti di discorsi di Reagan e Bush senior, montati su immagini della metropoli oscura e inquietante, vista dal treno in avvicinamento. Come a dire che non è solo l’identità di Victor o quella di Rainer ad essere compromessa, ma quella dell’intero genere umano all’alba del nuovo millennio. Contribuisce a questo senso di nostalgia la scelta di una collocazione temporale del racconto storicamente indefinita: la musica diegetica, l’abbigliamento dei ragazzi e i loro tagli di capelli potrebbero tranquillamente rinviare agli anni Ottanta e Novanta, così come ai nostri giorni. E forse il martellare della techno e dell’elettronica gotica composta da Ulysse Klotz (in un crescendo che conduce a un memorabile requiem nella sequenza del bosco) è il modo migliore per celebrare questo crepuscolo dell’innocenza e l’alba del nichilismo contemporaneo.
 
 
L'age atomique, regia di Héléna Klotz, Francia 2011, 67'.