Il quesito solitamente posto dalla visione di un film di Wong Kar-wai è ricorrente: inseguire le deviazioni di una narrazione spesso frammentaria e randomica o curare solo la ricerca del Bello in ogni sua forma? Uccidere i generi per elevare la poetica dell'autore e il suo microcosmo personale esteso a macrocosmo universale oppure concentrarsi sul significato recondito di frasi esistenziali e gesti epici? La realtà dell'osservazione e del giudizio si scontra sempre più duramente con la realtà di Wong Kar-wai, quella osservata attraverso la lente deformante dell'Autore. Avviene qualcosa di simile con Lynch, specie con quello di Inland Empire, ma a rendere ancor più criptico l'enigma, in Wong, contribuisce la sua incompiutezza; voluta, insistentemente cercata, come cifra stilistica in una narrazione che pare seguire le volute di fumo da troppi oppiacei, ma allo stesso tempo causata dalle circostanze, da deadline mai rispettate, da progetti protratti così a lungo da smarrire l'intento iniziale e disperderlo in mille rivoli affascinanti, all'insegna del “come sarebbe stato se”. The Grandmaster inganna già dal titolo, che fu The Grandmasters prima di smarrire l'accezione plurale nell'etichetta e di ingigantirla nella sostanza, svuotando di significato l'oggetto di una falsa biografia (tra la voice over dell'introduzione e il silenzio che domina l'epilogo c'è tutta la differenza tra quanto atteso e quanto concluso, tra posticcio biopic e annullamento del medesimo in fieri), il maestro Ip Man, in favore di una costellazione di altri “maestri” e di altrettante sfaccettature dell'arte marziale come via privilegiata all'interpretazione dell'esistenza. 

Dodici anni per mettere insieme la storia del maestro di Bruce Lee e massimo interprete del wing chun, sconvolti magari negli ultimi mesi o settimane dell'ennesima frenetica consegna in vista di un festival, riducendo quattro ore a poco più di due e soffocando i comprimari come il Razor di Chang Cheh, ridotti a imperscrutabili silhouette di passaggio. Ma soprattutto eleggendo a protagonista assoluta la Gong Er di Zhang Ziyi, unico vero personaggio tratteggiato al di là di un abbozzo, musa delle arti marziali che per senso di onore e giustizia sacrifica vita e amori, esternando quelle emozioni e compiendo quelle scelte che un Tony Leung/Ip Man più minimalista che mai protrae fino all'inazione. In Gong Er Wong Kar-wai inserisce elementi di tutte le donne ritratte (e forse amate?) negli anni: il rimpianto melò della Maggie Cheung di Ashes of Time, la rinuncia all'amore concreto e alle ragioni del cuore dell'altra Maggie Cheung/Su Li-zhen di In the Mood for Love. Come un altro simulacro-automa del treno folle del 2046, arca di Noè delle occasioni perdute e dei sentimenti trattenuti. E al pari dell'impossibilità di sorvolare sulla comparsa (e repentina scomparsa) di figure totalmente pleonastiche – il suddetto Razor o la moglie di Ip Man, interpretata dalla coreana Song Hye-kyo – è altresì inevitabile inchinarsi di fronte alla grazia di duelli che non hanno nulla della osservanza marziale del gesto impeccabile dell'Ip Man di Donnie Yen e Wilson Yip, ma che nella loro suggestione digitalizzata sussumono ciò che muove nel profondo l'animo marziale, sconfinando in carezza amorosa (a mani tese e palma aperte) quando Ip Man incontra Gong Er. Yuen Woo-ping mette al servizio dell'intento wongkarwaiano la perizia di chi il cinema di arti marziali ha contribuito a plasmarlo – da Drunken Master fino a Matrix e La tigre e il dragone – per tramutarlo in una danza di anime inquiete, rischiarata solo dalle giallastre luci del Padiglione d'Oro, il bordello che si fa crocevia di mondi e destini (come ieri per la locanda di Ashes of Time o l'hotel di 2046) e in cui si svolge claustrofobicamente buona parte di The Grandmaster. Ma forse è solo un gioco quello di Wong, che strizza l'occhio ai suoi fan recuperando fortemente la tecnica dello step-framing che marchiò a fuoco lo spleen metropolitano di Hong Kong Express, quelle riprese dal basso di passi frettolosi sulle assi del pavimento (l'equivalente del cerino acceso di Lynch) o che riprende l'antica usanza hongkonghese di riciclare bassamente colonne sonore, infilando il tema di C'era una volta in America con una grevità fuori contesto e con ogni probabilità totalmente voluta.
 
Il cinema di Wong Kar-wai come il pentolone del maestro Ding Lianshan (Zhao Benshan), che cuoce per decenni una zuppa di serpente con la consapevolezza di poterla sprecare spegnendo troppo presto il fuoco o consumare lasciandola ardere oltre il lecito; solo le deadline lo costringono a far uscire dei film, solo le deadline gli impediscono di girare un'unica e libera narrazione free-form, senza che le esigenze di orpelli come trama, sceneggiatura e montaggio abbiano un avvilente sopravvento.
 
 
The Grandmaster (Yut doi jung si), regia di Wong Kar-wai, Hong Kong/Cina/Francia 2013, 130'.