Cenni sul cinema norvegese

Nel 1983, anno della morte di Erik Løchen, l’amico Rene Bjerke, regista e giornalista, si chiedeva: “Come è stato possibile che un film così innovativo e rivoluzionario come Jakten sia potuto nascere in Norvegia? Bisogna guardare molto lontano per trovare un paese più povero di tradizione cinematografica. Un paese così povero di idee, capace di creare un cinema nuovo? Anche [Tancred] Ibsen senior è stato costretto a lasciare il paese per creare nuove forme. […] Com’è nato Jakten? Da dove è venuto? Com’è riuscito Løchen a trovare questa forma?” (1) 
 
Più che una provocazione dal sapore truffautiano, quella di Bjerke è una constatazione non distante dal vero a cui è difficile controbattere efficacemente. Per dare un’idea orientativa, con il conforto dei numeri: in un secolo, il cinema norvegese ha toccato la modesta cifra di circa 700 pellicole (2). Un nodo problematico che fin dagli albori emerge nella cinematografia norvegese è quel movimento oscillatorio fra una vocazione-ossessione a imprimere sulla pellicola, con linee nette e decise, l’identità nazionale e una opposta tendenza “internazionalista” a ricalcare gli schemi d’intrattenimento del cinema hollywoodiano. Personaggio cruciale di questo processo fu il primo regista di quella che viene soprannominata la “Golden Age Norvegese”, Tancred Ibsen, nipote del celebre drammaturgo autore di Peer Gynt, che ritornò ad Oslo, a seguito di un’esperienza di due anni presso la MGM (come assistente di Victor Sjöström e King Vidor), col preciso intento di rinnovare il cinema nazionale secondo i dettami dello storytelling classico americano, non senza una curiosità, fino ad allora inedita, per l’assetto e le ­disfunzioni della società. Al di là di alcune incursioni nel thriller, Ibsen deve la propria fama prevalentemente a melodrammi e commedie: un genere, quest’ultimo, che dal dopoguerra in poi, raggiungendo il suo acme negli anni Cinquanta, diventerà il più popolare e di conseguenza il più perseguito dalle produzioni, quando infine si affermò un'autentica industria cinematografica norvegese, collaudata in modo efficace e resa solida (per ovvi e imposti fini propagandistici) nel periodo dell’occupazione tedesca (1940-1945) (3).  
 
Negli anni Cinquanta, il successo esorbitante di Vi gifter oss (Sposiamoci, 1951) di Nils R. Müller sancisce per un intero decennio l’egemonia assoluta della situation comedy a tema coniugale, mirata a ridefinire il ruolo del sesso (traslato in desiderio) e dei sessi entro i confini dell’istituzione matrimoniale, cavalcando l’ondata di ottimismo che la ripresa economica e il crescente progresso post-bellico diffondevano nella società (4). Dai film di Müller a quelli di Edith Carlmar, come Fjols Til Fjells (Scemi in montagna, 1957), il messaggio di fondo era inevitabilmente convenzionale e conservatore, con sporadici guizzi fuori dall’ortodosso, cucito su misura per la middle-class e le sue recenti aspirazioni al benessere e a un modello stabile di famiglia nucleare.
 
È questo il primo bersaglio contro cui scaglierà i suoi strali l’anticonformista e antiborghese Erik Løchen, ponendo come tema centrale del suo debutto nel lungometraggio, Jakten (La caccia, 1959), un glaciale ménage à trois sospeso sull’abisso delle pulsioni più torbide, con un coro di personaggi in cerca di autore che attraverso le loro discordanti e tutt’altro che disinteressate “confessioni” sfaldano la tradizionale concezione di verità, sostituendovi il primato dell’interpretazione (5). È chiaro che l’irruzione di Løchen nella temperie dei sogni ingenui e delle morali rassicuranti del cinema ufficiale appare come un gesto rivoluzionario senza precedenti. Non lo si può neppure apparentare alle coeve trasformazioni linguistiche – col passaggio dallo scabro realismo degli esordi (Gattegutter [Ragazzi di strada], 1949) allo sguardo allucinato e metaforico (Ni Liv [Nove vite], 1957) – di quello che è ritenuto il primo auteur puro del cinema norvegese, ovvero Arne Skouen. E Løchen difatti non guardava né a Hollywood né al cinema patrio, bensì si poneva in attenta auscultazione delle sperimentazioni letterarie del Nouveau Roman e, in ambito cinematografico, dei vagiti di quella che sarebbe divenuta di lì a poco la Nouvelle Vague. Se è un po’ azzardato quanto asserisce Peter Cowie, e cioè che Jakten avrebbe “anticipato le esperienze temporali di Resnais o Robbe-Grillet” (6), non si può negare tuttavia che Løchen fosse sulla stessa frequenza di innovativa urgenza dei colleghi francesi, condividendone l’orientamento disnarrativo e il rifiuto dei paradigmi “illusori” di realtà nella rappresentazione. 
 
 
Jakten, la caccia all’identità mutevole
 
Nell’incipit di Jakten, mentre scorrono i titoli di testa, il ritmo di un’improvvisazione jazz punteggia un piano-sequenza al seguito di un’auto in corsa lungo una tortuosa strada di montagna. Subito dopo lo sguardo viene dislocato altrove: quasi a voler ricercare improvvisamente la quiete, una morbida panoramica esplora uno spoglio e sconfinato paesaggio campestre, al suono soave di un’arpa. L’atmosfera fiabesca però viene turbata dai dubbi disseminati dalla voce over. All’orizzonte alcune figure scortano un trattore che trasporta una bara. Capiamo che si tratta dell’epilogo. Come pedine su una scacchiera, si materializzano due uomini e, nella nostra prospettiva, di spalle, una donna intenta a fotografarli. Il narratore comincia a intervistare-interrogare con insistenza i personaggi; loro puntano gli occhi nell’obiettivo e reagiscono indispettiti, come bestie braccate. Da qui in poi si adopereranno strenuamente nel perorare la loro personale versione dei fatti: può dunque prendere abbrivio la battuta di caccia (all’identità) e il flusso di coscienza, o meglio, il racconto apocrifo confezionato dalla loro memoria individuale. 
 
In queste scene introduttive, Løchen sintetizza l’intera impalcatura del film ed esplicita un primo elemento saliente del proprio modernismo, ovvero la vitale ed autonoma rielaborazione della lezione del teatro epico di Bertolt Brecht. Il narratore immerso (Olafr Havrevold) si mimetizza, si sovrappone al nostro punto di vista: ci chiama in causa. Manipola le nostre aspettative, stuzzica le nostre curiosità, così come fa con i tre protagonisti, Guri (Benedikte Liseth), Bjørn (Rolf Seder) e Knut (Tor Stokke); i quali intervallano monologhi interiori, fusione di coscienze in un unico ego dialogante, appellandosi persuasivamente allo spettatore e ricercandone l’accondiscendenza. Risultato: la quarta parete è rotta. Sono questi i dispositivi dello straniamento (Verfremdungseffekt), tecnica brechtiana con cui Løchen dissolve il sortilegio dell’immedesimazione aristotelica segnando un distacco tra rappresentazione e pubblico con lo scopo di stimolare il giudizio critico di chi guarda. L’altro grimaldello che contribuisce a questo processo è il ribaltamento di una cosa nota, riconoscibile, famigliare, in qualcosa d’inedito: la trama ci viene svelata all’inizio, con poche battute, quasi si volesse liquidare al più presto la faccenda per virare l’attenzione dello spettatore in altri percorsi di senso.
 
Fra questi, il più rilevante riguarda la relazione tra fatti e interpretazioni: la verità è un concetto legato alla molteplicità delle prospettive, funzionale agli interessi e agli scopi delle rispettive soggettività (7). In altre parole, l’incontrovertibile verità epistemica svanisce, lasciando campo libero alla proliferazione della doxa. È evidente che siamo dalle parti di Nietzsche, pioniere di questa configurazione veritativa (8). Nel caso di Jakten, Løchen fa risalire le differenti visioni del mondo (e dunque la specificità individuale) al delicato intrecciarsi di paura e desiderio. Guri non riesce a trovare requie a causa della sua scissione tra responsabilità muliebre nei confronti del marito Bjørn (riflesso di un timore sociale) e una tormentata passione, sebbene ostinatamente sublimata e repressa, che la spinge verso Knut. Questa dicotomia conflittuale è ben esplicitata nelle scene in cui la donna attende angosciosamente il ritorno dei due uomini: le frullano in testa immagini di loro due celati nella nebbia nell’atto di spararsi a vicenda. Bjørn e Knut sono modelli opposti del maschile secondo la sensibilità di Guri: il primo è legato alla sfera istintuale e a un’aggressività dalle sfumature erotiche – la sua fisicità ferina viene sottolineata nella sequenza in cui dà il colpo di grazia all’agnello accidentalmente investito con l’auto e ne beve il sangue – mentre il secondo è connesso alla sfera sentimentale e immaginativa – la sua foto alimenta la fantasia di Guri, il romanticismo delle sue dichiarazioni d’amore affascina la donna (9). 
 
Al relativismo dello sguardo soggettivo si connette un altro grande tema: la temporalità aleatoria. La ricostruzione degli avvenimenti della caccia sino all’incidente si mescola ad altri numerosi flashback in cui si scandagliano le radici emotive del rapporto fra i tre, dal matrimonio di Guri e Bjørn fino ai primi sospetti di adulterio. In questi andirivieni di ricordi, i piani temporali si confondono in un’unica corrente, i personaggi non sono distaccati dal materiale raccontato, sono inabissati nella paradossale attualità dell’evento rievocato. Un meccanismo simile a quello di Hiroshima mon amour (1959), considerato primo esempio di Nouveau Roman cinematografico, presentato peraltro proprio al 12° Festival di Cannes insieme a Jakten. In entrambi i film, difatti, il tempo newtoniano viene soppiantato dalla percezione interiore del soggetto, completamente calato nel tempo della memoria, la dimensione in cui bergsonianamente la forza dinamica della reminiscenza e l’effettività del presente convivono, si contagiano a vicenda. Per Løchen questo scenario psicologico si ricollega al concetto d’identità personale. Verso la fine di Jakten, in un segmento dagli echi bergmaniani, dove il primo piano-volto diventa la figura retorica dominante (10), Guri continua a chiedersi, mentre si osserva riflessa in uno stagno, chi c’è oltre lo specchio e cioè chi c’è veramente dietro l’immagine di noi stessi che ci costruiamo giorno per giorno. Ci viene offerta una simbolizzazione visiva dell’esistenza: come il movimento dell’acqua, anche la vita prende rotte imprevedibili; si cerca di imparare il legame tra le cause e gli effetti, ma in entrambi i casi ogni tentativo è vano: lo stato delle cose è transitorio, mutevole. 
 
 
Motforestilling: the audience’s cut 
 
Løchen tornerà al lungometraggio soltanto una seconda volta, a distanza di ben ventiquattro anni da Jakten, con Motforestilling (Obiezione, 1972). In Norvegia, nel frattempo, si è affacciata una nuova generazione di cineasti interessati al cinema politico e massicciamente influenzata dalle novità formali della Nouvelle Vague. Su un versate troviamo autori come Pål Løkkeberg (Liv, 1967; Exit, 1970) che dimostrano di aver assimilato con intelligenza le intuizioni e le sperimentazioni di Jean-Luc Godard; dall’altro, registi stilisticamente più misurati e di maggior impegno politico come Anja Breien (Voldtekt [Stupro], 1971) e Oddvar Bull Tuhus (Streik! [Sciopero!], 1975). Queste due tendenze trovano la loro sintesi in Motforestilling, sicuramente l’opera che in quel periodo meglio è riuscita a coniugare innovazione formale e critica socio-politica. 
 
Se in Jakten il regista allestiva un cinema aspro, spigoloso, che rifiutava categoricamente di scendere a compromessi con lo spettatore, richiedendogli invece un attento lavoro ermeneutico, in questo meta-film Løchen tenta di spingersi ancora più in là, creando uno spazio magmatico privo di qualsiasi tracciato guida, in cui le possibilità di libertà sono pari ai rischi di smarrimento. La chiave per orientarsi autonomamente sta nella responsabilità che ognuno deve assumersi nel momento in cui conferisce senso a qualcosa. “Cerchiamo un pubblico che pensi e siamo persuasi che esista” è la convinzione che presuppone questa sfida. L’idea audace che ne consegue è quella di suddividere Motforestilling in cinque blocchi autosufficienti che possono essere ricombinati in 120 versioni diverse. Un esperimento di cinema embrionalmente interattivo che all’epoca ovviamente incontrò grossi problemi di fruizione. La scelta originaria di Løchen, ad ogni modo, era di mettere sotto processo il potere del medium cinematografico (servendosi dei mezzi dello stesso) e di esortare lo spettatore a diventare parte integrante della produzione di senso filmico. Inutile dire che la scommessa non riuscirebbe se la libertà di montaggio concessa allo spettatore (a livello di macrostruttura) non fosse giustificata anche dal linguaggio intrinseco ai singoli blocchi filmici. Osserviamo dunque Løchen ricorrere a un’instabilità enunciativa che si presta perfettamente alla variabilità di qualsiasi giudizio individuale, permettendo così una costante rinegoziazione dei significati.
 
La contestazione – ecco l’obiezione a cui fa riferimento il titolo – comincia dalla forma. In Motforestilling la forma è esplosa a tutti i livelli: con ciò il film trova la propria coerenza informale. Ma sebbene non ci sia una pretesa mimetica nei confronti della realtà – come vedremo più avanti – c’è l’inconfessato desiderio di simulare l’incertezza percettiva con la quale dobbiamo fare i conti quotidianamente e che possiamo risolvere in una scelta consapevole e meditata, oppure non risolvere affatto, abbandonandoci all’inerzia della routine, all’assimilazione passiva di pensieri e desideri confezionati da altri, all’intorpidimento della coscienza, allo stallo esistenziale. Con questa strategia, Løchen invita appunto a concepire il cinema non come un’evasione ricreativa, bensì come un’esperienza di vita.
 
In una delle prime sequenze, il portavoce diegetico dell'autore – incarnato da Espen Skjønberg, nel ruolo di un regista – asserisce, parlando del film che andrà a realizzare: “Non è il nostro scopo [catturare il pubblico]. È la realtà che ci cattura. Essa però non può essere catturata. Neanche ci proviamo.” Una dichiarazione d’intenti che si riallaccia direttamente alle parole pronunciate da Løchen in una intervista: “Io credo nella realtà cinematografica, ma non in quella che pretende di essere essa stessa la realtà. C’è una grande differenza tra un intreccio guidato dal regista e delle cose che intervengono di loro spontanea iniziativa.” Sul set del film “senza fine né inizio”, come viene battezzato dal personaggio-regista, e che forse sarà intitolato “Andata e ritorno: equidistanti?” avviene un incontro-collisione fra i tòpoi dell’immaginario cinefilo e il dibattito politico corrente: schegge di thriller spionistico, legal thriller e melò di prorompente incisività e screziate di umori kafkiani vengono scosse e riconfigurate, nelle loro rispettive valenze, dalle inquietudini e dal caos ideologico dei giovani della troupe, orfani del Sessantotto e seriamente preoccupati dai possibili risvolti esiziali della Guerra fredda. Non si tratta di una connessione calcolata, ma di una libera associazione freudiana da cui risulta che le accese discussioni politiche nate nelle pause della lavorazione diventano cinema perché c’è una mdp a immortalarle e al tempo stesso le scene di “finzione” del film progettato dal regista sono abitate dallo spettro di una paranoia cospirativa e dall’angoscia per un ritorno dei totalitarismi (11). La costruzione in abisso difatti sostanzia il concetto secondo cui l’atto creativo autentico è inscindibile dall’atto politico.
 
Jakten e Motforestilling sono due fasi di un unico tragitto di progressiva destrutturazione linguistica che culmina in una liquidità formale che di fatto sancisce un punto di non ritorno del cinema di Løchen. Un cinema innervato di una vitale ossessione polisemica che ha ricercato costantemente una sintesi tra istanza poetica e istanza politica. Considerato oggi un cineasta “classico” in Norvegia, è stato invece, dal punto di vista storiografico, un autentico “alieno” nel panorama del cinema nazionale. Un autore che, a tutt’oggi, sfortunatamente e incomprensibilmente rimane sconosciuto a larga parte del pubblico internazionale, così come testimonia la disarmante povertà di studi critici a lui dedicati e l’indifferenza riservatagli dalla distribuzione.
 
 
NOTE
 
(1) S. WIK, Fragmenter av Erik Løchen in Cinemateket (http://www.cinemateket-usf.no).
(2) Un paragone orientativo: nel decennio in cui debutta Løchen, la Norvegia arriva a produrre appena 75 pellicole, contro le 224 della Finlandia e le 315 della Svezia. 
(3) P. VON BAGH, "Cinema in Finlandia, Norvegia e Svezia: gli anni trenta", in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 3° vol., L'Europa. Le cinematografie nazionali, t. 1°, Torino 2000, p. 391. 
(4) G. IVERSEN, Norway, in Nordic national cinemas, ed. G. Iversen, T. Soila, A. Söderbergh Widding, London-New York 1998, p. 122.
(5) Il tentativo di qualche critico di rintracciare nel triangolo amoroso di Jakten una possibile ispirazione per François Truffaut, che di lì a qualche anno realizzerà Jules e Jim, non può essere considerato che una supposizione, per quanto suggestiva. Ammettendo pure che Truffaut non fosse già stato rapito dal mondo di Roché (il cui romanzo risale al ’53), i punti di contatto fra il triangolo di Jakten e Jules e Jim sono  affatto marginali. Laddove Løchen indaga il crescendo perverso del desiderio nella contesa della stessa donna, a Truffaut interessa maggiormente l’amicizia tra i due protagonisti, nonostante l’amore di entrambi per Catherine.
(6) “Il cinema norvegese sembra esser sfuggito alle tendenze che si sviluppavano in altri paesi, almeno fino alla fine degli anni ‘60. Si direbbe che il film di Erik Løchen, La caccia, abbia anticipato le esperienze temporali di Resnais o Robbe-Grillet, ma i registi norvegesi tendevano piuttosto a rispondere alle esigenze del pubblico locale, mentre l’espressione dei loro sentimenti sotto forma cinematografica non veniva che in secondo luogo” P. COWIE, Scandinavian Cinema: A Survey of the Films and Film-Makers of Denmark, Finland, Iceland, Norway, and Sweden, Tantivy Press, 1992.
(7) Lo sviluppo di questo itinerario ricorda per certi versi la splendida costruzione di Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Nel film, le diverse testimonianze d’innocenza – in realtà tutte false – dei tre personaggi coinvolti nel delitto venivano illustrate per immagini, le quali a loro volta dimostravano quanto il cinema potesse essere credibile e convincente nel momento stesso della menzogna. Il cinema come arte della bugia per eccellenza. 
(8) “Che cos’è la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile” F. NIETZSCHE, "Verità e menzogna in senso extramorale" in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Adelphi, Milano, 2003, p. 233.
(9) In una variazione dell’archetipo di La regola del gioco (1939) di Jean Renoir in cui la caccia era la metafora dei rapporti di dominio tra classi, la caccia di Løchen esplora i meccanismi dei rapporti di dominio tra i sessi, dove la protagonista femminile è destinata al ruolo della preda contesa tra i due uomini.
(10) Per la definizione di primo piano–volto applicato al cinema di Ingman Bergman si veda G. DELEUZE, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano, 1989.
(11) Una tensione opprimente che riecheggia vagamente il primo e l’ultimo film della Trilogia della Paranoia di John Frankenheimer, Va’ e uccidi (The Manchurian Candidate, 1962) e Operazione diabolica (Seconds, 1966)
 
JAKTEN, regia di Erik Løchen, Norvegia, 1959, 94'
MOTFORESTELLING, regia di Erik Løchen, Norvegia, 1972, 97'