Huillet e Straub, ma soprattutto enrico ghezzi, lo definirebbero un tipico esempio di troppopresto/troppotardi. Hardware di Richard Stanley, enfant prodige fermatosi prematuramente al secondo lungometraggio vent'anni fa, ha tutto per apparire nella videoteca ideale tanto del patito del gore anni '80 che in quella del malato di fantascienza e cyberpunk, incapace di riprendersi dalla sbornia di Blade Runner e Terminator e desideroso di nuove variazioni sul tema man vs. machine. Prima che Matrix e i '90 trasformassero il cinema di genere in una faccenda attenta innanzitutto a esibire le delizie del digitale e nascondere la mancanza di mezzi, lasciando sostanzialmente una tabula rasa dove prima solevano germogliare i semi degli Stuart Gordon e dei Brian Yuzna. Giusto lì, a cavallo tra i due decenni, nel 1990, i fratelli Weinstein e la loro Miramax distribuiscono negli States un low-budget con le stimmate del cult e la naïveté del trash più sereno, prodotto in Gran Bretagna e diretto da un promettente regista sudafricano. Ispirato assai più da Mario Bava che dal cyberpunk a cui l'intreccio parrebbe mirare, Hardware mette ben presto in chiaro la propria natura e non guarda per il sottile: espediente pretestuoso, avventuriero senza scrupoli, damigella in pericolo con eterno duello tra la Bella e la Bestia, sesso – con tanto di doccia galeotta – e sangue, con smembramenti che Frank Hehenlotter avrebbe apprezzato. 
 
Ma il plot di genere non soffoca le ambizioni di un debuttante desideroso di strafare come Richard Stanley da Fish Hoek. Che nicchia giocando con simbolismi pericolosi – la (ri)creazione dell'artista che (ri)prende vita, il doppio voyeurismo depalmiano del vicino bavoso e del robot che osserva l'osservatore, il tentativo di penetrazione tra macchinico e umano, a un solo anno di distanza da Tetsuo – per poi lasciarsi andare a esplosioni visionarie. A partire dal robot stesso, M.A.R.K. 13, macchina di morte confezionata da un governo con un'inclinazione al genocidio e agghindata come una bandiera di Jasper Johns ambulante (nella creazione lo zampino di un giovane Chris Cunningham, poi genietto del videoclip fanta-horror), che domina il network come i peggiori media, ricaricando energia dalla presa elettrica per trasformare ogni oggetto in un'arma letale. Per giungere al coté biblico-psichedelico, tra premonizioni e profezie, allucinazioni lisergiche e dominanti rosse che si divorano lo schermo già dall'incipit. Prologo che in qualche modo prefigura il deserto – ormai espressione metonimica dello scenario post-atomico – di Demoniaca e che apre al cinismo amaro del dj radiofonico interpretato da un Iggy Pop presente solo in voce, diversamente da Lemmy dei Motorhead che compare in un cameo memorabile, in cui ascolta se stesso.
 
La componente rock'n'roll di Hardware resta uno dei suoi maggiori punti di forza, fotografando uno snodo fondamentale nel rock dell'epoca, il cosiddetto industrial di gruppi come Ministry, incrocio malsano di alienazione industriale e trasgressione rock: la familiarità di Stanley, che continuerà a girare clip anche dopo aver sostanzialmente smesso con il cinema, con il medium della clip musicale e le musiche di Simon Boswell (Argento, Jodorowsky, Barker) fanno il resto, aggiungendo la texture audio opportuna per una storia esemplare di apocalisse claustrofobica, di minaccia per l'umanità intera chiusa tra le pareti di un appartamento. Mad Max + Dovevi essere morta + Terminator + Mario Bava = una visione a cui tornare con l'occhio nostalgico di chi sente che un pezzo di cinema (confusionario e approssimativo,  quanto libero e rigoglioso di spunti creativi) se ne sia andato e con esso – Demoniaca lo conferma – un talento dal potenziale probabilmente inespresso, alieno alle meccaniche odierne dell'industria del fantastico.

HARDWARE, regia di Richard Stanley, USA/UK 1990, 94' (Pulp Video – Cecchi Gori Home Video)