La casa è l’esordio nel lungometraggio del regista uruguayano Fede Alvarez. Si tratta del remake dell’omonima opera di Sam Raimi (un altro esordio) del 1981, secondo la pratica, invalsa negli ultimi anni, di rimodellare, spesso soltanto riadattandoli al nuovo gusto per l’acinéma, gli horror degli anni Settanta e Ottanta con cui è crescita una generazione di cinefili, fan, o semplici spettatori.

Sotto le forche caudine di questo truculento pimp up sono passati, ad esempio: Le colline hanno gli occhi nel 2006 (e il suo seguito l’anno successivo), Venerdì 13 nel 2009, Non aprite quella porta, ahinoi, già due volte (nel 2003 e, in 3D, nel 2013), per tacere del prequel del 2006. E non si è voluto lasciare indenne nemmeno il povero Freddy Krueger. Su un piano leggermente diverso si collocano i due Halloween di Rob Zombie, ma non è certo la sede per prodursi in un’arringa più o meno difensiva.

Un remake è, letteralmente, un "ri-facimento", nondimeno le modalità con le quali viene condotto il lavoro e le finalità per cui esso viene realizzato possono essere infinite. In soldoni, si può riassumere rilevando come le ragioni che hanno spinto Herzog a ripercorrere le orme di Murnau, o Van Sant a «ricalcare» Psycho, siano di specie ben diversa rispetto a quelle che hanno pilotato Roland Emmerich a rigirare Godzilla. Non è il caso di abbozzare in poche righe una teoria generale del remake (che peraltro, come forma e pratica cinematografica, ha i suoi studiosi devoti, tra cui ad esempio, Constantine Verevis e Pietro Piemontese). Tuttavia si può affermare che, per quanto concerne gli horror di cui parliamo e, in modo particolare, per la versione de La casa di Alvarez, la chiave di volta sia proprio l’acinéma, ossia la «pirotecnia» del contemporaneo. Tanto si è detto sulla tendenza del cinema d’oggi di plasmarsi sulla serialità televisiva (di cui il ramake è senza dubbio una manifestazione "spiritica") e sulla maggior dose di "realismo" che gli spettatori paiono richiedere attualmente al "prodotto cinematografico". Tali caratteri, comunque, possono assumere contorni più netti se li si illumina mediante quel dispendio di mezzi che Jean-François Lyotard già individuava nei testi audiovisivi di quarant’anni fa, quando teorizzava, appunto, l’acinéma. Il concetto del filosofo francese ha però assunto un significato definitivo nel tempo, proprio grazie alle forme ultime dello spettacolo postmoderno. La negazione del cinema pensata da Lyotard (a-cinéma) risiede oggi nella necessità dello spettatore di un’esperienza che trascenda la semplice visione, o audio-visione, propria del film sonoro. Si ricerca una maggiore prossimità con il testo, che giunge a rinnegare la fruizione e la forma "tipiche" del cinema. Da qui la serialità, i personaggi che ritornano (come avviene in TV, dove li si vuole conoscere meglio), ma soprattutto, gli effetti speciali digitali che possono, ad esempio, produrre piani sequenza e profondità di campo prima impensabili (un trionfo dell’ontologia di Bazin, ma che ne è, al contempo, la beffa definitiva), oltre che, naturalmente, la terza dimensione. Il film di Alvarez risulta pienamente inserito in tale contesto.

Lo spettatore postmoderno, lo abbiamo detto, richiede al film un maggior realismo, anche se forse, sarebbe meglio parlare di maggiore verosimiglianza, o semplicemente, di maggiore credibilità nelle storie e nella messa in immagini. Inoltre, le attuali opere risultano spesso costellate di citazioni e rimandi, sia interni, sia ad altri film e testi: ciò non tanto perché ci si sia raffinati nei gusti e si sia divenuti dei sofisticati cinefili in cerca di intertestualità, ma perché i nuovi prodotti mediali, come ha efficacemente sostenuto Xan Brooks sul Guardian, ci hanno reso tutti più nerd. I nuovi horror fanno proprio questo e La casa porta probabilmente al parossismo siffatti elementi: c’è la maggiore verosimiglianza rispetto alle due "case" di Raimi, ci sono le citazioni degli universi dell’horror e del gotico e ci sono i rimandi al film precedente, comprensivi di comparsa post-titoli dell’attore Bruce Campbell, mitico protagonista della vecchia versione.

Il modo in cui tutto ciò è declinato però, rende questo film qualcosa di completamente diverso rispetto alla pellicola di Raimi e tuttavia, ponendosi esso stesso continuamente a confronto con l’antecedente, replicandone tutte le situazioni e perfino qualche inquadratura, non può che uscire sconfitto dal paragone. Innanzitutto, pretendere di inserire verosimiglianza e maggior crudezza, cercando di conservare lo "spirito" del film modello, è operazione distruttiva: la peculiarità del primo infatti, risiedeva proprio nei risvolti ironici, eccessivi, perfino cartooneschi. Gli arti smembrati, i getti di sangue e le bave biancastre di Raimi, corredati di animazioni a passo uno, erano palesemente eccedenti e surreali; il fatto che una ragazza si amputi una mano con una sega elettrica per sfuggire alla possessione, nel film di Alvarez risulta fuori luogo: non vogliamo atteggiarci ad alfieri del realismo (parlando di cinema non lo si dovrebbe fare mai), ma un momento manifestamente esagerato, dopo le premesse di una messa in scena nelle corde del "verosimile postmoderno", risulta straniante senza volerlo essere. Nel film di Raimi, i vari personaggi, una volta toccati dall’entità evocata dal libro maledetto, si trasformavano letteralmente in grotteschi mostri, alterati dalla plastilina animata e con un paio di occhi bianchi, più da cartone animato che da demone; nel remake, essi vanno incontro ad una possessione, ricalcata sui sintomi riportati nell’opera a riguardo paradigmatica, ossia L’esorcista: autolesionismo, vomito (in questo caso di robaccia sanguinolenta), incontinenza urinaria e via di questo passo, con qualche mostruosità aggiuntiva, seminata qui e là. Realismo.

L’asprezza della narrazione contemporanea richiede poi che la protagonista femminile sia una tossicodipendente e, francamente, l’attrice che la interpreta, Jane Levy, risulta più spaventosa nel riprodurre la crisi d’astinenza, piuttosto che la possessione demoniaca.

Il pretesto è ancora il libro-maledetto-rivestito-in-pelle-umana, sul modello del Necronomicon, che dà vita alle antiche entità, evocate da formule arcane, le quali si manifestano tramite soggettive striscianti; tuttavia questa volta, tanto per fare dell’intertestualità, si aggiunge una sequenza d'apertura nella quale il proprietario del libro, accompagnato dai consueti-rednek-deformi, è costretto a bruciare su un rogo improvvisato la figlia indemoniata. La ragazza ritornerà nel finale (ma anche in alcuni brevi momenti sparsi), in versione fantasma-mostro-rancoroso-coi-capelli-sul-volto, che sappiamo tutti a cosa rimandi. L’allegra compagnia di ragazzotti e la dinamica dell’evento sembrano, per di più, appartenere con precisione millimetrica alla liturgia brillantemente compendiata in Quella casa nel bosco. Pensiamo che quel film fosse un appello a cambiare le cose, a guardare più in là.

Stiamo aspettando.

La casa (Evil Dead), regia di Fede Alvarez, USA 2013, 91'.