In tempi recenti, il concetto di "Vulgar Auteurism" (d'ora in avanti VA) ha generato un profluvio di scritti e discussioni all'interno della cultura cinematografica online. Mi piacerebbe offrire alcune osservazioni rudimentali e avanzare alcune questioni al riguardo.

VA è una definizione peggiorativa utilizzata per la prima volta dal critico canadese Andrew Tracy su Cinema Scope quattro anni fa. Successivamente è stata abbracciata non troppo seriamente come distintivo di riconoscimento da parte di un ampio gruppo di critici online, il più noto dei quali è Ignatiy Vishnevetsky.

VA fa riferimento a un particolare approccio critico contemporaneo che focalizza la propria attenzione su registi operanti in ambito popolare, e in particolare all'interno di generi poco "rispettabili" come l'horror, l'action o il thriller. I nomi dei registi che affiorano più spesso all'interno di queste discussioni sono quelli di Tony Scott, Neveldine/Taylor, Paul W.S. Anderson, John McTiernan, Isaac Florentine, John Hyams e Michael Bay. L'articolo di Calum Marsh pubblicato poco tempo fa sul Village Voice offre una buona introduzione all'argomento, e il post di Peter Labuza fornisce un contesto adeguato e una bibliografia in grado di tracciarne lo sviluppo in rete nell'arco degli ultimi anni.

Il saggio di Tracy pubblicato su Cinema Scope (numero 40, autunno 2009) era dedicato al cinema di Michael Mann, con particolare attenzione a Nemico pubblico, appena distribuito. Benché all'interno del testo non se ne faccia menzione esplicita, Tracy alludeva chiaramente a un precedente e rilevante saggio critico di J. Hoberman pubblicato nel 1982, intitolato “Vulgar Modernism”.

Il pezzo di Hoberman era destinato a lettori “colti” (quelli di Artforum, in cui era pubblicato) e identificava una particolare sensibilità e un certo tipo di opera artistica popolare che, benché “bassa” a livello di status culturale, non mancava di possedere audacia e inventiva nel servirsi di formalismo, ironia, autoriflessività (questi ultimi, tratti eminentemente “modernisti”). Per Hoberman, questa particolare sensibilità “si era sviluppata tra gli anni '40 e '60 del '900 nei cartoni animati, nei fumetti, in televisione e in alcune commedie di Dean Martin e Jerry Lewis”. Aveva eletto Tex Avery il “Manet del modernismo volgare” e citava Frank Tashlin come il più fervido praticante cinematografico.

Il saggio di Tracy non condivide il medesimo obiettivo. Hoberman si sforza di attribuire una certa distinzione ad alcuni artisti popolari e artefatti (basso)culturali, mentre Tracy esprime il proprio disappunto nei confronti di quella che considera una tendenza generalizzata, propria di quest'epoca, a elevare al di sopra dello status che compete loro registi “popolari”, per ammetterli nel canone, volenti o nolenti. Lamenta la sopravvalutazione del cinema popolare americano da parte dei critici, con particolare riferimento al “formalismo pretestuoso” che accomuna molti registi del VA.

Ma soffermiamoci sul termine “vulgar”. Cosa significa in questo preciso contesto? Sia Hoberman che Tracy lo utilizzano in riferimento a prodotti di basso valore culturale (prodotti “comuni”), ma l'uso che ne fa Tracy esprime anche un giudizio negativo riguardante la qualità dei film. A suo parere, il VA elogia spesso film “poco riusciti”, disinteressandosi del giudizio critico. Anche se va detto che quasi tutta la critica contemporanea non si serve della definizione in riferimento a una mancanza di qualità ma solo a una mancanza di prestigio culturale. Il critico del VA sostiene determinati registi popolari esaminandone accuratamente il lavoro e prestando loro la medesima attenzione critica che normalmente si riserva a registi stranieri o, come si sarebbe detto un tempo, d'essai.

Davvero abbiamo bisogno del termine “vulgar auteurism”? Rappresenta forse qualcosa di nuovo?

Credo che sarebbe utile storicizzare questa discussione e esaminarla alla luce della prima ondata di riflessione autoriale nella Francia negli anni '50. Ricordiamo che i critici dei Cahiers du Cinéma dell'epoca ammiravano e sostenevano due tipi diversi di registi: autori europei che oggi negli USA verrebbero considerati “art-house” (Rossellini, Bresson, Renoir) e registi hollywoodiani la cui produzione, in rapporto agli altri, era considerata “volgare” (Hitchcock, Hawks, Ray). Potremmo fare un passo avanti e dire che questi ultimi erano più importanti per la “teoria degli autori” perché erano in grado di infondere il proprio marchio su film realizzati all'interno di un sistema produttivo industriale. Ciò trasformava il sostegno a questi registi americani in un gesto politico. Poiché la “teoria degli autori” non riguardava la maniera in cui vengono fatti i film ma piuttosto una pratica di lettura critica che sottolinei “il segno espressivo” di un autore, essa portava con sé un'indubbia valenza politica quando veniva applicata a un regista che lavorava all'interno delle strettoie di un sistema di produzione industriale. Dunque mi domando: la critica a sostegno del VA oggi porta con sé un'analoga valenza politica? O non è piuttosto formalista, nel dedicare le proprie energie a identificare e descrivere strategie stilistiche associate a particolari cineasti?

Un'altra differenza sostanziale tra la “teoria degli autori” di stampo classico e il VA risiede nei loro opposti programmi. I critici dei Cahiers non erano solo a favore di un certo tipo di cinema ma anche contro un certo tipo di cinema: quello della “tradizione di qualità”. Il VA prende seriamente e recupera una particolare classe di cineasti che la maggior parte dei critici sembra liquidare senza pensarci due volte, ma non si dichiara contro altri tipi di cinema.

Mi sono anche accorto che quasi tutta la critica del VA è dedicata a generi “mascolini”, con particolare attenzione al thriller d'azione, mentre altri generi – meno mascolini ma ugualmente bassi –, come il teen movie, le commedie romantiche e i film danzerecci non sono adeguatamente rappresentati. E tra le fila dei sostenitori del VA le donne sono in numero assai inferiore rispetto agli uomini.

Per concludere, ho due grandi riserve personali rispetto alla VA. Innanzitutto mi disturba il fatto che nella maggior parte dei casi non sia altro che una maniera per giustificare in maniera facilona e banale l'attenzione di critici e cinefili nei confronti di film di genere spettacolari, multi milionari e ipercapitalisti. In seconda battuta, mi disturba il suo essere americano-centrica.

Un'ultima riflessione: posso immaginare almeno una conseguenza prolifica di questa tendenza critica identitaria. Uniti sotto l'egida di questo movimento, i critici del VA potrebbero sforzarsi di dimostrare attentamente perché ritengono questo cinema che amano così valido. Ciò di cui abbiamo bisogno sono argomentazioni concrete, dettagliate e persuasive in grado di portare prove a sostegno della necessità di aprire i nostri occhi alle virtù di questi film. Ho drizzato le orecchie quando Marsh, nel suo pezzo sul Village Voice, ha brevemente alluso al “senso dello spazio visuale” di Justin Lin in Fast and Furious 6 o alla maniera in cui produce una sensazione di dislocamento in Giappone. Chiediamo a questi critici letture e analisi articolate e sviluppate in profondità, così da dimostrare che c'è anche sostanza sotto la facile presa della definizione "vulgar auteurism".

(Testo pubblicato per gentile concessione dell'autore; traduzione di Alessandro Stellino)