Sin dalle sue origini, il cinema slovacco è stato caratterizzato da un complesso di inferiorità nei confronti del cinema realizzato a Praga (certamente meglio organizzato sotto il profilo industriale e produttivo rispetto a quello di Bratislava), incapace di liberarsi di un certo spirito regionalistico che incide negativamente sulla scelta dei soggetti da portare sullo schermo. Se intorno al 1940 si segnala un tentativo di “emancipazione” e di uscita da quello che molti storici definiscono come una sorta di costante “dilettantismo”, la guerra prima e l'entrata nella sfera di influenza sovietica poi (con il relativo schematismo dogmatico imposto dal dirigismo del Partito Comunista) incidono negativamente sulle velleità di crescita di una realtà che riuscirà a imporsi come cinematografia autonoma solo negli anni Sessanta.

Per questo, quando nel 1962 appare sugli schermi Slnko v sieti (Il sole nella rete), dello slovacco Štefan Uher, in pochi intuiscono la portata storica di un evento apparentemente di poco rilievo. Infatti, sarà proprio il secondo lungometraggio di Uher a segnare una vera e propria rottura per tutto il movimento cinematografico nazionale dando il via a quella che ancora oggi siamo abituati a chiamare la Nová vlna, la nuova ondata del cinema cecoslovacco. D'altronde, i cinque anni tra il 1956 e il 1961 sono determinanti per tentare di colmare le distanze tra il cinema cecoslovacco (inteso come fenomeno globale) e quello del resto d'Europa: la prima importante decisione è la progettazione e l'apertura degli Studi Barrandov a Praga; la seconda è la scelta di investire maggiori risorse nella F.A.M.U., l'Accademia di cinematografia (1). Sempre nel 1962 viene distribuito Pytel blech (Un sacco di pulci), della ceca Vĕra Chytilová, mentre l’anno successivo è la volta dell’esordio al lungometraggio di finzione di Miloš Forman con Černý Petr (L'asso di picche), che segnano una discontinuità netta rispetto alla massa della produzione di quel periodo, caratterizzata da film di ambientazione storica, commedie sentimentali, pellicole dal tono “edificante”, documentari didascalici e molte opere d’importazione dai paesi “amici” del Patto di Varsavia, Unione Sovietica su tutti.

Come noto, la seconda metà degli anni Sessanta segnerà il culmine del processo di rinnovamento grazie a un gruppo di cineasti – Chytilová, Ivan Passer, Jan Němec, Jiří Menzel, Forman, Juraj Jakubisko, Jireš, Pavel Juráček, Evald Schorm, Antonín Máša, Hynek Bocan, Eleo Havetta, Uher – accomunati non solo dal luogo di formazione (il F.A.M.U. di Praga), ma anche da intenti e prospettive simili: “A unirci era un ideale non tanto estetico, quanto piuttosto politico. La libertà allora mancava, ma non mancava la speranza”, avrebbe dichiarato a distanza di anni Jireš. Film come Sedmikrásky (Le margheritine, 1966), di Chytilová – vero e proprio manifesto di sperimentazione -, Ostře sledované vlaky (Treni strettamente sorvegliati) di Jiří Menzel (di certo il film cecoslovacco più noto all'estero, anche e soprattutto grazie al Premio Oscar per il Miglior Film Straniero ottenuto nel 1966) e Zbehovia a pútníci (I disertori e i nomadi, 1968) di Jakubisko, scatenano le ire della parte più conservatrice della dirigenza del Partito Comunista, attirandosi invece i consensi dei protagonisti della futura Primavera di Praga.

Una delle conseguenze dell'invasione sovietica che nell'agosto del 1968 porrà termine all'esperienza di rinnovamento cecoslovacca sarà anche il sostanziale blocco della produzione più libera e sperimentale del cinema nazionale. A inizio degli anni Settanta il numero dei film a soggetto si ridurrà alla metà di quella registrata nel quinquennio precedente, con un'accelerazione verso la produzione di documentari piuttosto allineati con le direttive delle autorità. Nel 1973 sarà reso pubblico una sorta di “indice dei film proibiti”: forse è scontato ricordare che vi comparirà gran parte delle pellicole più importanti del cinema cecoslovacco dalla seconda metà degli anni Sessanta ai primi del decennio successivo. E, infatti, Chytilová non riuscirà a lavorare per sei anni, Menzel per cinque, Schorm si dovrà “rifugiare” nel teatro, Forman e Passer si trasferiranno all'estero, mentre altri dovranno forzatamente rientrare nelle strette maglie della volontà del regime.  Facciamo un passo all'indietro per focalizzarci sul contesto che conduce e che accompagna quell'esplosione di novità e vitalità che Il sole nella rete annuncia in modo repentino e inaspettato.

Il 1956 è l'anno della svolta per le vicende del socialismo reale nei Paesi del Patto di Varsavia. Due eventi lo caratterizzano: dapprima, in febbraio, il XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica segnato dalla presa di posizione dell'allora Segretario Nikita Chruščёv contro il culto della personalità, il dogmatismo, l'arte concepita come mero veicolo di propaganda. In Cecoslovacchia, il rinnovamento artistico e estetico si registra in particolare in letteratura con la pubblicazione di opere come Perlička na dně (La perlina sul fondo) di Bohumil Hrabal (da cui sarà tratto l’omonimo film collettivo che unisce alcuni tra i più noti nomi della Nová vlna: Menzel, Chytilová, Němec, Schorm e Jireš) e del primo quaderno di Směšné lásky (Amori ridicoli) di Milan Kundera (già docente di Letteratura alla F.A.M.U.). La vita teatrale è molto movimentata, soprattutto a Praga: Václav Havel mette in scena Festa all’aperto, pungente satira della burocrazia comunista, prima di una serie di pièce sull'argomento.    

Nel 1963 il filosofo marxista Karel Kosík pubblica Dialettica del concreto, opera in cui individua le storture che portano alla totale reificazione dell'individuo nel sistema del socialismo reale. Sempre nello stesso anno, a Praga viene organizzato un convegno internazionale di studi in occasione dell'ottantesimo anniversario della nascita di Franz Kafka, scrittore sino ad allora particolarmente osteggiato dalle autorità.

Nell'ambito cinematografico, tuttavia, le novità tardano ad arrivare. Nel 1959, durante l'XI Congresso del Partito Comunista Cecoslovacco, viene attaccato e tacciato di revisionismo, formalismo e soggettivismo un film come Le notti di settembre (Zářijové noci, 1957) di Vojtěch Jasný, pellicola ambientata in uno dei luoghi ricorrenti della produzione dell'epoca, ovvero la vita dell'esercito, trattata in maniera poco convenzionale ma certamente non rivoluzionaria. Sempre nello stesso anno, a Banska-Bystrica si tiene un congresso tra funzionari di partito, operatori del mondo del cinema e critici. La linea emergente da questo simposio è del tutto sovrapponibile a quella dell'XI Congresso del Partito Comunista. Viene redatto una sorta di manifesto e soprattutto viene promulgato un elenco di film proibiti. La censura si riaffaccia dunque con forza sugli schermi di Praga. Il risultato di Banska-Bystrica è il ritorno ai temi tipici del socialismo reale: lavoro, lavoratori, lotta di classe, adattamenti letterari in linea con i dettami del Partito. Nessuna propensione verso vicende romantiche o di approfondimento psicologico, men che meno spazio alla sperimentazione e all'innovazione.

Ma un forte alleato del cinema è la letteratura: sono proprio i giovani scrittori cecoslovacchi a rifiutare di tracciare eroi positivi e monolitici quali protagonisti di storie edificanti e prive di sfumature. Alla stessa F.A.M.U. una nuova generazione d’insegnanti mostra agli studenti i film del cinema Neorealista italiano e della nascente Nouvelle Vague francese. Presso l'Unione degli Artisti del Teatro e del Cinema la sezione Cinema assume delle posizioni coraggiose nei confronti della censura, sfidandola e a volte vincendo la dura battaglia, grazie all'introduzione di gruppi di produzione con ampi margini d’autonomia. Tuttavia, ancora in pieno 1962, la situazione resta piuttosto dura.

Nato nel 1930 in Slovacchia, a Prievidza (morirà a Bratislava nel 1993), Štefan Uher si diploma alla F.A.M.U. nel 1959, dichiarandosi da subito influenzato dal cinema Neorealista italiano e da De Sica e Zavattini in particolare per via della loro propensione verso le persone “comuni” e le vicende quotidiane. Il suo primo film di finzione, Noi della prima A, (My z 9. A, 1962), è un ritratto del mondo della scuola e di un gruppo di adolescenti capace di anticipare dal punto di vista tecnico, in virtù dell'uso sperimentale del colore, le innovazioni che di lì a breve caratterizzeranno l'intero cinema cecoslovacco.

La sceneggiatura de Il sole nella rete è tratta da un racconto di Alfons Bednár (attivo presso gli studi Koliba di Bratislava dal 1960) adattato dallo stesso scrittore (già traduttore di Hemingway, London, Fast e altri autori statunitensi e inglesi). Punto di partenza è l'eclisse solare del 95% visibile in Europa centrale il 15 febbraio 1961.

“Balle!”: questa è la prima parola che viene pronunciata nel film dal protagonista Oldrich “Fajolo” Fajtáin in risposta a quanto appena ascoltato alla radio. Fajolo è un giovane poco conformista che decide di lasciare la sua ragazza Bela per partire come volontario in un campo di lavoro estivo in una fattoria collettivizzata. Una destinazione che fa ipotizzare uno sviluppo in pieno stile da realismo socialista, con il suo armamentario di trattori, campi di grano, donne fiere e volenterose, uomini duri e tenaci con lo sguardo rivolto verso un futuro roseo. Se il film procede sostanzialmente in esterni per quel che riguarda le vicende di Fajolo, si concentra negli interni per quel che concerne la presentazione e l'evoluzione della vita di Bela, la cui esistenza quotidiana e familiare è segnata dalla cecità della madre e dalle regolari infedeltà del padre.

Avvalendosi sia di attori professionisti sia di attori non professionisti, Il sole nella rete s'impone subito come un'opera del tutto anomala. Jaroslav Boč, critico poi divenuto regista di film di animazione, parlando del film definisce Uher come il “Giovanni Battista” della Nová vlna slovacca, sostenendo che la sua pellicola ha il valore di una vera e propria apparizione. Ma non è solo la critica ad accorgersi del film. Alla sua uscita, Karol Bací, Primo Segretario del Partito Comunista Slovacco, dichiarerà: “Finché io mi trovo qui, quest'arte antisocialista non sarà distribuita”. Il film è differente da tutti quelli apparsi fino a quel momento nella stagnante cinematografia cecoslovacca: ampio spazio viene destinato ai conflitti interiori dei personaggi, alla loro difficoltà di comunicare. Significativamente, la pellicola inizia con una lunga serie di inquadrature prive di dialogo culminanti con la sequenza ambientata in cima ad un palazzo della periferia di Bratislava in cui Fajolo e Bela si guardano a lungo senza proferire parole, con l'intrusione di un ricevitore a transistor che tenta di compensare l'incapacità di dialogare dei due. A completare il segmento dal punto di vista sonoro il passaggio sulle teste dei protagonisti di un aereo a reazione, evidente manifestazione delle minacce di un potere incombente.

La “rete” del titolo è evidentemente una metafora della trappola in cui si trovano gli abitanti dei Paesi satelliti dell'Unione Sovietica. Il sole, altrettanto evidentemente, simboleggia la possibilità di un riscatto, al momento sotto scacco. La vicenda narrata è nel complesso semplice, incentrata com'è sulle incertezze dell'amore, sul problema del sistema di valori dei giovani e di quello dei genitori. Il tutto trattato in una forma poetica e metaforica in cui spesso domina il contrappunto sonoro figurativo come si può notare già nelle prime due inquadrature del film, unite dal punto di vista sonoro dal suono del passaggio della sirena della nave e dallo scampanellare del tram nel traffico cittadino.

Per la prima volta ne Il sole nella rete sono protagonisti dei giovani non “modello”, diciassettenni che rappresentano la prima generazione dei nati dopo la Rivoluzione. La contrapposizione tra vecchio e nuovo passa attraverso il contrappunto tra campagna e città, cogliendo alcuni aspetti dell'ambiente urbano e di quello contadino secondo uno stile di ripresa che ricorda da vicino alcune tendenze del cinéma vérité. Da sempre distante da soggetti specificatamente metropolitani (“Sono alieno alla città. La vita rurale mi ha sempre attratto: è più stabile […] c'è più solidarietà, più unità” (2)), Uher imposta il suo film in modo tale che diventi “una superficie sulla quale i singoli avvenimenti si dispongono senza una precisa gerarchizzazione” (3). In questo senso, si pensi alle ricorrenti sequenze dedicate alla passione di Fajolo per la fotografia (delle mani in particolare).

Al pari della precedente pellicola, anche L’organo (Organ, 1964), è sceneggiato da Alfonz Bednár. Uscito in contemporanea con un altro importante titolo della cinematografia cecoslovacca dell'epoca, I diamanti della notte (Démanty noci), esordio al lungometraggio di Jan Němec, è ambientato nella Slovacchia della dittatura durante la Seconda Guerra Mondiale e narra le vicende di un disertore polacco, Brother Felix, che, ottenuto riparo in un monastero francescano, si trova al centro di complesse dinamiche tra gli abitanti del luogo e della cittadina vicina: ipocrisia, menzogna, avidità, pressioni psicologiche. Felix è un maestro concertista e, una volta che le sue doti vengono scoperte dall'Abate, viene incaricato di suonare regolarmente l'organo durante le funzioni religiose.                                                                          

Il racconto delle vicende procede per ellissi, la fotografia rievoca toni espressionisti e la macchina da presa di Uher ricorre spesso all'uso del semi-plongée: ecco le soluzioni stilistiche che caratterizzano questa raffinata parabola sovra-temporale, letta spesso come metafora della natura totalitaria dello stesso regime comunista. In realtà, il film è anche e soprattutto una profonda riflessione sull'arte e la musica in particolare: le composizioni di Bach sono simbolo di nobiltà e di elevazione morale, contrapposte al male e alla negazione di ogni principio di umanità insito in qualunque dittatura. Le rare rievocazioni belliche sono trattate in maniera decisamente atipica rispetto a quanto abitualmente capita nel cinema cecoslovacco: nessun eroismo resistenziale e una particolare attenzione verso il comportamento degli uomini comuni.                                                                                                        

Vincitore del Premio Speciale della Giuria alla dodicesima edizione del Festival di Locarno nel 1965, nei primi anni Settanta L'Organo sarà inserito nella lista dei film proibiti dalla censura cecoslovacca e verrà proiettato nuovamente solo a partire dal 1987.

La metà degli anni Sessanta vede un'accelerazione significativa del fenomeno del “nuovo cinema”, con l'uscita de Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky, 1965) di Forman, Illuminazione intima di Passer, il collettivo Le perline sul fondo, Le margheritine di Chytilová e Treni strettamente sorvegliati di Menzel. Uher si dedica alla realizzazione di una metafora barocca ispirata ad una delle più importanti opere del surrealismo slovacco, Vergine miracolosa (Panna zazracnica), romanzo di Dominik Tatarka uscito nel 1944. Il 1966 è un anno significativo considerata la sostanziale ripresa di una sorta di “surrealismo slovacco”, con alcune mostre e pubblicazioni che vengono organizzate a Bratislava, città in cui è ambientato il film durante la Seconda Guerra Mondiale. Protagonista maschile è Tristan, giovane poeta che un giorno incontra Annabella, misteriosa e a tratti sfuggente ragazza dal fascino magnetico. Invaghito della ragazza, da questa si fa convincere a frequentare un gruppo di studenti surrealisti, i cui appartenenti fanno di tutto per fare di Annabella la propria musa, senza riuscire tuttavia nell'impresa.                                                          

Il clima bellico contribuisce a creare una situazione di angoscia e di oppressione; il tono generale del film è di tipo onirico, in costante oscillazione tra realtà e mondo del sogno. Un certo gusto verso il meta cinema contribuisce a dare vita ad una pellicola che si propone come modello estetico esattamente agli antipodi rispetto al realismo socialista ancora dominante nell'arte dei paesi del blocco sovietico.

Tre figlie (Tri dcéry, 1968) ha di nuovo, al pari de L'organo, una base narrativa di tipo religiosa e Uher ritorna a quell'ambientazione rurale che gli sarà sempre più congeniale di quella cittadina. Un padre rinchiude le sue tre figlie in un convento di clausura per garantire all'unico figlio maschio la totalità dell'eredità altrimenti minacciata dai possibili matrimoni delle ragazze. Ma quando negli anni Cinquanta il governo cecoslovacco impone la chiusura dei monasteri e lo scioglimento degli ordini religiosi, si trova a doverle riprendere sotto il proprio tetto: sarà il momento dell'acutizzarsi di tensioni mai cancellate e di lutti mai elaborati. Già ne L’organo Uher aveva mostrato il problema della fede come uno dei punti centrali dell’identità slovacca. Qui inserisce la questione sullo sfondo del processo di nazionalizzazione delle proprietà (le tre donne sono costrette a lavorare in una grande fattoria collettivizzata), giungendo a ipotizzare formule di funzionamento alternativo delle comuni agricole.

Protagonista di Se avessi un fucile (Keby som mal pušku, 1971) è il dodicenne Vlado, che vive in completa povertà in un villaggio rurale slovacco: qui conduce una vita apparentemente normale, giocando “alla guerra” e sognando di avere un fucile vero, arma che gli garantirebbe il rispetto dei suoi coetanei. Un giorno, lo zio gli consegna un fucile da tenere nascosto per evitare che venga scoperto dai nazisti. Da questo momento Vlado decide di poter essere anche lui un liberatore della Patria, seguendo l’esempio del suo migliore amico, Viktor, che ha deciso di scappare per unirsi alla lotta partigiana.                                                                                                

Se avessi un fucile fa parte di una significativa schiera di film che mostrano la durezza del conflitto bellico attraverso gli occhi di un ragazzino (si pensi solo a L'infanzia di Ivan1962, di Adrzeij Tarkovskij). La vicenda ha molti aspetti autobiografici (Uher durante la guerra aveva più o meno la stessa età del protagonista), nonostante la sceneggiatura nasca da uno script preliminare opera di Milan Ferko e Elio Havetta (quest’ultimo doveva essere anche il regista). Uher, memore della lezione elaborata per La vergine miracolosa, costruisce una pellicola ricca di momenti onirici percorsa da un clima di pericolo costante: nazisti, partigiani, soldati come cani sciolti e più in generale un senso di morte immanente, come un destino ineluttabile. Un film che è anche un tentativo di fare i conti con il collaborazionismo della cultura slovacca ai tempi della guerra e con il nazismo e le idee antisemite che tanto si erano diffuse nel Paese.                                                                                                                                                 

L’opera è di una ricchezza compositiva notevole, basata su alcuni stilemi quali il ricorso a repentini cambiamenti d'asse, a numerosi piani-sequenza e a una profondità di campo elaborata finemente dai quattro direttori della fotografia che hanno lavorato sul set.

Parlando di Jerzy Skolimowski, lo storico polacco Krzysztof Teodor Toepliz ha sostenuto che i cineasti di Varsavia hanno tentato di cogliere a fondo le questioni del socialismo reale, senza riuscire tuttavia a trovare la chiave per un'interpretazione profonda. Chiave che, a suo parere, sarebbe stata trovata dalla Nová vlna, in particolare da quella ceca (5).                                         

La complessa carriera di Uher (che proseguirà con titoli molto eterogenei tra loro come Se avessi una ragazza [Keby som mal dievca, 1976] e Pascolava i cavalli sul cemento [Pásla kone na betóne, 1982], nonché con un’importante produzione per la televisione) mostra una delle strade possibili per ricercare questa “chiave”: una strada fatta di un “realismo complesso”, stratificato, composto di metafore e di simboli. In altre parole, una visione lirica e personale del socialismo reale.

 

IL SOLE NELLA RETE (Slnko v sieti), regia di Štefan Uher, Cecoslovacchia, 1962, 94' (Second Run)
 
L'ORGANO (Organ), regia di Štefan Uher, Cecoslovacchia, 1962, 1964, 91' (Malavida)
 
VERGINE MIRACOLOSA (Panna zazracnica), regia di Štefan Uher, Cecoslovacchia, 1966, 94' (Malavida)
 
TRE FIGLIE (Tri dcéry), regia di Štefan Uher, Cecoslovacchia, 1968, 87' (Malavida)
 
SE AVESSI UN FUCILE (Keby som mal pušku), regia di Štefan Uher, Cecoslovacchia, 1971, 86' (Malavida)
 
 

NOTE

 

  1. Nonostante Il sole nella rete venga considerato l’ “anello di congiunzione” tra il cinema slovacco e quello ceco, molti storici insistono sull'idea dei cineasti slovacchi come vero e proprio fenomeno a sé all'interno della cinematografia nazionale. In questa direzione si veda il saggio di Martin Šmatlá dal titolo Maratoneti solitari su una pista interrotta. Alcune considerazioni sul tema: il mito della “nová vlna” nel cinema slovacco, in Roberto Turigliatto, Nová vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, Festival Internazionale Cinema Giovani – Lindau, Torino, 1994, pp. 169-179.
  2. Come abituale nel cinema dei gruppi di produzione dei Paesi dell'Est Europa, la collaborazione tra regista e sceneggiatore si rinnoverà per una dozzina di altri film. Lo stesso capiterà per il lavoro con l'autore delle musiche originali, Ilja Zelienka, compositore di musiche d'avanguardia con cui Uher collaborerà per altre sei pellicole.
  3. Dichiarazione di Uher riportata in Antonin J. Liehm, Closely Watched Films. The Czechoslovak Experience, Iasp, New York, 1974, p. 211.
  4. Giuseppe Dierna, Una generazione che ha dissipato i propri talenti: onde, mareggiate e riflussi nella cultura ceca degli anni '50-'60, in Roberto Turigliatto, Nová vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, cit., p. 25.
  5. Krzysztof Teodor Toepliz, Jerzy Skolimowski: Portrait of a Debutante Director, “Film Quarterly”, Autunno 1967, p. 31.