Philippe Garrel. Il poeta dei volti. Il più grande del cinema contemporaneo.

Le due asserzioni perentorie che avete appena letto vogliono rimarcare d'emblée quanto sia sguarnito il cinema contemporaneo di una piena coscienza di questa sua specificità assoluta, rispetto al teatro, anche quando è in mano a registi di alto livello. Il cinema muto, lo sappiamo, ne aveva invece una consapevolezza a 360 gradi. Tra le eccezioni, citiamo un caso italiano divenuto un importante caso internazionale: per chi scrive l'inquadratura fissa con il primo piano di Vincenzo Motta seduto tra scogli e gru portuali,  a circa 35 minuti dall'inizio de La bocca del lupo di Pietro Marcello, è tra le più belle esteticamente e tra le più importanti del cinema contemporaneo: mostra una grande qualità plastica, da pittore rinascimental-espressionista (ricordo che la fotografia del film è dello stesso Marcello). Due opposti, il Rinascimento e l'espressionismo, coniugati andando in presa diretta sul corpo stesso dell'immagine fotografica, quindi su quel reale con cui il cinema, unico tra i mezzi d'espressione narrativi, ha un rapporto privilegiato. Ci sarebbe molto da dire su quanto Garrel prefiguri quello che un'intera tendenza del cinema contemporaneo, peraltro tra le più profonde e stimolanti, manifesta oggi nel cinema d'autore d'Estremo Oriente, ma non solo: un cinema delle reminiscenze, della memoria del cinema e non, che crei una rigenerazione dello sguardo e una nuova consapevolezza della visione. Ci vorrebbe però non una recensione, ma un saggio a sé stante.

I volti nel cinema sono tutto, perché filmare un volto vuol dire avvicinarsi, penetrare nella quintessenza dell'umano, quindi del reale. In quel momento, potremmo dire, la specificità del cinema e l'indagine etico-umanistica dell'umanità si coniugano in un tutt'uno. Garrel unisce un procedimento nella realizzazione a infinite prove prima del ciak, proprio come a teatro. Poi fa un solo ciak, per mantenere il “track” iniziale dell'attore. Vale a dire l'emozione primaria, originaria, sia della vita che dell'infanzia: di un essere umano, dell'amore, ma anche dell'arte, come direbbero i dadaisti. Quel dadaismo e quel surrealismo, sia detto en passant, davvero importanti nel cinema di Garrel. nella storia del cinema e in quella dell'arte tutta. E poi Garrel fissa, concatenandole tra loro, queste emozioni primarie. La Jalousie è un film durissimo, nella sua dolcezza, proprio come uno dei capolavori del regista, Les amants règuliers – presentato in Concorso a Venezia nel 2005 dove vinse il Leone d'Argento e primo film dove suo figlio Louis interpreta un ruolo importante – era un film apocalittico di grande dolcezza, e quindi ben meno angoscioso di quanto in realtà non sia. E' duro sulle relazioni uomo-donna, ma l'artista – cioè l'arte –, contrariamente a quanto accade ne Les Amants, non riesce qui nel suicidio. E' un film cesellato nei tagli del montaggio, nei raccordi, per dare l'impressione opposta a quel che il suo fondo veicola. 

Ossessionato dall'idea di indagare i rapporti uomo-donna nella loro essenza – unico punto fermo restante, poiché gli altri due temi caratterizzanti la sua filmografia, la centralità dell'arte e la politica, non se la passano bene: la prima è in declino, la seconda in fallimento, ambedue divenuti elementi di regressione devastanti della contemporaneità – Garrel ci presenta come antidoto un concentrato, un “elisir”, densissimo nella sua leggerezza, di quanto visto in altri suoi film. Vediamo l'artista catturato nella poesia del quotidiano, “ridotto” a persona qualunque: un giovane padre, una bambina, una ex-compagna, un nuovo amore, una sorella, gli amici del teatro. Ambientato nell'oggi, ma come sempre atemporale, la figura interpretata da Louis, nella realtà padre di una bambina appena più piccola di quella del film, è ispirata a quella del nonno Maurice, attore teatrale di grande intensità e veracità scomparso nel 2011, che aveva fatto la sua ultima apparizione cinematografica – rapsodica quanto intensa – in Un eté brulant, presentato in concorso a Venezia nel 2011. Un été brulant, sia detto per inciso, è tra le altre cose un grande film sullo stato attuale dell'Italia e di conseguenza sullo stato di salute della comunità globale: cosa volete che sia il mondo senza l'apporto e un forte rinnovo creativo della circolazione delle idee da parte dell'Italia, vista la sua storia eccezionale? Prigioniera patologica di un provincialismo autarchico dal sapore regressivo neo-fascista, da un lato, e di un paludoso rapporto con il classicismo del Rinascimento pre-unitario, dall'altro, sembra progressivamente smarrire tutto quel che le dava una caratteristica unica e, di conseguenza, un ruolo unico.

Garrel nei suoi film sembra invece capace di trovarsi alla perfezione nello smarrimento. Una delle cose più belle del cinema di Garrel è l'assoluta perdita di punti di riferimento nello spazio-tempo (non) narrativo; il galleggiare in questa sospensione. E' peraltro caratteristica di molti personaggi dei suoi film l'esser privi di una chiara nozione del tempo. Un limbo, per lo spettatore, dove riapprendere il senso della visione insieme al senso della riflessione sugli elementi poetici di base dell'esistenza umana. Il pieno recupero di questa percezione vuol dire entrare nel Paradiso-visione di Garrel, vuol dire essere finalmente "enfants du paradis garellien". E si perdoni l'impertinenza storica.

Come sempre affezionato al tema della filiazione il regista sembra mettere in avanti i rapporti di sangue rispetto agli altri, cesellando con delicatezza, come detto, i frammenti perfettamente accostati di una storia in fondo dolorosa. E raggiungendo così una densità letteraria pur non perdendo nulla in forza visiva. Philippe Garrel, ultimo poeta della Nouvelle Vague, uno degli ultimi del cinema, realizza un film secco, asciutto, una parabola alla Rohmer fusa alla visione del mondo di Garrel, fondata sulla poesia delle immagini e dei volti, spesso appartenenti a una sorta di dimensione ancestrale del cinema, della Francia e del mondo, sebbene relativamente moderna, diciamo a cavallo tra l'Ottocento e la prima metà del Novecento. Rohmer: paradossalmente il regista della Nouvelle Vague forse più lontano dalla poetica di Garrel. E non solo da quella. Ma l'arte, come il mondo, è fatta di paradossi.