Capitolo finale di una filmografia unica nella storia del cinema, The Wind Rises è scandito dallo scorrere, impietoso, di un tempo da cui si vorrebbero spiccare voli verso altre dimensioni.

Se volessimo applicare il vecchio gioco dei paragoni e delle proporzioni per chiarire subito  ciò di cui parliamo, diremmo che Una storia vera sta al cinema di David Lynch quanto The Wind Rises a quello di Hayao Miyazaki. Forse non è solo un caso che le due pellicole condividano un crepuscolarismo sui generis, epico nell’accostarsi ai protagonisti e alle loro piccole/grandi gesta, raffrontandole, con un ritmo narrativo quieto e armonioso, con una realtà esterna che con loro sembrerebbe condividere assai poco. Anche non fosse dichiaratamente l’ultima opera di Miyazaki, The Wind Rises sembrerebbe ugualmente un film che chiude un’epoca. Un’epoca in cui il cinema raccontava sogni colossali e paradossali, capaci anche di naufragare, ma in una parabola travolgente, profonda, vitale che coinvolge più gradi (evolutivi? autodistruttivi?) di un essere umano. Miyazaki si ispira alla storia, vera, di Jiro Horikoshi, che a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 progettò il miglior aereo da caccia del mondo, il Mitsubishi A6M1. Il perché un pacifista ed ecologista convinto come il maestro giapponese, uno che ha descritto le divinità animiste, quando toccate dalla guerra, come demoni in preda alla decomposizione fisica e spirituale, abbia deciso di raccontare una storia simile, per giunta con un’adesione totale al punto di vista del protagonista, diventa immediatamente il centro propulsore di quello che potrebbe essere considerato uno dei suoi lavori migliori in assoluto.

Horikoshi non è contraddistinto da nessun particolare credo politico, quanto piuttosto da una molla filosofica e morale che incarna lo spirito del suo Paese nel periodo nella prima metà del secolo XX, prima del suo definitivo collasso avvenuto al termine della Seconda Guerra Mondiale. Ci accostiamo a lui accompagnati da uno scorrere del tempo impietoso (più o meno un ventennio, dai primi anni Venti ai primi Quaranta) memore di lezioni fordiane in cui l’avvicendarsi delle stagioni e l’abbattersi degli eventi non indebolivano motivazioni radicate quanto granitiche. Horikoshi è un uomo di ingegno, determinato nel lavoro quanto innamorato della bella e purtroppo malata Nahoko. L’amore che infiamma la vita è il cibo dell’anima, ma non basta agli esseri umani: inseguire e realizzare un sogno è la spinta che determina e preserva davvero l’identità di un individuo. Horikoshi ama Nahoko di un amore tenero, puro ed incontaminato, ed è con struggente lirismo che il primo distrugge la seconda (e che la seconda si lascia distruggere dal primo), consumati da un sogno che in fondo ha un solo, grande nemico contro cui combattere: lo scivolare inesorabile della vita. L’ultimo protagonista di Miyazaki lotta per dimostrare che le barriere dello spazio possono essere labili, o sono comunque passibili di manipolazione, ma non può nulla contro l’altra grande variabile che solo il cinema riesce a combattere: il tempo. L’essere umano può solo momentaneamente ingannarlo, lo dimostrano i sogni in è presente il grande modello del film, l’ingegnere italiano Gianni Caproni:  sogni fantasiosi in cui Horikoshi, non evade la realtà, ma ne comprende i limiti e le difficoltà. Eppure, la funzione del sogno è quella di suggerire, accorpare, partorire idee che solo nella durezza e nei limiti imposti della realtà possono essere realizzate: nel frattempo c’è da contrastare però il deperire stesso dell’essere umano, il dolore delle scelte, la morte.

Popolata di ragazzi trascinati loro malgrado nel fantastico o nell’assurdo, la filmografia di Miyazaki trova in Jiro Horikoshi, curiosamente e sorprendentemente, un eccentrico rappresentante di un titanismo razionale in grado di dominare e governare l’assurdità delle proprie inclinazioni, ma non quelle della vita. Che sia il film più personale dell’autore lo dice la coniugazione della sua passione più intima: il volo. A un ventennio da Porco Rosso, il regista, stavolta più che mai, si  mette in gioco in prima persona,  avvicinandoci all’assurdo di un uomo che cerca di realizzare se stesso mentre vede infrangere ogni sua aspirazione (“Di quegli aerei che ho costruito non ne è tornato nemmeno uno” dirà a Caproni nel loro ultimo incontro). Questo contrasto insanabile, come sembrerebbe insanabile in un pacifista che si congeda dalla storia del cinema raccontando di quanto sia poetico un uomo che mette tutto se stesso nel costruire strumenti per uccidere, alimenta un film controverso e straordinario dove nessuna scelta, nemmeno registica, è facile (“Sta all’uomo decidere cosa fare dello strumento che stiamo costruendo” dice ancora Caproni alla fine). The Wind Rises vive dell’ambiguità di una lotta per la vita solo apparentemente incruenta: è un film di grande bellezza nel descrivere quanto l’onda che ci travolge possa essere alta e immane, e quanto sublime e terribile possa essere l’impatto con essa.

 

The Wind Rises, regia di Hayao Miyazaki, Giappone 2013, 126'.