Stati Uniti, 1841. Salomon Northup è un nero nato libero. Vive con la sua famiglia a Saratoga, nel nord dello stato di New York. Una sera viene drogato, rapito e rivenduto come schiavo. Il suo nuovo orizzonte sono i campi di lavoro in Louisiana. I suoi interlocutori sono mercanti di uomini, padroni sadici e guardiani violenti. Northup vive per dodici anni questa spaventosa realtà come un’allucinazione, tenuto in vita solo dal desiderio di sopravvivenza, dalla speranza di riabbracciare un giorno, assieme alla moglie e ai figli, la sua perduta umanità.

L’autobiografia di Northup, pubblicata a metà dell’Ottocento, ha avuto il merito di aprire gli occhi sulla tragedia inumana della schiavitù sbattendo in faccia a un pubblico di lettori prevalentemente bianchi uno sguardo dall’interno su un sistema di sopraffazione che era al centro del dibattito americano più per ragioni strettamente politiche che per profondo sdegno civile. Il film di Steve McQueen ripercorre le medesime orme, scegliendo di mostrare con compostezza l’indicibile, di dare corpo estetico alla sofferenza, di racchiudere nello studio di un’inquadratura il male assoluto che è alla radice dello schiavismo. Il film rimane addosso al suo protagonista, ne scruta le mosse, ne descrive le emozioni, ne saggia la fatica e il dolore. Northup è denudato di qualcosa di più della semplice libertà: è costretto a rinunciare all’alfabeto del suo essere umano, nasconde di saper leggere e scrivere per sopravvivere, abdica di fronte all’orrore, subisce e registra, resiste per non dimenticare.

La materia bollente di questo dolore è però trattata da McQueen con il distacco del puro artista: la macchina da presa cerca angoli studiati e consapevoli, si avvicina restando sempre sull’uscio della carne viva, cerca l’indignazione dello spettatore senza mai sottrarlo al rasserenante tepore della compostezza visiva. Sembra non volersi mai sporcare, riprende il fango senza accettarne gli schizzi, accarezza la superficie del sangue senza immergerci mani e volto, cerca una via di uscita che scuota le coscienze solo per il tempo circoscritto di una proiezione. Il meccanismo è lo stesso già sperimentato in Hunger e Shame. Ma se nel primo caso l’ascesi della composizione delle immagini sembrava fare da contrappunto funzionale alla sparizione fisica di Bobby Sands – il digiuno come forma di sottrazione, della forma e del colore – che portava a un’ascensione cristologica verso un paradiso bianco smagliante, già in Shame l’inferno metropolitano di un sex addict veniva ricoperto da una patina traslucida che guardava più a un ideale cerebrale di trasgressione corporea (non privo di un malcelato moralismo di fondo) che a una sua rappresentazione terrena e finalmente fisica.

Se Shame esemplificava il potere totalizzante del sesso attraverso il congelamento del desiderio, 12 anni schiavo narcotizza l’inumana barbarie attraverso la sua pura rappresentazione. Nulla nel film sembra prendere vita: l’esposizione del dolore assume un carattere liturgico che esorcizza l’orrore rendendolo sopportabile, digeribile, accettabile perché astratto. McQueen viene dalla videoarte e non se ne dimentica mai: la compostezza ieratica delle immagini denuncia al tempo stesso il suo mestiere – il suo, spesso inservibile, talento – e ne delimita il campo d’azione. La prosa quasi notarile del romanzo che sottolineava la normalità di una situazione abnorme si traduce qui in immagini plastiche che dietro una lucentezza ipnotica nascondono una carenza di coraggio, un’incapacità di osare che si concretizza in un’oggettivazione della schiavitù piuttosto che in una denuncia della sua natura, accontentandosi di suscitare un’increspata indignazione passeggera di circostanza.

McQueen è un nero che ha diretto un film sostanzialmente per bianchi – rivolgendosi in maniera consequenziale a un pubblico liberal, forzando l’identificazione con gli schiavisti e non con gli schiavi – ma senza l’orgoglio di scuotere le loro buone coscienze, costruendo un’impalcatura razziale poco meno che rassicurante. 12 anni schiavo legge la Storia in maniera asettica, senza la semplicità retorica di Amistad né la profondità politica di Lincoln – il vero film sullo schiavismo, pur senza schiavi, della contemporaneità – ma neanche la sulfurea e superficiale ribellione del Django tarantiniano, limitandosi a essere un film pavidamente progressista, non immune da una dose di sadismo estetizzante, che scioglie in una messa in scena controllata e chirurgica la sua poca voglia di stupire, di colpire, di ferire. Che ostenta le frustate ma nasconde la mano, per paura di far(si) troppo male. 

 

12 anni schiavo (12 Years a Slave), regia di Steve McQueen, USA 2013, 134'.