Opera seconda del giovane filmmaker tailandese Nontawat Numbenchapol, By the River (Sai nam tid shoer), presentata allo scorso Festival del Film di Locarno, è un film sospeso tra il documentario e il fantastico, che ritrae la piccola comunità di un villaggio nella foresta, la cui sussistenza è minacciata dall'inquinamento del torrente che l'attraversa. Un film che si gioca sul conflitto tra ambiente incontaminato e territorio antropico, natura e cultura.

 

Nel suo pressbook, il film viene ufficialmente definito come documentario, anche se ci sono elementi di fiction. Può dirci qualcosa in merito a questo rimanere in bilico tra le due istanze?

Quando mi trovavo sul luogo l’approccio è stato di tipo documentario ma, in sede di montaggio, ho cercato di raccontare la storia secondo i canoni della fiction. Il materiale che ho utilizzato, le riprese, provengono dal metodo del documentario per cui ho ritenuto opportuno mantenerne l’etichetta. La mia esperienza cinematografica è profondamente radicata nel campo dei documentari.

In una delle prime scene viene definito il particolare contesto del film. Il villaggio è situato vicino al confine con la Birmania e l’idioma utilizzato è una lingua della Birmania. C’è quindi una questione etnica e di confine. In questa scena si vedono i bambini che imparano l’inglese e il thai. Perché questa scena iniziale?

La loro lingua principale non è il thai, è quella del Myanmar. Le generazioni più vecchie non sanno parlare in thai, quelle nuove sì, come lo so parlare io. Nel film si parla un misto di thai e lingua corrente per questo a volte il thai è sottotitolato. Le prime scene dei professori che insegnano la lingua mi interessavano per dare l’idea di come, nelle diverse popolazioni della Tailandia, ci siano persone che, pur essendo tailandesi, non parlano il thai normalmente. Credo che oggi i professori insegnino thai in inglese ed è per questo che la gente lo conosce, come l’ho conosciuto anch'io.

Il film si gioca sul contrasto tra natura e cultura. All’inizio c’è una predominanza della prima, anche nell’aspetto sonoro, e poi c’è una cesura netta. Diventa protagonista il paesaggio antropico, soprattutto con la diga e i fiumi imbrigliati dal cemento. Come ha lavorato per rendere questo contrasto?

L’uomo nel mio film è un simbolo dei problemi che sono arrivati lì, in quel villaggio, come l'inquinamento. Questo fiume porta acqua da Bangkok, acqua contaminata dal piombo. Cerco di mostrare come qualcosa fatto dalla gente di Bangkok abbia influenza sulla gente del villaggio, dove non c’è elettricità, non c’è il segnale per il telefono. Sono molto lontani e diversi dagli abitanti della capitale ma le scelte della metropoli sono legate alla loro vita. La sequenza di immagini nel film è chiaramente costruita, partendo dal villaggio per arrivare alla diga, seguendo lo scorrere del fiume, che connette letteralmente la storia del villaggio riportandola tristemente a Bangkok. Nella prima parte del film pensiamo a una piccola comunità che vive col fiume, poi scopriamo che il fiume è inquinato, manipolato dall'uso che altri ne fanno. Scopriamo che c'è anche un processo in corso per questo caso di inquinamento. È la prima volta che un villaggio, o un’entità privata, in Tailandia ha fatto causa al governo per casi di malattie e deformazioni dovute all'inquinamento. Volevo quindi mostrare che non si trattava veramente di una semplice comunità isolata, connettere la piccola storia del villaggio con la realtà generale del paese, come quello che succede nel suo centro abbia effetti nelle comunità rurali periferiche.

C’è una dimensione di magia, o elementi legati al mito nella parte naturalistica?

Credo che, attraverso i miei occhi, venendo da Bangkok e andando laggiù a filmare, quello che percepisco è qualcosa di mitico. L'uomo della prima parte del film è morto improvvisamente, e, quando giravo la seconda parte, la troupe era molto triste perché non era più con noi nel villaggio. Tutti nel villaggio parlavano di lui come di un fantasma, e dicevano di sentire rumori nella notte, così ho cercato di filmare questa situazione.

Nel film c’è questa immagine della cremazione, del tornare alla natura dopo la morte sottoforma di elementi come la polvere. È una sua concezione che ha voluto mettere nel film oppure si tratta di un elemento intrinseco alla cultura buddhista?

Per la cultura dei buddhisti, quando morirò a Bangkok e mi bruceranno. Alcune famiglie versano le ceneri in acqua, altre le conservano. Nel mio film volevo seguire il personaggio, che poi è morto, inaspettatamente, e l'ho semplicemente seguito, anche se ormai era solo cenere.