Nel corso del South by Southwest Film Festival del 2005 Eric Masunaga, montatore del suono del regista Andrew Bujalski, coniava con il termine “mumblecore” quel disomogeneo movimento di cinema indipendente americano caratterizzato da film a bassissimo budget, spesso in bianco e nero, girati in 16mm con attori esordienti, sceneggiature improvvisate e caratterizzate da un tono sardonico ed informale. Le radici di questi “mumblecorps” possono esser fatte risalire alla nouvelle vague, passando per il Woody Allen fine anni ’70 (Io e Annie, Manhattan) e gli esordi di Richard Linklater (It's Impossible to Learn to Plow by Reading Books e Slaker) Il Torino Film Festival 2013 ha potuto offrire un frammento panoramico di questo movimento con film quali il mokumentary Computer Chess e Frances Ha di Noah Baumbach (il cui titolo, non a caso, rimanda all’esordio di Bujalski Funny, Ha Ha del 2002, grazie al quale il regista avrebbe potuto in seguito fregiarsi dell’appellativo di padrino del mumblecore).

Senza preoccuparsi di generare uno scollamento con la propria precedente filmografia, Bujalski decide di fare con Computer Chess un passo ulteriore proiettando un intero mutamento sociale, culturale e tecnologico all’interno di un modesto albergo, non-luogo per antonomasia, durante un convegno annuale di informatica, in cui programmatori provenienti da tutto il Nord America si sfidano attraverso programmi operativi di giochi di scacchi. Siamo nel 1984, periodo in cui lo sviluppo tecnologico andava dispiegandosi con grande intensità, preparando il terreno a quei protogeek (affiliati a università, corporazioni, o sedicenti imprenditori di se stessi) completamenti votati al tecnoutopismo che andavano inseguendo. I partecipanti al torneo sono così soggetti sia a una competizione tra loro che a una battaglia per il controllo del proprio computer. Per anni il torneo degli scacchi ha incoraggiato l’uomo a esercitare un controllo sulla macchina, approfondendone il livello di comprensione e rendendo la programmazione del software sempre più complessa.

Avvengono così una serie di deragliamenti. Il giovane Peter constata come il proprio computer sia diventato un giocatore migliore nel momento in cui ha iniziato a giocare come un essere umano, rivelando quanto gli uomini siano diventati anch’essi degli automi nel loro attaccamento alle macchine, addestrate a calcolare e reagire in base a un insieme di regole, numeri e modelli. Ma allo stesso modo, studiando e calcolando la reazione umana, il computer compie un passo avanti nel suo processo di umanizzazione: impara a essere imprevedibile. Ed è così che il sistema operativo riesce a sconfiggere “l’uomo” nella finale del torneo, gettandolo nel panico con una serie di mosse apparentemente prive di logica.

La principale spinta narrativa di Computer Chess non proviene dal susseguirsi di eventi in sé, ma dalla sottile dinamica attraverso cui il film riflette sull’ossessione dell’essere umano nei confronti della tecnologia, astraendolo dalla realtà, conducendolo dalle tavolate del torneo a un mondo paranoico in cui il rapporto con le intelligenze artificiali determina la condizione di incertezza della propria esistenza. Quando non sono davanti ai propri monitor, i personaggi si aggirano persi in un’atmosfera onirica, dove orde di gatti e membri di una setta esoterica fanno la propria apparizione nelle stanze e nei corridoi; l’albergo diventa una labirintica e dimessa Marienbad, un luogo in cui i giochi sono fatti e la fuga non sembra nemmeno un concetto considerabile tanto la realtà appare per loro mistificata, "scacchizzata" (come si evince dal sogno dell’unica ragazza ammessa al torneo, che immagina tutti i personaggi come pedine di una scacchiera) e automatizzata (la misteriosa prostituta che si scoperchia il cranio mostrando una scheda madre al posto del cervello).

Quella che Bujaski effettua è una spiazzante decostruzione del principio di interpretazione binaria: non c’è un uomo vs macchina, calcolo vs pensiero, positivismo geek vs primitivismo anthemico hippie; tutto è parte di uno stesso problema, poiché è l’umanità ad essere costantemente in conflitto con sé stessa. In questo contesto è logica la scelta di realizzare le riprese in bianco e nero affidandosi all’antiquata telecamera analogica SONY AVS-3260. L’uso di una tecnologia cinematografica apparentemente nostalgica non fa che sottolineare una modernità monodimensionale, claustrofobica, alla quale si contrappone l’unica sequenza girata a colori, in cui il semifinalista Michael Papageorge ritorna a casa dalla madre dopo la sconfitta. Il colore esprime perciò non tanto un progresso in avanti, quanto piuttosto la necessità umana di tornare nel grembo materno.

 

Computer Chess, regia di Andrew Bujalski, USA 2013, 92'.