Dopo Lo stravagante mondo di Greenberg (2010), la stella del mumblecore Greta Gerwig torna a farsi musa per Noah Baumbach, in un film capace di cogliere con dolorosa ironia lo spirito di una generazione e di incontrare risonanze ben oltre i confini della New York artistoide che fa da sfondo. Insieme al suo pigmalione, l’attrice costruisce dalle fondamenta della scrittura il personaggio di una ventisettenne con l’ambizione della danza che si trova ad affrontare il calvario post-universitario e a varcare una linea d’ombra disegnata da proccupazioni ordinarie – come la ricerca di un appartamento – e da piccole, schiaccianti disillusioni quotidiane.

Frances è in tutto e per tutto figlia di una promessa tradita: quella di poter continuare a sguazzare nel mare magnum di benessere e possibilità presentati su un vassoio d’argento dalla retorica degli anni Ottanta, decennio di bad mothers emancipate da cui la sua generazione ha visto la luce. Questa prospettiva è andata a infrangersi contro lo scoglio del reale, producendo un sentimento che non è tanto di disperazione, quanto di disincanto, nota su cui è costruita l’intera partitura di Frances Ha.

Stupisce che a raccontare un malessere così fresco e ancora in via di definizione sia un regista del 1969, che finora si era concentrato sulle angosce interne al proprio milieu sociale (Il calamaro e la balena, 2005) o relative alla sua generazione (come Lo stravagante mondo di Greenberg). Eppure è proprio grazie al lavoro congiunto con la Gerwig (classe 1987) che Baumbach riesce a innestare una rappresentazione realistica dell’immaginario e del linguaggio giovanile contemporaneo su una narrazione atemporale e contaminata da continue interferenze cinefile. Da qui forse la scelta pauperistica del bianco e nero, digitale dal punto di vista tecnologico, ma assolutamente analogico per calore, luminosità e forza evocativa: da Manhattan a Jules e Jim, fino al cinema di Warhol, sembra davvero folto il campionario di memorie cinematografiche che nutrono l’universo costruito attorno a Frances (che corre per strada sulle note di Modern Love, come Denis Lavant in Rosso sangue di Leos Carax). La stessa Gerwig abita lo spazio del film con una recitazione non convenzionale, che proprio in virtù del bianco e nero vede ridotta l’espressività del volto: a emergere è così un corpo goffo e ipercinetico che si confronta al contempo con le freddure da stand-up comedy e con i capitomboli dello slapstick.

Anche il rapporto fusionale ma platonico con l’amica Sophie è filtrato attraverso modelli del passato, con un lieve montaggio à la Truffaut scandito da un motivo di Georges Delerue. Tuttavia, quando finalmente vediamo la vera Parigi – costantemente desiderata ed evocata dall’estetica del film e dei suoi personaggi – la musica sarà del tutto fuori contesto (Every 1's a Winner degli Hot Chocolate) e lo spirito della Nouvelle Vague molto lontano. Perché quello che la nostra eroina deve apprendere dal suo personale romanzo di formazione è che non esiste una perfetta corrispondenza tra la vita vera e il nostro immaginario, nutrito in buona parte dalle immagini in movimento. E il punto di maggior interesse del film sta proprio nel fare del dettaglio all’apparenza casuale e irrilevante l’espressione sotterranea di questo scollamento. All’universo diegetico descritto manca infatti una perfetta aderenza tra ciò che i personaggi ostentano, emulano, mettono in scena, e il loro significato. La stessa Frances, ad esempio, quasi costretta da una convenzione narrativa, risponde subito affermativamente al ragazzo che le chiede di andare a vivere insieme, ma ritratta pochi istanti dopo, come di fronte a un malinteso. In seguito, in metropolitana, tiene un braccio alzato per far defluire il sangue e poter sfilare un anello incastrato al dito, ma si rende conto di sembrare agli occhi di chi la sta guardando come qualcuno che voglia porre una domanda. E sempre lei che, dopo la partenza di Sophie, si ritrova sola e senza risposte in merito al proprio futuro, al campus deve indossare una maglietta che riporta a caratteri cubitali l’invito “Ask me!”.

Questo rapporto problematico con i segni del reale per i coinquilini bohémien di Frances si traduce invece in moda, comportamento collettivo: qualcosa di disciplinante e, dunque, rassicurante. Non importa che i ritratti di famiglia appesi alle pareti appartengano a degli sconosciuti, o che la scrittura di un terzo capitolo dei Gremlins suoni come un progetto fallimentare già in partenza. Ciò che conta è che la fotografia su pellicola così come i film di Joe Dante siano relitti di epoche diverse, entrambe sciolte in quel gran calderone che è il passato. La cultura hipster, con le sue operazioni di riciclaggio, remix e spesso sarcastico feticismo, viene evidentemente chiamata in causa attraverso questi due personaggi, ma Baumbach e Gerwig evitano di assumere nei suoi riguardi toni apologetici o, al contrario, denigratori. Ne prendono atto come di un corollario ineludibile dell’attuale vita metropolitana, l’altra faccia di un nichilismo diffuso che prova a guardare indietro per sfuggire a un senso di desertificazione del presente. La stessa forma del film, peraltro, sembra riflettere questo atteggiamento, cercando di restituire a un racconto profondamente ancorato al 2013 l’aura incontaminata del passato: senza alcuni dettagli, soprattutto tecnologici, la storia potrebbe infatti essere facilmente traslata ad altri periodi storici.

Quello che forse segna lo scarto maggiore rispetto non solo alle produzioni passate ma anche coeve è la singolarità del personaggio di Frances, difficilmente riconducibile ad altri modelli femminili già esplorati dall’industria dell’intrattenimento. Nonostante le stranezze insistite, non siamo di fronte all’ennesima manic pixie dream girl gradita al maschio indie, né alle Girls di Lena Dunham, a meno di non voler dare del personaggio solo una lettura sociologica. Da questo punto di vista, infatti, Frances condividerebbe molto con le ragazze del piccolo schermo: stesso nomadismo emotivo e fisico, identica precarietà economica. Ma la sua agenda ha altre priorità, il suo corpo goffo e danzante altre aspirazioni (non a caso il sesso è raccontato verbalmente, anche in maniera esplicita, ma mai mostrato). A dispetto del suo desiderio d’amore, all’orizzonte non si staglia nessuna figura maschile di rilievo ma solo l’amica Sophie, e il tragico sentore da fine di un’epoca dato dalla sua partenza. Il tradizionale arco di trasformazione previsto dal coming of age femminile, che vede nell’incontro con l’altro sesso una tappa decisiva per l’autodefinizione di sé, viene così disinnescato a favore di una struttura che potrebbe ricalcare quella finora tutta maschile del bromance. E la risoluzione non può che arrivare come irresolutezza, con una maturazione ancora parziale che disattende le aspettative del genere e un nome incompleto che ha tutta l’aria di uno sberleffo.

 

Frances Ha, regia di Noah Baumbach, USA 2012, 86'.