Virzì recupera un romanzo americano di Stephen Amidon, lo traspone (stravolgendolo) dal Connecticut alla Brianza (qualcuno ha sostenuto che, a suo tempo, fece la stessa operazione anche Visconti con il romanzo di James M. Cain e Ossessione, ma il paragone fortunatamente finisce qui!) e lo sfrutta per raccontare una storia esemplare dell’Italia attuale. Quasi banale la motivazione di Virzì sul perché di questa scelta geografica, ovviamente urticante la reazione leghista a tale scelta.

La prima parte della vicenda è narrata attraverso tre punti di vista differenti, strategia utilizzata per aumentare ancor di più la già notevole dimensione corale della narrazione. Senza voler svelare troppo il finale del film, "il capitale umano" è sostanzialmente il valore che una compagnia assicurativa assegna, con un paradigma ovviamente abbietto, alla vita umana e, nello specifico caso, è significativamente all’incirca pari alla quantità degli interessi realizzati, in modo altrettanto abbietto, da uno dei protagonisti del film, Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio).

Virzì abbandona la commedia, ma comunque si affida ancora a una certa dimensione caricaturale dei personaggi, estrema e grottesca. L’operazione però, forse proprio per questo, non riesce perfettamente. La briosità originale del suo tipico linguaggio, la vivacità innocente dei suoi personaggi, parvenza di un rinnovamento della miglior tradizione italiana (Ovosodo è, a mio avviso, con Caro Diario di Moretti, tra le commedie più importanti degli anni ’90), è completamente scemata, declinata, in questo caso, in un dramma freddo e acritico, appiattito e nel complesso edificante, nella sua radicale discesa e risalita dall’abisso, nella sua superficialità dello “scontro”: tra il basso e l’alto (il salire verso la villa in collina), tra il lusso e la disperazione, tra i genitori (colpevoli) e i figli, tra il buio della notte (o la pioggia della notte del tentato suicidio) e lo splendido sole rassicurante dell’ultima sequenza.

Il cast è d’eccezione: su tutti una bravissima Valeria Bruni Tedeschi, ottima nel ruolo di Carla, moglie di Bernaschi (Fabrizio Gifuni), aristocratica alla deriva, delusa ed alienata in una perenne recita (che culmina con il bacio a Dino Ossola, il quale chiede un bacio “vero”, in un teatro fatiscente, con la camera che li scavalca e li riprende dalla parte del pubblico). I protagonisti però risultano perlopiù psicologicamente svuotati e inchiodati nella loro nicchia macchiettistica: Dino Ossola, pizzetto e occhiali dalla montatura rossa (che ricorda molto il presidente lombardo Roberto Maroni), tipico piccolo imprenditore baùscia, figura tra l’altro  già parecchio  sfruttata, spesso in pessimo cinema di genere; per non parlare del figlio di Gifuni, un satiro comicamente a metà tra Renzo Bossi (il Trota) e Lapo Elkann, viziato, multimilionario diciottenne dotato di suv, la cui ragazza lo lascia (identità di classe?) per innamorarsi dell’antica figura del proletario fragile e reietto, dalla famiglia disagiata e dallo zio sfruttatore.

Significative, per la comprensione del film, due sequenze. Innanzitutto la scena della riunione della futura direzione del Teatro Politeama, gestita dal personaggio della Bruni Tedeschi. Riunione in cui spicca, tra la altre varie macchiette (va doverosamente ricordata la figura del leghista, un paffutello bonaccione, ignorante e con tanto di suoneria del Va’ pensiero…), la critica teatrale de La Prealpina, a cui non piace nulla e nulla può piacere in quanto spocchiosamente afferma: «Il teatro è morto!». Noi non pensiamo ovviamente lo stesso del cinema (…we are!) e infatti mai ci saremmo seduti a quel tavolo, cosa che invece farà poi, metaforicamente, Virzì stesso nella sequenza che segue. Certamente la morte di un certo cinema pare ormai essere già sentenziata, da tempo. Se di morte si vuol parlare, questa morte sta nella non-consapevolezza del dispositivo cinematografico, non-consapevolezza (qualcuno potrebbe chiamarla “forma-informe”, in altri casi semplicemente ipocrisia, certamente non ingenuità) che emerge molto chiaramente nella sequenza in cui viene proiettata Nostra Signora dei Turchi. Con la consueta lungimiranza e lucidità Adriano Aprà, già alcuni anni fa, in una sorta di catalogazione dei vari autori italiani, inseriva Virzì tra i “perbenisti”, registi «che si muovono soddisfatti e compiaciuti entro i canoni della correttezza realistica, rifacendosi spesso, tardivamente e mimeticamente, più che al neorealismo alla commedia all’italiana (che non sempre merita tali eredi), attenti ad andare incontro a un pubblico, un’industria e una critica che si rispecchiano nell’esistente, rappresentanti di un regime estetico fatto di medietà e di mediazioni, privo di forma e di sguardo, dedito a trascrivere sceneggiature e a consacrare attori»[1].

Si può parlare di morte del cinema allora se viene meno, citando ancora Aprà, quella forma pensata, fondamentale anche all’interno del cinema ufficiale, che è “uno stile di scrittura, che si impone in primo piano quale vero contenuto del film. Troppi film di finzione e troppi documentari si contentano o di raccontare una storia o di documentare dei fatti, come se questi contenuti bastassero in assenza di un’ambizione di scrittura”[2]. Ed ecco che le immagini della sequenza di Nostra Signora dei Turchi, probabilmente ciò che c’è di più definitivo (morto?) e non-citabile nella storia del cinema, sono utilizzate esclusivamente come dimensione masturbatoria, quasi un aristocratico filmato pornografico utilizzato per un amplesso tutt’altro che sconvolgente (il classico e degradante tradimento della donna ricca e annoiata, che tanto piace a un certo pubblico), che non solo svilisce la carica eversiva della perenne parodia del Cinema (e della Vita, in cui sarebbe coinvolta Carla stessa) presente in Bene, ma trasforma quest’ultimo in un qualsiasi soprammobile (come quello che Carla regala al marito in seguito al suo girovagare per la città), con cui continuare a sviluppare quella recita stessa. Proprio in questo Virzì si siede a quel tavolo, con quei personaggi, la brutale ricerca (o non-ricerca) della dimensione del metacinema gli si ritorce contro. Anche egli utilizza Bene come un aristocratico soprammobile e non tanto la reificazione (sia chiaro non vogliamo certo parlare di sacralità dell’arte) è da sottolineare, quanto la dimensione cinica e soprattutto grezza della citazione. La domanda potrebbe essere: perché due personaggi di quel calibro, (i quali si erano seduti a quel tavolo), che si incontrano una sera per motivi completamente estranei alla vicenda del teatro (un incontro sostanzialmente sessuale), decidono di dedicarsi a Nostra Signora dei Turchi? Il momento dell’amplesso tra Lo Cascio e la Bruni Tedeschi è il giro di boa, il fulcro della vicenda, è il momento del tradimento catartico, ma soprattutto è il momento in cui avviene il fattaccio dell’incidente stradale (che la madre poteva evitare). È quindi il momento non del delitto e del castigo, ma del delitto con autoassoluzione borghese, autoassoluzione che avviene banalmente grazie alla citazione di Nostra Signora dei Turchi, attraverso la simulata redenzione di Santa Margherita: ti perdono, ti perdono, ti perdono! Ribadiamo: citazione cinica, paradigma ingannevole.

Ben conoscendo i limiti e le contraddizioni dell’analisi di un cinema (almeno nel film in questione) che si occupa criticamente (o che lo vorrebbe) di un sistema economico, pur facendo radicalmente parte di un business forte e spietato, che a quel sistema direttamente afferisce, ci si dovrebbe comunque soffermare sulla consapevolezza e sulle esigenze di tale cinema. È semplicemente questo che simbolicamente intendiamo per sedersi a quel tavolo.

L’assoluzione finale, in cui il pubblico certamente si riconosce, non identificandosi con nessuna delle macchiette presenti, fa in modo che si resti sempre al di fuori di questo sfacelo, quasi fosse una semplice questione privata. La frase del film che tutti ricordano maggiormente è quella pronunciata da Bruni Tedeschi, che in un sussulto ultimo di dignità afferma rivolta al marito: «Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto!». Ciò che pochi ricordano è la risposta del marito: «Abbiamo vinto tutti, ci sei dentro anche tu!». In effetti è così. Il capitale umano non è solo un film sulla deriva economica di una nazione, forse non lo è per nulla. Esso ingloba tutto in una tremenda e infernale campana di vetro, semplicistica pars pro toto politico-economica dell’Italia, ma è un film dove alla fine l’unico a rimetterci effettivamente è il cameriere coinvolto nell’incidente iniziale, personaggio comunque esterno (estraneo) alla vicenda. Abbiamo quindi vinto tutti? Tutti responsabili di una rovina, ma i rovinati chi sono?

Dopo la frase sopracitata, Gifuni chiede alla moglie di occuparsi del personale del catering che serve gli ospiti in un assolatissimo giardino; Carla risponde che gli ospiti sono talmente felici che se gli si offrisse loro il pastone dei cani, lo accetterebbero comunque. Forse questo vale anche per un certo pubblico.

 

Il capitale umano, regia di Paolo Virzì, Italia/Francia 2014, 116'.


[1] Adriano Aprà, Elogio del Cinema degli Anni Novanta, in Zagarrio Vito (a cura di), Il cinema della transizione, Marsilio, Venezia 2000

[2] Adriano Aprà (a cura di), Fuori norma, Marsilio, Venezia 2013, pp. 9-10.